Prima donna in Vespa nel 1954, a 96 anni rinnova la patente

Un raduno di vespisti © EPA
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Nel 1954 fu la prima donna in paese a guidare una Vespa, ieri ha festeggiato 96 anni all'indomani del rinnovo della patente di guida. Perché Derna Cosmar non soltanto è vispa e lucida ma ha anche i riflessi pronti e dunque è stata ritenuta in grado di guidare un'auto. La storia della nonnina di Moimacco, un piccolo centro in provincia di Udine, la racconta questa mattina il numero in edicola del Messaggero Veneto, corredando un lungo articolo con tanto di foto d'epoca che ritrae una Derna ventenne alla guida della Piaggio con tanto di faro sul parafanghi anteriore e non ancora al manubrio. 
La signora Cosmar è nata nel 1922 a Orzano di Remanzacco, in provincia di Udine, ma dal 1947, quando si è sposata, risiede a quattro chilometri di distanza, a Moimacco. Arzilla e determinata, Derna fece capire a tutti la sua passione per i motori quando si presentò in Vespa e senza il marito impegnato al lavoro, alla benedizione dei carri agricoli e dei mezzi di trasporto: non un momento qualunque ma il grande evento del piccolo centro. Raccontano che, superata la sorpresa, la folla cominciò ad applaudirla. Poi, agli inizi degli anni '60, Derna lasciò la due ruote per cimentarsi in un'altra avventura all'avanguardia: mettersi alla guida di una Fiat 600.
   
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A New York riapre il Four Seasons Per il ristorante dei vip chef giovanissimi e un ex Casa Bianca

The Bar Room at the new Four Seasons ( Credit Nicole Craine for The New York Times) © Ansa

A due anni dalla chiusura il leggendario Four Seasons riapre a tre isolati di distanza dalla vecchia sede del Seagram Building. La targa di ottone con il logo dei quattro alberi che apparteneva al ristorante più amato da Henry Kissinger torna a segnalare l'ingresso ai nuovi locali in un palazzo per uffici su Park e 49/a strada. Restano, nella nuova impresa di Julian Niccolini e Alex von Bidder, alcunipezzi forti dello storico menu come l'anatra arrosto. "Vecchi clienti sono già passati per assicurarsi il tavolo", ha detto Niccolini al New York Times in vista dell'apertura. Ma se il primo Four Seasons aveva chiuso perché giudicato non più all'altezza dei tempi, la sua reincarnazione proverà a rinnovarsi cominciando delle cucine.
    A dirigere i cuochi l'italiano Niccolini e lo svizzero von Bidder hanno chiamato il messicano Diego Garcia, 30 anni, con esperienze a Le Bernardini e al piccolo Gloria di Hell's Kitchen specializzato in pesce. Il suo numero due, Brandon Lajes, ha solo 26 anni. Per i dolci un veterano della Casa Bianca: Bill Yosses che ha lavorato per George W. Bush e Barack Obama dal 2007 al 2014. I locali sono firmati dall'architetto brasiliano Isay Weinfeld. A indicarlo ai proprietari come epigono di Philip Johnson è stato il critico Paul Goldberger: "Una sfida enorme.  Non volevano il solito architetto di New York, ma neanche un perfetto sconosciuto. Isay capisce la tradizione del modernismo, ma è capace di portarla al passo coi tempi".
    Clientela in media ultrasessantacinquenne all'epoca della chiusura, nel 1959, quando aprì i battenti, il Four Seasons inventò il power lunch. Per i suoi locali passarono tutti i presidenti americani tranne Richard Nixon, Jackie Onassis aveva un tavolo fisso così come la matriarca della New York bene Brooke Astor che, ormai centenaria, dimenticava di aver prenotato, ma per lei un posto c'era sempre vicino a Donald Trump, Martha Stewart, Warren Buffett.
    Il 16 luglio 2016 i ristorante aveva servito l'ultima cena ed era stata la fine di un'era. Il primo Four Seasons era costato 4,6 milioni di dollari, la sua reincarnazione da 110 coperti, 50 in meno dell'originale, viaggia sull'ordine dei 30.
Alla chiusura un'asta ne aveva disperso gli arredi storici: dalle sedie sui cui si erano accomodati gli ospiti per il 45/o compleanno di JFK alle pentole, alle stoviglie e alle posate disegnate appositamente da Ada Louise Huxtable, riprodotte adesso per l'edizione 2.0. Niccolini e von Bidder avevano ricevuto lo sfratto dal proprietario del palazzo Aby Rosen, convinto che fosse arrivata l'ora di svecchiare. Oggi meditano la rivincita.
   
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Viaggio a Treviso, Urbs Picta

