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Mostra. Giorgione, il silenzio dell'amicizia

Due sedi prestigiose, Palazzo Venezia e Castel Sant’Angelo, per una mostra che, in sostanza, ruota attorno a un solo quadro, il Doppio ritrattodi cui si discute ancora l’autografia, anche se molti studiosi sono concordi nell’assegnarlo alla mano di Giorgione. L’opera – come ricorda introducendo il catalogo della mostra la direttrice del Polo museale del Lazio, Edith Gabrielli –, entrò nelle collezioni del Museo Nazionale di Palazzo Venezia nel 1919 assieme a un nucleo di opere appartenute al principe Ruffo di Motta Bagnara, e fu in sostanza anche l’atto di nascita del museo. Già nel 1927 il trentasettenne Roberto Longhi aveva scommesso sull’autografia, ma la disputa non si è mai conclusa veramente. La mostra (aperta fino al 17 settembre) s’intitolaLabirinti del cuore. Titolo un po’ lezioso, a dire il vero. Sottotitolo: Giorgione e le stagioni del sentimento tra Venezia e Roma, più didascalico – segnala appunto il ponte culturale a cavallo del XV e XVI secolo fra l’esodo culturale dalla Repubblica marinara e la Città Eterna –, ma sempre un po’ zuccherino. La realtà è che qui si vuole parlare della «poetica degli affetti», termine più congruo che, fra l’altro, collega la nascita di un genere agli sviluppi che giungono fino al Seicento e a Guercino, per esempio.
Il testo della Gabrielli ruota su qualche contraddizione: si dice che il catalogo è stato pensato come «strumento di lavoro», quindi rivolto agli studiosi, ma poco dopo si sottolinea che si è voluto fare una mostra «in grado di farsi capire da tutti, di parlare a tutti, nella convinzione che qualità scientifica e comunicazione non costituiscano necessariamente un ossimoro ». Non mancano omaggi al gergo inglese – «una moderna cross dissemination » per dire una comunicazione che offre oltre ai classici pannelli una serie di strumenti multimediali –, e infine si svela il vero intento della mostra, «semplice e chiaro»: «Promuovere la conoscenza e la qualità della fruizione di Castel Sant’Angelo e di Palazzo Venezia, vuoi degli edifici vuoi delle collezioni permanenti». Tutto questo con un centinaio di pezzi fra dipinti, sculture, oggetti, libri e opere grafiche. Povero Giorgione (o chiunque sia l’autore del quadro), usato come adescatore di pubblico per due monumenti dove sono conservate opere di grande pregio (basti dire delle sculture del XIV e XV secolo esposte a Palazzo Venezia oppure, sempre lì, la bellissima testa di Cristo dell’Angelico).
Il fatto è che questa mostra non è per chiunque, non è una mostra su Giorgione, e forse non è nemmeno una mostra sui ritratti. Non nasce come risoluzione di problemi storiografici, ma come spunto per una riflessione aperta sulla nascita della «poetica degli affetti» che il curatore Enrico Maria Dal Pozzolo cerca di dipanate attorno a un quadro importante, ma su cui non è stata scritta ancora l’ultima parola (verrebbe da dire, se ragionassimo da storici, che manca la pezza documentaria o meglio una data in qualche reperto d’archivio, che tagli la testa al toro sulla paternità dell’opera). I materiali esposti vogliono testimoniare la presenza culturale dei veneziani a Roma, in un difficile crinale che vede alcuni letterati emigrare dalla Serenissima già avviata verso la crisi di quei valori che l’avevano definita anche come ponte verso l’Oriente (Pietro Bembo, Vincenzo Orsini, Niccolò Tiepolo, Tommaso Giustiniani...). Passaggio a Roma fu anche quello di Pietro Barbo, che divenne papa col nome di Paolo II nel cui stemma compare l’emblema della sua stirpe e il leone. Queste presenze preparerebbero il clima mentale di cui sembra nutrirsi il Doppio ritratto che imprime una svolta attraverso la quale il ritratto tende a umanizzarsi, la pelle traspira i moti dell’anima che plasmano i volti, secondo un “sentire” che non è soltanto dei sensi ma anche dell’intelletto e dello spirito.
