Musei Capitolini L'angoscia va in mostra: il PERTURBANTE dei Romani

È un dato di fatto che cogliere lo stato d’animo di un romano del secondo e terzo secolo dopo Cristo osservando un ritratto in scultura dell’epoca è cosa ardua. Per ovvie ragioni: non conosciamo il personaggio, ma soprattutto diciotto secoli di storia ci separano dal suo mondo e dal suo modo di vivere. Si aggiunga il fatto che un ritratto dell’epoca partecipava della scena pubblica sulla quale si proiettava e come tale ne acquisiva il linguaggio e il senso retorico. La storia è sempre una narrazione di qualcosa che in gran parte ci sfugge quanto più è lontano nel tempo ciò di cui si parla; bisogna immaginare, pensare, ipotizzare ma la certezza che si sia giunti a una verità (a volte diversa da quella affermata dai documenti o dai testi coevi), non è mai assoluta. Figurarsi se si entra in questioni “psicologiche” come quella cui si lega il tema della straordinaria mostra allestita ai Musei Capitolini sull’Età dell’angoscia,  quella tra il 180 e il 305 d.C., ovvero dall’avvento 
di Commodo alla morte di Diocleziano (che lascerà il trono a Costantino, imperatore che segna lo spartiacque oltre il quale il cristianesimo diventerà religione di Stato). 

L’angoscia si lega, nell’interpretazione dell’epoca in questione, al concetto di decadenza. Forse il “sintomo” più rilevante, per capire il rivolgimento totale che caratterizza quei secoli, è il contrappunto fra la perdita di centralità di Roma dopo la morte di Commodo (che fu, in un certo senso, il conato dell’epoca precedente segnata dalla grandezza imperiale voluta da Marco Aurelio) e il moltiplicarsi delle sedi imperiali e di nuove imponenti architetture il cui aspetto, come sottolinea Claudio Parisi Presicce (che con Eugenio La Rocca e Annalisa Lo Monaco cura la rassegna), spesso è quello di castelli fortificati. Parisi nota anche, di rimando nella bibliografia, che urge un lavoro storiografico sul fenomeno delle “città capitali” degli imperatori. 

L’impressione è che questa perdita della centralità spinga gli imperatori a disseminare sui territori dominati una architettura di presidio del potere, un’architettura fortemente militarizzata nella concezione, pronta a rendere la forza di un imperium che in realtà si sfalda per ragioni economiche, per l’influenza delle religioni che vengono da Oriente e per una profonda crisi dei valori morali. L’arte ne capta (o ne anticipa) i sentori. Abbiamo assistito a qualcosa del genere anche nel Novecento: il monumentalismo dei regimi enfatizzava le forme per tenere sotto controllo le spinte disgregative di un corpo sociale che combatteva con l’incertezza del futuro. 

Sia Parisi che La Rocca evocano il libro di Auden del 1947: L’età dell’ansia, che diventa quasi il testimone retrospettivo di un’analogia tra il tardo impero romano alla crisi antropologica del “secolo breve”. Certo suona allusivo il breve excursus sull’angoscia che Parisi compie chiamando in causa oltre ad Auden, Kierkegaard e Heidegger. L’angoscia non è la paura, che di solito si lega a una minaccia precisa, è un sentimento suscitato da qualcosa che resta incircoscrivibile, come un’aura negativa, o, avrebbe detto Freud, il “perturbante”. Sentire la terra venir meno da sotto i piedi ma non poter attribuire il fenomeno a un centro tellurico: il crollo è una possibilità, un sentimento diffuso d’instabilità, che ci fa “sentire” la fragilità del mondo anche se i muri ancora non tremano. Per quanto riguarda il tardoantico è trascorso oltre un secolo da quando Franz Cumont mise in luce l’influenza delle religioni orientali (considerava tale anche il cristianesimo) sul paganesimo romano; molte cose che scrisse sono state superate da un’articolazione più specifica sul piano degli studi socio-storici (vedi le ricerche di Peter Brown) e storico-religiosi, ma l’analisi di una nuova e diversa “emotività” esistenziale rimane calzante: col cristianesimo e i culti orientali, diceva Cumont, la religione romana «cessa di essere legata a uno Stato per divenire universale; essa non è più concepita come un dovere pubblico, ma come un’obbligazione personale; essa non subordina più l’individuo alla città, ma pretende innanzitutto di assicurare la sua salvezza particolare in questo mondo e soprattutto nell’altro». 