Treviso Urbs Picta © ANSA
TRIESTE - Passeggiare tra i vicoli acciottolati, o sotto i portici, è un'esperienza commovente che la bellezza del Palazzo dei Trecento con l'elegante Loggia Dei Cavalieri rafforza. Un'emozione che il serpeggiare silenzioso delle acque del Sile e del Cagnan vivifica. Convogliate in canali, le acque scompaiono dietro il cortile di una villa antica, riappaiono da una bocca nella parete di una casa. Treviso splendida. C'è un inedito itinerario per visitarla, è tratteggiato dalle facciate affrescate della città. Con una specifica: dal XIII al XXI secolo.
    Tra le cancellature del tempo, l'usura del passaggio di mani e carri, la sferza di freddo, pioggia, caldo, il lavoro certosino che hanno fatto nell'arco di sei anni di studi l'architetta Rossella Riscica e la storica dell'arte Chiara Voltarel nel voluminoso "TREVISO URBS PICTA" (FONDAZIONE BENETTON; 206 PAG.; 33 EURO) somiglia a una colta caccia al tesoro cadenzata da occhiate e illuminazioni, da scorci e volte. Dapprima attraverso l'osservazione, hanno dovuto individuare uno spigolo di affresco che affiorava, scolorito, tra una parete scalcinata e un impiantito rotto di finestra; un putto acrobata che volteggiava a dieci metri di altezza, sotto una tettoia. Successivamente, catalogati i 475 edifici affrescati esistenti nel centro storico al 2017 di questa piccola ma ricca città veneta di 85 mila abitanti, hanno dovuto interpretarli, dunque ricomporli virtualmente attribuendone paternità e significato. Una sorta di gigantesco puzzle. 475 tessere per disegnare una figura che era la Treviso di un tempo.
    Una ricostruzione che considera anche quanto distrutto dall'indimenticato bombardamento del 7 aprile 1944.
    E non si tratta soltanto di opere del Duomo o del polo museale di Santa Caterina dei Servi di Maria, ma di decorazioni e pitture che abbellivano case di notabili, impreziosivano palazzi di famiglie in vista: un corredo iconografico che simile a un merletto fila di edificio in edificio, di volta in volta nel centro e oltre, in tutta la Marca e nelle grandi città vicine in un immaginario intarsio che è lo stile della Grande città madre, Venezia. Così, città dipinte del circondario sono Padova, Verona, Oderzo, Pordenone, solo per fare alcuni nomi.
    Il volume, elegantissimo, vero libro d'arte, pubblica decine e decine di foto di particolari, di luoghi d'epoca e piazze attuali e compone una nuova mappa topografica (sincronica e diacronica) della città affrescata, in una prospettiva che tiene conto delle diverse fasi storiche, fino alla condizione attuale e alle sue diverse emergenze, oltre che al futuro, con proposte concrete di salvaguardia del patrimonio, attraverso i temi del restauro e della valorizzazione. Esso ha infatti portato alla creazione di una banca dati (trevisourbspicta.fbsr.it) che conserva informazioni sulle testimonianze pittoriche all'interno della cerchia muraria di Treviso.
    Rossella Riscica parla di "decorazioni importanti, varie, complesse e di dipinti murali" che costituiscono il "tratto peculiare di Treviso", che "potrebbe apparire il vanto del tempo passato", mentre "la sfida è lanciata proprio oggi: la conservazione".
   
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Neorealismo e fotografia a New York

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Gli anni bui del fascismo, la povertà del dopoguerra, la speranza di una nazione distrutta ma desiderosa di rinascere a nuova vita, la dignità di un popolo che non vuole arrendersi alla miseria: è la grande mostra "NeoRealismo: The New Image in Italy, 1932-1960" che dal 6 settembre all'8 dicembre occuperà i grandi spazi espositivi della Grey Art Gallery, il museo delle belle arti della New York University nel cuore di Manhattan, per raccontare con la fotografia il coraggio e la bellezza dell'Italia di metà '900.
    Al centro del percorso c'è la realtà di un Paese intero, catturata e interpretata attraverso il linguaggio dell'immagine e filtrata dallo sguardo di grandi autori: un Neorealismo non letterario né cinematografico, ma fotografico, per delineare i mutamenti dell'Italia nel periodo che va dal fascismo al boom economico. Sono 180 gli scatti presentati al pubblico newyorchese, opere suggestive e intense nel loro linguaggio scarno ed essenziale, firmate da 60 artisti italiani, tra cui Mario De Biasi, Franco Pinna, Arturo Zavattini, Tullio Farabola, Enrico Pasquali, Chiara Samugheo, Ando Gilardi, Enzo Sellerio, Nino Migliori, Gianni Berengo Gardin, Cecilia Mangini. A cura di Enrica Viganò e organizzata da Admira di Milano, la mostra offre anche l'occasione per riflettere sul ruolo che nel movimento neorealista ebbe il medium fotografico, documentandone l'evoluzione. Il Neorealismo viene raccontato attraverso 5 sezioni: "Realismo in epoca fascista", in cui la fotografia viene usata per la propaganda del regime ma anche da alcuni autori impegnati che di nascosto documentavano l'arretratezza del Paese, "Miseria e ricostruzione", che racconta il periodo successivo la fine della seconda guerra mondiale con l'Italia devastata ma percorsa da un fremito di rinascita, "Indagine etnografica", in cui si rivela quanto la fotografia sia stata essenziale per ricreare un'identità collettiva del dopoguerra, "Fotogiornalismo e rotocalchi", con i lunghi reportage pubblicati su numerose testate a testimonianza dell'uso sempre più frequente delle immagini sulla carta stampata, e infine "Tra arte e documento", dedicata ai dibattiti sul valore creativo della fotografia. A corredo della mostra anche pubblicazioni originali di rotocalchi, libri fotografici, cataloghi, poster, accanto a spezzoni tratti da film diretti da alcuni dei registi più significativi del Neorealismo, tra cui Vittorio De Sica, Roberto Rossellini e Luchino Visconti. Oltre alla Grey Art Gallery, anche il Metropolitan Museum of Art e la Galleria Howard Greenberg partecipano a questo omaggio americano all'Italia neorealista: il primo proporrà dal 18 settembre a 15 gennaio una selezione delle opere dei fotografi del dopoguerra italiano, recentemente acquisite per la collezione permanente, la seconda allestirà la collettiva (con molti degli stessi autori in mostra alla Grey Art Gallery) intitolata "The New Beginning for Italian Photography, 1945-1965", dal 13 settembre al 10 novembre.
   
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Via del Sale, tra pedalate in quota e panorami mozzafiato

La via del Sale © ANSA

È un itinerario che regala emozioni fortissime: pedalare in quota, nel silenzio della montagna, ammirando paesaggi a 360 gradi che spaziano dai ghiacciai del Monte Rosa al Mar Ligure. Nelle giornate di cielo terso lo sguardo può spingersi fino a scorgere all’orizzonte il profilo della Corsica. In questo lembo di terra, compreso fra Alpi Marittime, Alpi Liguri e Tirreno, al confine tra Italia e Francia, Piemonte e Liguria, la geografia si mostra sotto forma di panorami mozzafiato. Puro godimento estetico, che evoca le suggestioni della “sindrome di Stendhal”.
È qui che nel corso dei secoli la tenacia dei pescatori liguri ha sviluppato una rete di sentieri e di mulattiere , che si inerpicano sulle montagne, in un sistema orografico assai complesso, per poi svalicare nella pianura e portare come merce di scambio innanzi tutto il sale, un bene all’epoca preziosissimo, ma anche acciughe e altri prodotti del mare. Al di là dei monti quella merce entrava nelle cucine, dove veniva trasformata, tra l’altro, in bagna càuda, piatto tipico della tradizione piemontese.
Questo reticolo di vie comunicazione ha preso il nome di Via del Sale, anche se sarebbe più corretto parlare al plurale di Vie del Sale. Tante , infatti, sono le varianti che dalla costa ligure portano oltre i monti.
Strade commerciali, dunque. Ma anche strade percorse nei secoli dai pellegrini in cammino verso Santiago de Compostela o verso Roma. Un’infrastruttura di base che poi, tra l’Ottocento e il Novecento, è stata ampliata per costruire strade militari al servizio delle fortificazioni di confine tra Francia e Regno Sabaudo e poi Regno d’Italia. La Via del Sale di oggi (anche detta “Alta Via del Sale”) sfrutta le antiche carrarecce realizzate negli ultimi due secoli: un vero capolavoro di ingegneria militare. Molte le fortezze e le caserme che si incontrano lungo la strada. Facevano parte del Vallo Alpino Occidentale: anche queste testimonianza interessantissima del genio militare del XIX e XX secolo.