Prima di salire al soglio pontificio Paolo II era stato un raffinato collezionista, raccogliendo monete, gemme, cammei, coppe di epoca ellenistica e romana. Un altro veneziano eccellente, il cardinale Domenico Grimani, risiedeva a Palazzo Venezia e oltre a essere un grande collezionista fu probabilmente anche un committente di Giorgione, come ricorda Dal Pozzolo. Il simbolo veneziano, san Marco (e il leone), fu l’emblema nella Città Eterna del «mito di Venezia»; lo ritroviamo in sculture dell’epoca, in dipinti, ma soprattutto nella memoria storica di Palazzo Venezia già donato da Pio IV alla Serenissima e che fino a quel momento era noto come Palazzo di san Marco.
Nella sede di Castel Sant’Angelo si dipana invece la sezione più di contesto al discorso ritrattistico e al sentimento. Sul piano librario la mostra spazia dall’Hypnerotomachia Poliphilistampata da Manuzio nel 1499, alle numerose edizione del Petrarca, di Bembo, di Boccaccio, di Francesco Barbaro, di Lodovico Casoni imperniate sullo «specchio d’amore », che cattura i flussi di vita presenti nei ritratti di dame, nei temi della musica come colonna sonora degli affetti (il notevole ritratto di Coppia in un giardino di Vincenzo Tamagni o il belRitratto di musicista di anonimo pittore veneto, proveniente dal Kunsthistorisches, la cui mano sinistra accorda la lira e ha certo qualche analogia formale con quella del giovane in primo piano nel Doppio ritratto), nelle figure di gentiluomini, come quello di Bartolomeo Veneto proveniente da Cambridge (fino a metà Ottocento attribuito a Boltraffio), che indossa una veste sontuosa sulla quale troviamo un misterioso labirinto e altre figure simboliche che dovevano esprimere le qualità del personaggio raffigurato, peraltro indecifrato. E qui il legame è col Labirinto d’amore di cui è esposta una edizione veneziana, con rimandi di pensieri misogini e significati iniziatici dei rituali amorosi. Parlando d’amore si entra nell’ambito della seduzione: vari ritratti di donne elegantemente vestite che mostrano il seno, fra questi svetta quello di Domenico Tintoretto per la lieve, quasi eterea sintesi dei veli e delle carni pallide che emergono dal fondo rosato; meno accettabile, per una certa sciatteria formale, l’attribuzione sempre a Tintoretto dell’altro Ritratto di donna che apre la veste (entrambi i dipinti provengono dal Prado).
La sezione ritrattistica si chiude con una parata di opere che mostrano “doppi ritratti”: quello di scuola fiorentina dove il fidanzamento è dichiarato esibendo, nelle mani della ragazza, un foglio che doveva essere una sorta di accordo sottoscritto dalle famiglie dei due futuri sposi; e quello dei coniugi dipinto da Sofonisba Anguissola. E ancora: il Ritratto della famiglia di Bernardino Licinio, quello celebre della Famiglia Tacconi di Ludovico Carracci, e così via fino al Ritratto di vecchiogià attribuito a Giorgione, per poi passare di mano a Tiziano, Lotto, Jacopo Bassano, Paris Bordon e, nel 2004, riattribuito dubitativamente a Giorgione da Andrea De Marchi: un ritratto che però sembra mancare di quella mistica morbidezza del colore che riconosciamo a Giorgione. A questo punto, si torna al centro di questa rassegna, ovvero al Doppio ritratto, detto anche i Due amici. Ciò che sorprende, al di là della irrisolta questione attributiva (non è noto nemmeno il committente), è l’impostazione assolutamente nuova: in primo piano un ragazzo sontuosamente vestito, ci osserva quasi con sguardo assente; la mano destra sorregge la guancia e la sinistra stringe un melangolo, entrambi simboli della melancholia. Alle sue spalle un altro giovane, meno distinto sia nell’aspetto che nel vestire. Il contrappunto fra queste due figure, peraltro assai misterioso (saranno davvero amici?), sembra mettere in scena un’allegorica disputa del gusto fra linguaggio alto e volgare che, in qualche modo, rappresenta il transito alla modernità, dove la lingua volgare diventa idioma dei sentimenti. Una riflessione che forse avrebbe meritato un approfondimento più specifico, o quanto meno più esplicito.
da Avvenire

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