  Lo sforzo che viene compiuto dai curatori della mostra è quello di articolare, su materiali in gran parte presenti nei depositi dei Musei Capitolini, ma con prestiti internazionali importanti, una prospettiva più ampia che non leghi quella svolta soltanto all’avvento del cristianesimo: per quanto, l’idea di Brown – ricordata da La Rocca ed espressa nel lontano 1978 – che nel III secolo d.C. non vi fu una rivoluzione indotta dalla nuova religione che sia paragonabile come impatto alla spinta indotta dal movimento dionisiaco che mutò la percezione del sacro nel mondo greco, resta valida retrospettivamente alla luce del processo che portò il cristianesimo a diventare la religione dell’impero fino ad assimilare certe manifestazioni del paganesimo rovesciandone il valore semantico: basti pensare all’iconografia del Buon Pastore, di cui in mostra è esposta la scultura del III secolo rinvenuta in uno scavo a Porta San Paolo verso la fine dell’Ottocento. Si potrebbe dire una dirompente continuità tra cristianesimo e cultura latina che ha fondato l’Occidente. 

La trama su cui questa mostra si distende ha nel ritratto il filo conduttore con decine di teste e busti dell’epoca; a questo si legano affondi sulla presenza militare, sulla strutturazione urbana di Roma, sulle dimore private, sulla religione e, nelle due sezioni conclusive, il rapporto con la morte e gli usi funerari. Proprio nel Sarcofago di bambino della Fondazione Santarelli, databile al 220 d.C., la figura della mano che sorregge il volto affranto dei congiunti riprende una forma tipica dell’angoscia: la malinconia indotta dalla perdita, a cui corrisponde una compostezza nel portare il “dolore di vivere” che pare mettere a frutto la pedagogia della morte cristiana (nei Padri della Chiesa è ricorrente la critica alle manifestazioni di abbandono eccessivo al dolore, come nelle prefiche greche, perché era il sintomo di un attaccamento alla terra e della mancanza di fede nella promessa del riscatto di Cristo). I ritratti che accolgono il visitatore fin dalla prima sala del Museo ci attirano forse più per gli elementi accessori che per una evidente testimonianza di angoscia come oggi spesso viene intesa: è invece un’angoscia severa, introiettata (non in senso psichico, bensì in una forma virile, una padronanza di sé che è un modo di resistere, se vogliamo, allo sfaldamento del proprio mondo): il ritratto di 
Commodo come Ercole con i torsi di Tritoni sembra già una manifestazione ironica della fiducia nel proprio passato rispetto a un futuro che si annuncia declinante. 

  Bernard Berenson, scrivendo della forma “non eloquente” di Piero della Francesca, scherniva il gusto di chi ha bisogno delle espressioni forti, drammatiche, lacerate, per esprimere un sentimento. Arrivava a dire che nelle figure di Piero «l’energia vitale si manifesta nell’azione di polsi e caviglie», e aggiungeva: «Se pensano o sentono qualcosa in particolare, i loro lineamenti non lo tradiscono. Essi sono rappresentati in quanto esistono, in sé e per sé, con tanto poco da dire, oltre a ciò che la loro forma e sostanza già rivela, quanto cime di monti all’orizzonte». Così, questa mostra ci invita a leggere l’angoscia in un impercettibile movimento delle sopracciglia, in uno sguardo obliquo, nell’accuratezza con cui è resa un’acconciatura dei capelli, nello scavo delle rughe su un viso. Mai in un abbandono esplicito al demone della disperazione. È così che ci si mostra all’altezza del proprio passato. Quando tutto crolla saper guardare in faccia il pericolo come se si andasse incontro alla vittoria. 
avvenire.it

La Cappella di Teodolinda torna a splendere

Riapre al pubblico, dopo un restauro durato sei anni, la cappella di Teodolinda del Duomo di Monza, capolavoro riconosciuto dell'arte gotica internazionale ad opera degli Zavattari. Nell'altare della Cappella è inoltre custodita la Corona Ferrea, che secondo la tradizione è stata forgiata con il ferro di uno dei chiodi utilizzati nella crocifissione di Gesù. 