Il punto di partenza è Limone Piemonte, in provincia di Cuneo. Da lì si sale al Col di Tenda a oltre 2.200 metri di altezza. L’arrivo è a Ventimiglia (Imperia) o – secondo le varianti - a Sanremo. Sono circa 125 chilometri di strade sterrate a tornanti, in parte ben mantenute, in parte meno. Comunque tutte percorribili non solo in mountain bike, ma anche in jeep. La strada è aperta, secondo le condizioni meteo, indicativamente da fine giugno a inizio a ottobre. Per cinque giorni alla settimana, dal mercoledì alla domenica, è accessibile anche ai veicoli a motore (fuoristrada e moto), sia pure in misura contingentata e a pedaggio. Per i ciclisti la quiete è assicurata il lunedì e il martedì. In bici il percorso è abbastanza impegnativo e richiede due giorni con pernottamento in rifugio a metà strada. Malgrado si parta dalla montagna per scendere verso il mare, non è tutta discesa. Al contrario. È un continuo saliscendi. Bisogna mettere in conto circa 2.500 metri di dislivello in salita. Ma la fatica è senz’altro ripagata. Il percorso offre una straordinaria varietà di paesaggi e di biotopi: nella prima parte marmotte, stambecchi, aquile, larici ed abeti; al traguardo gabbiani, ulivi e palme. Arrivati a Ventimiglia il premio finale: un rigenerante bagno in mare.
Fra le tante varianti di questo itinerario i ciclisti più esperti sono attratti da un passaggio molto tecnico di una decina di chilometri lungo il fianco Nord del monte Toraggio. A tratti non è pedalabile. È molto esposto su un precipizio; quindi anche pericoloso. Decisamente sconsigliato per chi non abbia un’ottima bici e una perfetta tecnica di guida. Il cicloviaggio può essere affrontato con le proprie forze a condizione che si abbia buona esperienza di montagna e di cartografia e che si disponga di un’attrezzatura e di un allenamento adeguati. Chi, invece, voglia godersi questo itinerario in tutta tranquillità può rivolgersi a un tour operator. Tra questi ConiTours di Cuneo, che offre l’assistenza di guide di mountain bike altamente professionali. Per i meno allenati, infine, c’è sempre l’opzione validissima e sempre più diffusa della bici a pedalata assistita.
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A Castignano il festival dei templari, tra verità e leggenda Spaccati vita e ricette medievali da 17 a 21 agosto

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Alberto Melloni, esperto in storia del Cristianesimo e il prof. Valerio Massimo Manfredi, conoscitore della nuova figura del soldato di Cristo, insieme monaco e cavaliere. Gli organizzatori prevedono di superare i 15 mila visitatori del 2017.


    "Di recente - ha spiegato il capogruppo Pd in Consiglio Fabio Urbinati - l'Assemblea ha approvato la legge regionale sulle rievocazioni storiche: in base a precisi parametri prevede l'inserimento delle manifestazioni a contenuto storico più rilevanti delle Marche in un albo per accedere a finanziamenti mirati. Tra i criteri di selezione c'è quello "dell'anzianità" della manifestazione che deve aver compiuto 30 anni, oltre alla qualità dell'offerta culturale".
    "Se siamo arrivati fin qui - ha osservato il sindaco di Castignano Fabio Polini - è per il frutto raccolto in questi 30 anni. Castignano fa parte dei Comuni del cratere per il sisma, abbiamo fatto il possibile per la messa in sicurezza e per usufruire del centro storico che si trasformerà in un teatro all'aperto". Vicoli, strade, teatri all'aperto accoglieranno i visitatori dietro il pagamento di un biglietto d'ingresso.
    "Siamo i migliori in Italia - ha affermato Rosaria Tomassini, direttore artistico - tra i festival di questo genere. Non esiste un'altra rievocazione storica come questa, con questi numeri di spettacoli e 150 artisti presenti". Nel borgo verrà riproposto uno spaccato di vita medioevale con la possibilità di gustare anche piatti elaborati sulla base di antichi ricettari del XIII e XIV sec. Organizzato dalla Proloco dal 1990, con il supporto dell'amministrazione comunale, il festival è nato per valorizzare la terra picena. La scelta del nome, Templaria, è arrivata per la presenza a Castignano dell'ordine dei Templari.
    "Eravamo partiti con una pizza e due artisti - ha ricordato Giancarlo Colletta, presidente Proloco - una era una contorsionista con calze a rete". Tra gli artisti annunciati anche la Bohemian Bards, con musicisti di fama internazionale, i Mercenari D'Oriente, monaci, mistici, guerrieri di una antica confraternita. E stato annunciato anche uno spettacolo inedito de "La compagnia dei folli", un'anteprima internazionale.(ANSA).



