Arte Guggenheim, mecenati del bello



Oggi difficilmente un singolo individuo potrebbe compiere, da solo, un’impresa simile a quella che i Guggenheim realizzarono costruendo il loro museo intorno alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso. Lui, lo zio, Solomon Guggenheim, cominciò a collezionare arte seguendo i consigli di una baronessa e modesta artista di cui si era invaghito; lei, la nipote, Peggy, fino ai quarant’anni non poteva certo considerarsi una esperta d’arte e solo dopo aver conosciuto e frequentato Marcel Duchamp (e non solo lui), prese ad acquistare, almeno all’inizio, un quadro al giorno. 
Da allora a oggi la catena Guggenheim è diventata una multinazionale dell’arte, un brand come si dice, che ha contribuito addirittura a cambiare l’idea stessa di museo. Allora verrebbe da chiedersi, certo oziosamente, che giro avrebbe fatto e a quale approdo sarebbe giunta l’arte europea astratta e surrealista e l’intera arte americana del dopoguerra se non fossero esistiti questi mecenati dalla sensibilità e intuito impareggiabili. Ora una bella mostra (catalogo Marsilio) a Firenze, a Palazzo Strozzi, ripercorre le vicende intrecciate dei due Guggenheim attraverso le opere degli artisti che amarono e promossero. 

Si tratta, lo precisa il curatore Luca Massimo Barbero, di un «racconto possibile» delle avanguardie europee e americane attraverso un nucleo di opere, in gran parte molto note considerate “cardine” dell’arte del Novecento, che raramente si trovano esposte, l’una accanto all’altra, come in questa occasione. Per molte di esse, ben ventisei delle oltre cento selezionate per la mostra, è una sorta di ritorno all’origine, nel senso che da Palazzo Strozzi sono già transitate. Capitò in una occasione molto speciale, quando nel febbraio del 1949 avvenne l’inaugurazione degli spazi della Strozzina dove Peggy Guggenheim presentò la propria collezione che poi troverà collocazione a Venezia a Palazzo Venier. 

Emblematicamente ispirata all’opera di Marcel Duchamp Boite en-valisedove l’artista raccoglie le copie in miniatura di tutti i lavori eseguiti sino ad allora (siamo nel 1941) per rendere trasportabile la loro storia, così la mostra è costruita come un viaggio intorno alle opere, alle biografie e allo sviluppo delle collezioni che hanno definito il concetto di arte moderna. Un viaggio che, dal Surrealismo all’Action Painting fino all’Informale e alla Pop art, con Solomon Guggenheim (1861-1949) nasce dall’idea purista dell’astrazione come assenza di figura e dall’arte di Vasily Kandinsky in particolare. Il percorso di Peggy (1898-1979) prende le mosse da sceltra te che paiono più radicali e trasversali orientate verso le avanguardie europee, dal Cubismo al Surrealismo, non trascurando tuttavia le punte di eccellenza dell’astrattismo internazionale. 

Tra le opere esposte, distribuite in nove sale corrispondenti ad altrettante sezioni tematiche, è presente Il bacio (1927) di Max Ernst, manifesto dell’arte surrealista che Peggy incoraggiò e raccolse con passione nelle sue varie espressioni. Soprattutto quelle che mostravano le contaminazioni le esperienze americane ed europee che porteranno all’Espressionismo astratto (Gorky, Baziotes, Gottlieb, Still) cui la mostra offre ampio spazio. Ecco anche la monumentale tela di Kandinsky Curva dominante (1936) che Peggy vendette nel corso della seconda guerra mondiale valutando in seguito quella cessione come una delle «sette tragedie» della sua vita di collezionista. Una sala comprendente ben diciotto opere è assegnata a Jackson Pollock del quale viene ricostruito il percorso creativo, dagli esordi in cui si avverte l’influenza di Picasso e del Surrealismo alle opere realizzate con la tecnica del dripping. 

È la volta poi della grande pittura americana con le superbe presenze Robert Motherwell, Morris Louis, Helen Frankenthaler, Kenneth Noland, Frank Stella e dell’emozionante e coinvolgente focus dedicato a Mark Rothko. Gli anni Sessanta, che vengono aperti con il capolavoro di Jean Dubuffet L’istante propizio, sono contraddistinti da un’arte minimale e astratta rappresentata dalla tecnica calligrafica di Cy Twombly, dall’esattezza formale di Ellsworth Kelly, dai tagli di Lucio Fontana. Tutto sommato un percorso elegante e sofisticato, il loro, che viene interrotto dall’esplosione dirompente della Pop art: del fatidico 1968 è l’opera di Roy Lichtenstein Preparativi con cui l’artista, attraverso il tipico stile puntinato che rimanda al fumetto, prende posizione contro la guerra in Vietnam.

Avvenire

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