Il progetto, costato tre milioni di euro e varato nel 2008 da Regione Lombardia, Fondazione Cariplo, World Monumento Found, Marignoli Foundation e Fondazione Gaiani (responsabile della gestione del patrimonio artistico di Duomo e Museo del Duomo di Monza), ha visto al lavoro decine di restauratori guidati dallo studio milanese di Anna Luchini, capaci di ridare vita e luce agli affreschi. 

Oggi si è tenuta la cerimonia di inaugurazione per la riapertura al pubblico. Si tratta di "un gioiello straordinario - ha sottolineato l'assessore regionale lombardo Cristina Cappellini - torna a essere patrimonio dei cittadini monzesi". "La Cappella di Teodolinda - ha aggiunto - avrebbe tutte le carte in regola per entrare a far parte del sito seriale già patrimonio Unesco che interessa le realtà longobarde".

I restauri sono durati 6 anni, un anno in più di quanto impiegato dagli artisti che realizzarono gli splendidi affreschi della cappella, collocata nel Duomo di Monza. Questi furono realizzati tra il 1441 e il 1446 da Franceschino Zavattari e i figli Gregorio, Giovanni e Ambrogio. I quattro dipinsero a secco utilizzando tempera a olio e uovo, ma anche pastiglie in rilievo di gesso e colla. Il tempo però aveva danneggiato gravemente le pitture, anche in seguito al degrado del materiale usato per dipingere.

L'opera è molto complessa in quanto consta di ben 45 scene, che raccontano di Teodolinda e di altri personaggi del mondo longobardo. L'opera era stata pensata per legittimare la presa del potere da parte di Francesco Sforza grazie al matrimonio con Beatrice Maria Visconti. 
avvenire.it

Tra Africa ed Europa a bordo di "Iolanda" per lanciare ponti fra le sponde del Sud

Si chiama "Clandestine Integration": è un progetto nato in Sardegna e che porterà un equipaggio formato da artisti delle due sponde del Mediterraneo a percorrere, a partire dal 15 giugno, una rotta di 1300 miglia da Siviglia a Mazara del Vallo. Il tentativo di costruire uno spazio di dialogo e confronto per provare a tessere relazioni nuove (e pacifiche) tra i popoli dei due continenti


Una barca e il suo capitano, 8 tra scrittori, illustratori e blogger delle due sponde del Mediterraneo, un mediatore, due “ambasciatori” di Africa ed Europa. Pochi metri quadrati di spazio per vivere e il vento per navigare: da Siviglia a Mazara del Vallo, dalla Spagna alla Sicilia, percorrendo per due mesi la sponda sud tra Tangeri, Algeri e Tunisi. Sono questi gli ingredienti di “Integrazione Clandestina” un progetto nato su un’isola (e non poteva essere altrimenti), la Sardegna, grazie alla volontà della cooperativa Abracadabra Onlus di Sassari, e cresciuto coinvolgendo realtà di diversi Paesi: dalle università di Sassari e di Siviglia, all’associazione culturale marocchina “Vulture Culture”, la fondazione spagnola “Sevilia Acoge” e molte altre realtà e cittadini che si stanno mobilitando in questi mesi.
 
Un progetto condiviso. “La rete di Integrazione Clandestina - racconta Gabriele Di Pasquale, coordinatore del progetto - è in continua crescita ed è aperta a quanti ne condividono la visione e abbiano voglia di camminare insieme. C’è uno zoccolo duro di persone che in questi mesi si sta occupando soprattutto delle questioni pratiche, legate alla partenza della barca, ma tutto il resto ed in particolare il dialogo che vorremmo nascesse attorno a questa esperienza, vogliamo costruirlo insieme”. Sono due gli strumenti attraverso cui “Integrazione Clandestina” vuole provare a portare avanti questo incontro: il viaggio e l’arte. “A bordo di una piccola barca a vela come la nostra - spiega Di Pasquale - si vive in un contesto che obbliga a rapportarsi e confrontarsi con l’altro. Non si può scappare o guardare dall’altra parte. Per questo crediamo possa essere uno spazio privilegiato per un’idea di integrazione che è l’esatto contrario dell’omologazione, perché nasce dalla scoperta e dalla valorizzazione delle differenze. Ai partecipanti chiederemo di raccontare questa loro esperienza attraverso l’arte e i suoi diversi linguaggi così da abbattere anche la barriera linguistica”. Da questo laboratorio galleggiante nascerà così un libro a più voci che verrà pubblicato nel prossimo autunno e presentato in dicembre durante un incontro pubblico a Sassari.
 