Ad Ascoli Piceno il festival mondiale dell’oliva ascolana

Olive ascolane © Ansa

ASCOLI PICENO - Della loro qualità scrissero Catone, Varrone e Marziale. E di certo è difficile trovare un prodotto egualmente rappresentativo della città che da sempre lo celebra in tavola. Quello tra le olive ripiene e Ascoli Piceno è un legame antico, che affonda le sue radici nella storia dello splendido centro marchigiano: un vero e proprio connubio da scoprire all’Ascoliva Festival, il Festival mondiale dell’oliva ascolana del Piceno Dop. Giunto alla sesta edizione, l’evento tornerà ad animare dal9 al 19 agosto il centro storico della città per festeggiare l’oliva in tutte le sue innumerevoli varianti.
“Mordi il bello della vita” è il claim che richiamerà migliaia di golosi provenienti dall’Italia e dall’estero, tra degustazioni di oliva ripiena ascolana e di tanti altri prodotti tipici locali in piazza Arringo, dove sarà allestito il Villaggio dell’Oliva; saranno presenti i migliori produttori locali e nel ricco programma spiccano eventi cultural-gastronomici, laboratori, musica e tante altre iniziative. I visitatori, acquistando un ticket, potranno scegliere tra le degustazioni a disposizione e pranzare o cenare nel Giardino dell’Oliva, all’interno del palazzo comunale.
Grande novità dell’edizione 2018 sarà l’Oliva Day, ovvero l’istituzione della giornata celebrativa dell’oliva a livello mondiale: d’ora in avanti si celebrerà ogni anno il 14 agosto e la giornata sarà caratterizzata da un grande evento-sorpresa.
Composte da olive verdi in salamoia dalla delicata polpa carnosa, che ben si prestano ad essere farcite all'interno da un composto tenero a base di carne, le olive ascolane sono un prodotto a marchio Dop e rappresentano la prelibatezza più nota del territorio ascolano. Grandi estimatori della specialità furono Gioacchino Rossini e Giacomo Puccini, e anche Giuseppe Garibaldi ebbe modo di assaggiarle il 25 gennaio 1849, durante il suo breve soggiorno ascolano: il generale ne rimase colpito e tentò di coltivare a Caprera le piantine avute dal suo fedele amico Candido Augusto Vecchi, ma non riuscì nel suo intento. La produzione delle olive ascolane in salamoia rimase una preparazione familiare o artigianale fino alla seconda metà del 1800; e ancora oggi sono diversi i laboratori, i ristoranti o le attività di pasta all’uovo che producono artigianalmente le olive ripiene ascolane nel rispetto dell’antica tradizione.
Ascoliva Festival riparte dalle oltre 40 mila degustazioni distribuite lo scorso anno per un totale di circa 80 mila presenze; e anche quest’anno, dopo le presenze nelle scorse edizioni di Renzo Arbore, dell’attrice Gaia De Laurentis, del regista Giuseppe Piccioni, dell’olimpionico Juri Chechi, del campione del motomondiale Romano Fenati e dell’attrice Cecilia Capriotti, si attendono al Villaggio tanti altri vip.
Sulla piattaforma “tipicitaexperience.it” e sull’app di Tipicità, i visitatori possono trovare tutte le informazioni per godere appieno le possibilità offerte dal Grand Tour delle Marche, promosso da Tipicità ed ANCI.

9/19 agosto ad Ascoli Piceno 
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Ferrara e Comacchio unite nel turismo Progetto per valorizzare 'connessione tra arte, mare e natura'

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FERRARA - Punta a valorizzare la connessione tra arte, mare e natura un progetto di promozione turistica dell'area di Ferrara, Comacchio e Delta del Po cui il Comune di Ferrara ha dato oggi la propria adesione ufficiale con il via libera della Giunta.
    Il progetto, capofila Comacchio, ha per titolo 'Vacanze natura e cultura 2018' ed è frutto di una collaborazione tra pubblico e privato. Prevede un'articolazione triennale, con azioni di promozione e commercializzazione dei principali prodotti turistici della provincia di Ferrara: le città d'arte, il turismo balneare ed il turismo naturalistico.
    Il Comune di Ferrara contribuirà in particolare alla realizzazione del progetto con uno stanziamento di 35mila euro a favore di Apt Servizi srl, società in house della Regione, "a parziale copertura delle spese per le previste attività di promozione online e web marketing". Il rapporto di cooperazione Apt Servizi-Comune di Ferrara sarà regolato da una specifica convenzione, approvata sempre oggi dalla Giunta. (ANSA).

Casa Cuseni, nella stanza segreta con murales proibiti Alla scoperta di una misteriosa opera d'arte a Taormina

Affreschi della stanza segreta di Casa Cuseni-Taormina © ANSA

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Misteriosa, per il segreto di un amore omosessuale che ha custodito per oltre un secolo, e magica per la quantità di storie e personaggi che ha ospitato - da Greta Garbo a Coco Chanel, Pablo Picasso, Bertrand Russell e Roald Dahl - Casa Cuseni a Taormina non è semplicemente un luogo da visitare, è un'opera d'arte che non si finisce mai di scoprire.
Fatta costruire nel 1905 dal pittore inglese Robert Hawthorn Kitson, figlio di un ricchissimo costruttore di locomotive di Leeds, la villa, progettata con gli amici Sir Alfred East, presidente della Royal Society e Sir Frank Brangwyn, allievo di William Morris, prende il nome dalla località collinare dove sorge ed è una tappa imperdibile del 'Taormina Cult', il suggestivo tour in 21 tappe su un Ape calessino, da Villa Mon Repos al Teatro Antico, ideato da Antonella Ferrara, presidente di Taobuk con Alfio Bonaccorso.
 La sorpresa più grande per chi arriva è la dining-room: camera segreta rimasta chiusa per 100 anni, aperta nel 2012, che mantiene ancora un'aria proibita e di cui si è da poco cominciato a parlare. Alle pareti è affrescata la storia di un amore omosessuale e la prima adozione maschile nella storia dell'arte. I murales, realizzati da Brangwyn, famoso per essere stato il primo decoratore di Louis Confort Tiffany e per aver decorato la Galleria Reale della Casa dei Lords, a Westminster, e il Foyer del Rockfeller Center Museum di New York, sono miracolosamente integri, nonostante due guerre mondiali. Durante il secondo conflitto, la casa venne occupata dai tedeschi ma gli abitanti del paese si mobilitarono per nascondere le opere (600 i quadri della collezione) e così le salvarono.
In stile Art Nouveau, gli affreschi della stanza segreta ritraggono l'amore fra Robert Kitson e il suo compagno di una vita, il pittore Carlo Siligato, che nel 1908, quando Messina venne distrutta dal terremoto, adottarono il piccolo Francesco, diventando così una famiglia omosessuale, la prima nelle arti figurative, all'epoca assolutamente proibita. Tanto che Pablo Picasso, in visita a Casa Cuseni nel 1917, vide la camera e mantenne assolutamente il segreto, proteggendo i suoi amici pittori che sarebbero potuti finire in prigione. Unico interior esistente al mondo interamente realizzato da Brangwyn, la stanza dei segreti ospita anche una bicicletta-triciclo di legno, realizzata dai futuristi di Messina per il piccolo Francesco, e su un antico tavolo al centro della stanza spicca un portatovagliolo con ricamate le due C intrecciate di Casa Cuseni che hanno ispirato Coco Chanel per il logo della sua maison.
Ma sono tante le cose straordinarie accadute qui: quando nel 1950 Bertrand Russell ha saputo di aver vinto il Nobel era a Casa Cuseni; nel salone è in bella vista il divano di Greta Garbo che soggiornò nella Villa per circa un anno e la stanza dove l'attrice ha dormito porta ora il suo nome. Roald Dahl, l'autore de 'La fabbrica di cioccolato' ha ideato qui il suo famoso libro e iniziato a scrivere la sceneggiatura di 'Agente 007 - Si vive solo due volte'. A Casa Cuseni sono stati più volte David Herbert Lawrence, la moglie Frida e Tennessee Williams.
 A raccontarci e custodire tutte queste storie sono oggi Domenica (Mimma) Cundari, cresciuta in questa casa, i suoi genitori lavoravano per Daphne Phelps, nipote di Kitson, e il marito di Mimma, il medico Francesco Spadaro, attuali proprietari che dirigono la Fondazione.

Dichiarata monumento Nazionale Italiano nel 1998, museo ufficiale della Città di Taormina dal 2015 e Grande Giardino Italiano nel 2016, Casa Cuseni è un prezioso crocevia di storie che vanno oltre la sua dining-room. "L'inglese pazzo", come chiamavano Kitson a Taormina dove era arrivato, negli anni del puritanesimo vittoriano, con Oscar Wilde e altri amici, per andare a trovare il fotografo Von Gloeden, famoso per i suoi ritratti di ragazzi nudi, aveva acquistato il terreno dove sorge Casa Cuseni nel 1897 e fino alla morte, nel 1947, non aveva più lasciato, tranne negli anni della guerra, la sua dimora e il suo meraviglioso giardino che ospita un'opera inedita e originale di Giacomo Balla.
Anche Daphne Phelps, la brillante aristocratica nipote di Kitson, allieva di Anna Freud e amica di Albert Einstein, arrivata a Villa Cuseni alla morte del pittore, si è innamorata del luogo ed è rimasta a Taormina fino alla sua morte nel 2005. Per mantenere la villa nel 1948 la ha trasformata nel primo hotel per artisti e studiosi in Europa. Autrice del libro, 'Una casa in Sicilia' (Neri Pozza), dopo la sua scomparsa la Casa è stata acquistata nel 2011 da Domenica (Mimma) Cundari che adora questa dimora dove Dahl le leggeva le sue storie quando aveva 4 anni. 

Lo stendardo di Tiziano ritrova i suoi colori La tavolozza 'veneziana' torna al Palazzo Ducale di Urbino

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URBINO - Ritrova i suoi colori originali e torna al Palazzo Ducale di Urbino lo Stendardo dipinto da Tiziano Vecellio tra il 1542 e il 1544, raffigurante l'Ultima cena e la Resurrezione. Dopo un restauro durato sei mesi condotto dal laboratorio dei dipinti su tela, guidato da Federica Zalabra, dell'Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (Iscr) di Roma, l'opera rientra alla Galleria nazionale delle Marche. Il 'ripristino' ne ha fatto riemergere i colori e la cornice originali. Mentre le indagini scientifiche multispettrali, eseguite da Fabio Aramini, hanno rivelato 'pentimenti' e modifiche in corso d'opera, soprattutto nell'impostazione prospettica delle figure, con preferenza per una certa libertà costruttiva rispetto ad un rigore geometrico.
I dettagli sono stati illustrati nel corso di una conferenza a Palazzo Ducale: "Il restauro dello Stendardo di Tiziano. La verità del colore". "Era rimasto in questo Palazzo per 150 anni - ha ricordato il direttore della Galleria Nazionale delle Marche, Peter Aufreiter - Inizialmente era posizionato ai lati della pala d'altare della Chiesa della Confraternita del Corpus Domini e in realtà fu usato solo una volta come Stendardo processionale nel 1545, per poi essere subito diviso in due tele, forse perché uno stendardo costava meno". "Già restaurata diverse volte - ha aggiunto - solo oggi con moderne tecniche ha riacquistato l'originario splendore. L'abbiamo posizionata nella camera da letto del Duca e presto faremo una giornata di studi".
"Sono stati messi in luce importanti aspetti sulla tecnica pittorica di Tiziano - ha spiegato Carla Zaccheo, coordinatrice del restauro - Un olio su tela di lino a trama molto fitta, con pennellate molto fluide e una tavolozza dell'artista caratterizzata dalla vivacità dei toni e dalle sfumature cangianti, come si usava all'epoca a Venezia. Anzi - ha precisato - i due dipinti rivelano una stesura diversa più fluida nella Resurrezione, con incisioni per delimitare l'architettura. Sul bordo abbiamo ritrovato anche la cornice originale: un fondo rosso con disegni bianchi, mentre oggi è dorata con disegni colorati". La restauratrice ha ripercorso le varie fasi del restauro, dalle indagini preliminari alla ripulitura, che hanno riportato alla luce "l'intensità dei pigmenti usati da Tiziano con un cielo trasparente in tutte le sue sfumature e un modo diverso di vedere le varie figure".


turismo, nuove tecnologie accompagnino attenzione a persona

Aeroporto di Fiumicino
da vaticannews.va

Messaggio del cardinale Peter Turkson, prefetto del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale, per la Giornata mondiale del turismo del prossimo 27 settembre. Il tema dell’evento è: “Il turismo e la trasformazione digitale”
I prodotti e i servizi turistici “si inscrivano nell’alveo dello sviluppo sostenibile e responsabile, in nome del quale va orientata la crescita del settore”. Questo l’auspicio del cardinale Peter Turkson, prefetto del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale, nel messaggio per la Giornata mondiale del turismo del prossimo 27 settembre. Prendendo spunto dal tema dell’evento - “Il turismo e la trasformazione digitale” - il porporato ricorda come l’innovazione digitale sia finalizzata “a promuovere l’inclusività, ad accrescere il coinvolgimento delle persone e delle comunità locali e a conseguire una gestione intelligente ed equibrata delle risorse”.