Aiutiamola a partire. Il viaggio di “Iolanda”, questo il nome della barca a vela, partirà ufficialmente il 15 giugno prossimo da Siviglia, ma il percorso verso la partenza è già incominciato da tempo: 195 giovani da circa venti Paesi nei due continenti hanno presentato, nelle scorse settimane, la loro candidatura per salire a bordo. Tra questi verranno scelti gli otto membri dell’equipaggio che si alterneranno in turni di due settimane. Ora resta solo un ultimo scoglio da superare: raccogliere i fondi (circa 10mila euro) necessari per la partenza. Per questo è stata lanciata la campagna #facciamolapartire che si appoggia alla Piattaforma Produzioni dal Basso della rete di Banca Etica attraverso cui è possibile contribuire.
 
Perché Integrazione Clandestina? “Al lancio di questa nostra campagna - confida Gabriele di Pasquale - alcune persone ci hanno chiesto perché avrebbero dovuto contribuire ad un progetto come questo. Noi siamo convinti che il Mediterraneo debba tornare ad essere elemento d’unione tra le terre che la racchiudono, perché è necessario che le sue genti s’incontrino e si conoscano, perché è da tali processi che nasce la ricchezza e il progresso dell’essere umano. Incontrarsi, imparare a conoscersi e a fidarsi, gli uni degli altri, è l’unico vero antidoto agli estremismi che sembrano prendere piede nella nostra società. Parlare della necessità del dialogo e dell’integrazione non basta più, è arrivato il momento di mettersi in gioco in prima persona ed è quello che vorremmo provare a fare”.
 
Il coinvolgimento delle comunità. Un viaggio che i promotori vorrebbero fosse contagioso, tanto da non restare circoscritto alla realtà della barca, ma coinvolgesse le comunità toccate dal viaggio e quanti potranno seguirlo attraverso internet. “Vorremmo che il viaggio in mare - conclude Gabriele - fosse un punto di partenza, uno stimolo, per favorire un confronto che possa coinvolgere anche tante altre persone e comunità nei due continenti. Non solo le comunità in cui Iolanda farà tappa, ma anche tante altre persone che accetteranno di mettersi in gioco con noi. Sul nostro sito internet (www.clandestineintegration.org) sarà attivo un blog in cui pubblicheremo i contributi di artisti e scrittori dei due continenti che, pur non partendo fisicamente, hanno accettato di camminare con noi”.
agensir

L’Italia è così: un popolo di navigatori, di santi, di Ct della nazionale, di premier. E di amministratori delegati delle Ferrovie. Di Stato o private, non importa...


Binario 2, stazione di Roma Tiburtina, ore 9.55 di venerdì 6 febbraio. Ho sorseggiato un cappuccio caldo, ho acquistato una bottiglia da mezzo litro di minerale gassata, ho un paio di giornali e il pc. Tutto l’occorrente per il viaggio che mi porterà a Milano Porta Garibaldi, dove l’arrivo del treno ad alta velocità Italo è previsto per le 13.18. Il maltempo imperversa sulla penisola, gli Appennini sono battuti dalla neve, Bologna, Piacenza, Cremona e la pianura padana sono a rischio. Il traffico sui binari si preannuncia difficoltoso. In Italia succede sempre così, complici i mass media: d’inverno c’è l’emergenza neve, d’estate si mettono in guardia i cittadini dall’emergenza caldo. E per fortuna non ci sono più le mezze stagioni! Detto fatto: l’agenzia Sir mi dà l’incarico di salire a bordo e raccontare il “viaggio della speranza”.
 
Inviato per un giorno. Ed eccomi dunque al binario 2 a Tiburtina. Italo arriva puntuale: una giovane addetta al treno - che un tempo avremmo chiamato bigliettaia - mi invita molto garbatamente a prendere il posto e si offre persino di aiutarmi con la valigia (i capelli brizzolati producono questi effetti indesiderati). Mi accomodo, sistemo lo zaino, levo il cappotto, apro il computer e mi collego alla rete wi-fi, che però fa un po’ i capricci. Si parte. I sedili sono comodi, il vagone non affollatissimo, ben riscaldato, direi persino pulito. Gli altoparlanti annunciano, in italiano e in inglese, che siamo partiti (me ne ero accorto…) e che le prossime tappe saranno Firenze Santa Maria Novella, Bologna, Milano Rogoredo, Milano Porta Garibaldi e poi via, fino a Torino. La gente chiacchiera, un giovanotto discute ad alta voce al cellulare. Due studenti universitari sorseggiano caffè da un termos portato da casa. Un signore accanto a me sfoglia il “Corriere” e commenta fra sé un paio di notizie. Il paesaggio esterno cambia: dall’Urbe si passa alla periferia capitolina, poi alla pianura laziale, quindi le colline della bassa Toscana. Qui un annuncio prudente: “Stiamo viaggiando con circa mezz’ora di ritardo per via delle avverse condizioni atmosferiche. Terremo informati i passeggeri bla bla bla”.
 