Lavorare per una sostenibilità turistica

Un comparto, quello turistico internazionale, che l’anno scorso ha registrato un incremento globale del 7%, un dato peraltro in crescita costante. L’esigenza della “sostenibilità turistica”, evidenzia il prefetto, non va sottovalutata “dal momento che in alcune destinazioni turistiche rinomate e più frequentate si sperimentano gli effetti negativi di un fenomeno che si oppone ad un sano ed equo turismo, il cosiddetto ‘over-tourism’”.

Educare alla corresponsabilità

Le ultime tendenze mostrano inoltre che circa il 50% dei viaggiatori digitali trae spunto e ispirazione dall’osservazione di immagini e commenti online, e il 70% consulta - prima di decidere - video e opinioni di chi ha già viaggiato. L’uso delle strumentazioni digitali si pone allora come una “grande opportunità” che permette di incrementare servizi più soddisfacenti alle nuove richieste, ma anche - prosegue citando l’enciclica “Laudato si’” - di educare alla “corresponsabilità della ‘casa comune’ nella quale viviamo, generando forme di innovazione per il recupero funzionale degli scarti, il riciclo e il riutilizzo creativo che aiutano a proteggere l’ambiente”.

L’utilizzo dei dati personali

Da evitare, però, un “uso scorretto e annientante” della dignità umana, che produce “conseguenze deleterie”: in particolare, aggiunge, “ciò attiene alla produzione e all’utilizzo dei dati, soprattutto quelli personali, che si generano all’interno del mondo digitale, e al ruolo preponderante degli algoritmi che elaborano i dati stessi e producono, a loro volta, ulteriori dati ed informazioni, a diversi livelli, disponibili anche per chi intenda servirsene meramente ad uso commerciale, propagandistico o addirittura con finalità e strategie manipolatorie”.
Gli algoritmi, più che “semplici numeri” o “sequenze neutre di operazioni”, sono “elaborazioni di intenti che perseguono finalità precise” e possono essere utilizzati per condizionare scelte e decisioni. Va rispettata e salvaguardata quindi “la libertà di scelta delle singole persone”, puntando comunque ad un accesso per tutti alle strumentazioni digitali. La finalità ultima non è dunque quella di implementare il turismo con le nuove tecnologie digitali, ma che “il progressivo uso della tecnologia” vada accompagnato da una “crescente consapevolezza della persona e della comunità all’ultilizzo rispettoso dell’ambiente per uno sviluppo sostenibile”.

Non separare i comportamenti on-line da quelli off-line

Per i giovani, che costituiscono “la fetta più ampia dell’utilizzo del digitale”, il prefetto del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale richiama l’Instrumentum Laboris in preparazione alla XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sui giovani: è necessario - conclude - che siano protagonisti della loro “vita digitale” senza separare “i comportamenti on-line da quelli off-line”, né lasciandosi ingannare dal mondo virtuale che “distorce la percezione della realtà e la perdita di identità collegata ad una rappresentazione errata della persona”.
L’esortazione è allora ad una connessione “accompagnata dall’incontro vero”, come messo in luce da Papa Francesco.

Venezia chiede più rispetto ma sarà sempre città aperta

Turisti a Venezia (Ansa)

da Avvenire
Mentre rigira la bic tra le dita, la scappuccia, la picchietta – è come se tormentasse il turista maleducato – Andrea Molesini ricorda il protagonista del suo romanzo, Presagio, se non fosse proprio per quella biro, che dichiara morto e sepolto il tempo delle penne d’ebanite e dei Vacheron, della città «metà fiaba e metà trappola» ( Thomas Mann), ancora oggi, peraltro, «incompatibile con la modernità» (Massimo Cacciari). Nel romanzo, il nonno di Andrea, intrattenendo l’annoiata marchesa von Hayek nel lusso del Grand Hotel Excelsior, spiega che il segreto della noia consiste nell’«aver in tasca i denari per pagarsela». Una condizione rara tra i turisti che oggi sciamano da piazzale Roma e Santa Lucia nelle calli e nei campielli, sfidando questa «strana città traditrice», dove, scriveva Hemingway, «andare a piedi da un punto a un altro punto qualsiasi è più divertente che fare le parole crociate».
Stando alle statistiche, i visitatori dei musei sono in aumento, eppure per molti turisti Venezia non è Palazzo Grassi e non sarà mai Torcello. Gli arrivi in alberghi e affittacamere (4,6 milioni annui) sono solo un sesto del totale, anche a prender per buone le stime diffuse da Ca’ Foscari e non confermate dal Comune. Unico dato certo: la permanenza alberghiera è ferma a 2,3 giorni da decenni, come lamenta l’Associazione Veneziana Albergatori. Il resto è uno tsunami di sandali, voci e sudore. Italiani ma soprattutto stranieri che arrivano e ripartono in giornata, inarrestabili e inevitabili come l’acqua alta in piazza San Marco, che non sparirà neppure quando sarà terminato il Mose.
day tripper giungono all’alba, in treno o in autobus, coi loro zaini che sembrano cambuse, e subito si immergono in un cruciverba che non ammette soste, se non qualche bivacco nei sottoporteghi; quando il Canal Grande si screzia di rosso, che sarebbe d’obbligo un cicchetto nell’ennesima taverna di Casanova, loro sono già sulla via del ritorno. Molesini non li ama. I veneziani non li amano. «Noi siamo orgogliosi della nostra lentezza – ci spiega lo scrittore – perché tutto qui è stato fatto a mano; ogni pietra, ogni architrave; qui tutto è a misura d’uomo, della sua fisicità». Il mondo si divide tra Venezia e la terraferma perché l’acqua è il confine di tutto. «Insegna pazienza e prudenza, virtù dimenticate. Venezia invece ha una memoria e ancora si vergogna di aver consegnato Giordano Bruno alla Chiesa. Non tanto per un sentimento ghibellino, quanto perché il Papa aveva colto il nostro punto debole: siamo un popolo di mercanti e con i mercanti si viene sempre a patti». Debolezza che Guccini canzona – «la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi, Venezia la vende ai turisti» – e sulla quale Salvatore Settis ha costruito il memorabile Se Venezia muore, che mette alla berlina il business della Serenissima.
La colpa, si usa dire, è dei cinesi, che hanno ucciso l’artigianato locale smerciando maschere e vasi Murano style a un quinto del valore. O delle navi da crociera, che sfruttano le magniloquenti scenografie veneziane per vendere emozioni. In realtà è la motivazione profonda del turismo mordi e fuggi che spinge la città alla deriva: «Macché goti, bizantini e Lega di Cambrai; ma quale barocco, rinascimento o rococò! Sono pochissimi i turisti che vengono qui per ammirare il nostro passato – conferma Molesini –. Tutti gli altri cercano suggestioni low cost'. Secondo l’Università Ca’ Foscari, questo tipo di turismo assorbe la maggioranza dei 77mila che ogni giorno calpestano le antiche palafitte, piantate per sfuggire ad Attila. Fanno ventimila più dei residenti e della capacità di carico del centro. Ogni anno, 28 milioni di persone si danno appuntamento in una città che ne potrebbe accogliere soltanto 19. I day tripper sono decuplicati in trent’anni, da 5.800 a 57.500 al giorno. Raddoppieranno entro il 2030, grazie al potenziamento delle tratte di Italo e Trenitalia. A dispetto delle polemiche sulle grandi navi, infatti, il turismo mordi e fuggi viaggia su treni scontati e charter bus, che aggravano il disallineamento tra domanda, offerta e capacità di carico. Oggi si installano varchi e telecamere, ma in passato si rendeva tutto più accessibile: meno ristoranti e più take away, meno artigianato e più paccottiglia. Con il risultato che, come ha scritto Settis, oggi «Venezia rischia di restare senza popolo», giacché sfondare la capacità di carico di una piccola isola (il centro si estende su 798 ettari rispetto ai 15.700 del Comune) porta inevitabilmente a sottrarre spazio e servizi ai residenti, che in mezzo secolo si sono dimezzati. «Quand’ero ragazzo c’erano più di venti cinema: oggi due. E questa è la città del festival...» commenta amaro Molesini.
Contro la turistificazione dei centri storici è sorto un movimento europeo (la rete Set) ma il sindaco Luigi Brugnaro ha una strategia diversa. Con #EnjoyRespectVenezia punta a riqualificare il turismo e qualche risultato l’ha ottenuto. La città, ammette Molesini, è più pulita «mentre prima i sacchetti erano abbandonati sull’uscio di casa, alla mercé dei gabbiani e dei ratti». La Giunta è riuscita a risolvere il problema delle code ai vaporetti, suddividendo turisti e residenti. Con i varchi mobili disincentiva a invadere la città nei giorni da bollino rosso, deviando verso zone meno affollate i day tripper e lasciando passare residenti, lavoratori e ospiti delle strutture ricettive. Non basterà però il pragmatismo del Sindaco a risolvere il problema del moto ondoso. «Questa è una città di cose rovesce – ci avvisa Molesini, sfoderando il tipico sarcasmo veneziano – dove la fisica fa l’inchino alsior paròn e la spinta di Archimede vale per una barchetta ma non per un transatlantico». La polemica sulle navi da crociera che manovrano nel bacino di San Marco è di lunga data. Nel 2000 erano 200, nel 2016 già 529. Ognuna poteva entrare dalla bocca di porto del Lido, attraversava il Bacino di San Marco e lungo il canale della Giudecca approdava alla stazione Marittima per poi compiere il percorso inverso. Contro quest’andirivieni è nato un comitato popolare e solo a fine 2017 si è raggiunto un accordo che prevede di creare un hub a Marghera, dove far attraccare le grandi navi (200mila tonnellate di stazza lorda), consentendo a quelle di dimensioni più ridotte (55mila) di attraversare il canale della Giudecca e alle intermedie il canale Vittorio Emanuele, opportunamente dragato.
Gli armatori – che controllano il 40% del terminal alla Marittima (160 milioni di investimenti) – non sono entusiasti e dal 2015 hanno iniziato ad autolimitare il traffico, sperando che tutto resti com’è. Dal primo luglio sono in vigore i nuovi parametri della Capitaneria di porto che limiteranno il traffico dei giganti del mare del 20% entro il 2020. Alessandro Santi, presidente di Assoagentiveneto (Federagenti) sta preparando uno studio secondo cui, nel 2017, il traffico crocieristico ha portato in laguna 1.427.000 passeggeri, il 5% dei 28 milioni censiti da Ca’ Foscari, e non tutti hanno visitato la città, visto che una parte ha utilizzato il porto di Venezia per imbarcarsi o sbarcare. I visitatori sono stati solo 400mila: in media 1.000 sui 77mila visitatori al giorno stimati da Ca’ Foscari. Lo studio di Federagenti confermerà anche che le grandi navi sono sicure e che hanno un impatto trascurabile sul moto ondoso e sulle fondamenta della città. Archimede se ne faccia una ragione.
È chiaro che non esiste ancora una ricetta condivisa per trasformare la sovrabbondanza di turismo low cost in permanenze alberghiere, alleggerendo e valorizzando il flusso turistico, così com’è chiaro che su un solo punto sono tutti d’accordo: «Venezia deve restare una città aperta ai turisti», come ripete Brugnaro. Già, perché, disagi o no, se quelli sparissero, la città lagunare morirebbe veramente. È successo e lo rievoca Presagio, descrivendo la notte in cui i turisti si trasformarono in «profughi che scappavano», il Grand Hotel si fece spettrale, si svuotarono le celle frigorifere, le cucine e le lavanderie degli alberghi, le camere e gli alloggi del personale di servizio. Era il 28 luglio del 1914. In Europa iniziava la prima guerra mondiale. E per i veneziani la fame.