Un “rosario laico”. Mezz’ora di ritardo su poco più di tre ore di percorso. “Poteva andare peggio”, penso tra me. Ma il signore del sedile accanto attacca a borbottare. “È una vergogna, per due fiocchi di neve si ferma l’Italia. Uno prende il treno ad alta velocità perché ha fretta ed ecco cosa succede”. Azzardo: “Beh, i siti on line dei giornali parlano di forti nevicate e grandi disagi. Speriamo che la situazione migliori”. “Speriamo un (caspita) - sbotta il distinto sessantenne -, questa è l’Italia. Il Paese va sempre peggio. Io devo arrivare a Milano per le 4 del pomeriggio perché ho una visita dal cardiologo. Non ci sono scuse, è una vergogna”. La parola “vergogna” gli ritorna sulle labbra per una decina di volte. Una sorta di “rosario laico”, intervallato da anatemi contro la politica, contro lo Stato, contro la “burocrazia che soffoca l’economia”, e via discorrendo. Oltre Firenze il ritardo si accumula e a Bologna il treno si ferma accanto ad altri mezzi ad alta velocità. Tutti fermi: Freccia Rossa, Italo. Un altro addetto passa vagone per vagone e spiega: “Signori scusate. La circolazione è al momento bloccata per via delle forti nevicate. Ci sono problemi alla linea elettrica. Si parla di una sosta di almeno 20 minuti. Per qualsiasi esigenza, siamo a disposizione”.
 
“Ma se rinasco…”. I minuti passano. Diventano 30, 45, 80, in tutto diventano 110. Il malumore serpeggia. Una mamma con un bimbo di 5 o 6 anni chiama il marito per rassicurarlo: “Alessandro, ciao. Sì. Siamo fermi, ma siamo al caldo. Carletto disegna. Ti faccio sapere…”. Due donne avanti con l’età si scambiano delle caramelle: “Per addolcire la giornata”, esclama una. Un ragazzotto dall’aria simpatica prova a risollevare gli umori: “Se la sosta fosse stata alla stazione di Napoli avremmo avuto qualcuno pronto a venderci panini, aranciate e caffè”. Ilarità generale. Solo l’uomo sui 60 ha da ridire: “Non c’è niente da ridere. Se rinasco, non voglio più rinascere in questo Paese di (marmellata)”.
 
Un popolo di santi e di Ct. In quel momento entra nel vagone la terza addetta in divisa. L’uomo le intima di fermarsi e parte la predica: “Ma perché non partiamo? Se nevica non c’è mica bisogno di spalare i binari. E poi cosa ci vuole a far muovere ‘sto treno. Signorina, quanti treni ci saranno in giro a quest’ora…”. La ragazza ascolta, annuisce, sorride con garbo facendo sì con la testa. Abbozza una spiegazione, piuttosto logica. Dal fondo della carrozza si alza una donna rabbuiata che urla: “Ma la racconti a qualcun altro”. Il passeggero al mio fianco rilancia, spiegando, per filo e per segno, come avrebbe risolto lui la situazione. “Ahó, ma chi sei? Un ingegnere ferroviario?” - rilancia il giovanotto simpatico che questa volta sfodera un colorito accento romano. “Te chiamano Sor Italo?”. Mi è impossibile trattenere una risata. Il signore si offende, si alza e cambia carrozza. Nel frattempo una mano amica deve forse aver spalato i binari. Il convoglio si muove e sfreccia fra Emilia e Lombardia. Poco prima delle 15.30 siamo a Porta Garibaldi. Ce l’abbiamo fatta. L’Italia è così: un popolo di navigatori, di santi, di Ct della nazionale, di premier. E di amministratori delegati delle Ferrovie.
agensir