San Gimignano: cultura, vino e turisti mordi e fuggi

Una veduta di San Gimignano

Si svela al culmine dell’arrampicata. Là dove l’erta vigna di Cellole regala i suoi grappoli più pesanti, fra i tralci di Vernaccia s’intravede la Manhattan della Valdelsa. La chiamano così per via delle tredici torri che ne disegnano lo skyline. Un patrimonio dell’umanità talmente sfruttato dall’industria turistica che l’Unesco ha chiesto di introdurre il numero chiuso. Un borgo talmente tuscan style che una multinazionale ha deciso di costruirne una copia esatta in Cina, dentro una megalopoli da 33 milioni di abitanti. Letizia ti porta fin quassù per dimostrare che a San Gimignano non si campa solo di turismo: «Ci siamo anche noi, con il nostro olio e soprattutto con il nostro vino» rivendica la presidente del Consorzio che tutela l’unico grande bianco in questa terra di grandi rossi.
Il Chianti è oltre la collina. Dal lato opposto, verso l’Aretino, si trovano i caveau del Brunello. Letizia Cesani avverte però che “la Vernaccia è un vitigno autoctono e non un semplice ”percento“ di Sangiovese. Storicamente è la prima Doc italiana e affonda le radici nella preistoria”. Non bluffa mica. La conformazione calcarea dei suoli prediletti da questa varietà d’uva dipende dai fossili dispersi nel terreno, un letto di conchiglie depositate milioni di anni fa, dal ritirarsi del Mediterraneo. Più vicino, ma già nel Duecento, re, papi e mercanti bramavano questo bianco dal sapore di mare e di mandorla, che cresce su colline di tufo, tosche e prima ancora etrusche, scoperte verso la fine degli anni Sessanta dai turisti inglesi e americani, ormai sazi di Firenze e in cerca di altre madonne e crocifissi usciti dalla sgorbia dei maestri rinascimentali. Cinquant’anni dopo, eccoci in un borgo medievale talmente perfetto da sembrare una quinta teatrale e dove invece ogni muro è autentico e tutti sono al servizio dell’industria turistica.
A San Gimignano si entra da porta San Giovanni. Non è l’unico accesso, ma è più vicino ai parcheggi, una delle entrate più cospicue del Comune. Via san Giovanni è come via dei Calzaiuoli a Firenze. Anche qui si è persa l’anima artigiana del centro storico. Una bottegaia esibisce orgogliosa burattini di Pinocchio “made in Italy” e sottolinea che non sono cinesi, perché quelli “costano la metà ma la differenza la si nota”. In realtà, il trionfo dellow cost non è regolato solo dalle infallibili leggi della concorrenza: dipende dal livello culturale del turista, che è quel che è. Va a ruba, ad esempio, la pasta multicolori, quella che trovi su ogni bancarella, da Roma a Como, da Venezia a Gaeta: pipe aromatizzate agli spinaci, rigatoni color di zucca e fusilli al nero di seppia... In un angolo, a due euro al pacco sono in vendita i pici, pasta tipica del Senese, che forse per il nome poco commendevole vengono scelti dai pochissimi che s’intendono di Aglione – rigorosamente della Valdichiana – e Cinta senese, indispensabile per il ragù.
Nella città delle cento torri – erano 74 e ne sono rimaste 13 – il turismo è la principale fonte di reddito. Sarebbe l’unica se non fosse per la Vernaccia di Letizia e degli altri vitivinicoltori che, coltivando 730 ettari di colline, producono ogni anno poco più di cinque milioni di bottiglie, metà delle quali destinate all’export, soprattutto negli Usa. È grazie alla campagna che la circonda – vino, olio e zafferano generano un giro d’affari di 40 milioni di euro –, che San Gimignano ha ancora un popolo e un’identità. Con tante incognite, certo. Adottare l’assetto agronomico a maglia fitta, gestendo seminativi e arboricoltura in funzione dell’ecosistema, permette di offrire allo sguardo incantato del visitatore la tipica cartolina toscana – che alterna campi di grano, vigne e boschi in piccoli appezzamenti punteggiati di casolari – ma ha dei costi. In questa campagna che un tempo era soggiogata dalle famiglie turrite di San Gimignano si è fatta una scelta che si paga: conservare le produzioni locali e coltivarle con il metodo biologico, rinunciando alla chimica in campo e anche a una parte del raccolto.
Per contro, la turistificazione del centro storico ha portato ad espellere gli abitanti – ne sono rimasti 700 sui 7700 residenti nel Comune, in pratica San Gimignano abita tutta fuori porta – e a trasformare questo gioiellino dell’urbanistica medievale in un outlet dell’arte. Evoluzione che nessuno, in città, si sente di condannare, perché, come raccontano, “prima del turismo qui si faceva la fame”. Il boom turistico è stato un volano per tutti ed oggi San Gimignano offre 5.240 posti letto, in pratica uno ogni abitante. Anche qui, però, la maggioranza dei turisti è come la marea: arriva al mattino e prima del tramonto se ne va. I visitatori che ogni anno accedono a San Gimignano sono 3 milioni mentre gli arrivi negli alberghi si fermano poco sopra quota 180mila (488mila permanenze).
La riqualificazione del turismo è il primo obiettivo del Comune che tenta di instillare qualche goccia di cultura nel cranio dei “lanzichenecchi” del terzo Millennio, quelli che ogni giorno espugnano il Palazzo Comunale, scorrazzano nella sala di Dante, senza aver la minima idea dell’ambasciata che vi condusse il Sommo Poeta, transitano indifferenti di fronte alla Maestà di Lippo Menni senza collegarla minimamente a quella senese di Simone Martini, sciamano nella Pinacoteca – tanti saluti a Benozzo Gozzoli e al Pinturicchio – per infilarsi nella torre grossa, con il solo desiderio di fotografare la città dall’alto. Il day trip si conclude nella Collegiata, dove, sotto un dipinto del Ghirlandaio, giace Santa Fina, cui i sangimignanesi sono devotissimi (ma i lanzichenecchi non lo sanno): per il 90% degli escursionisti la visita alla città toscana termina qui, malgrado gli sforzi del Comune di valorizzare il convento di Sant’Agostino e quello di San Domenico, attraverso mostre e concerti. Registrano invece il tutto esaurito i musei privati della tortura e della pena di morte, che con la storia della città non c’entrano assolutamente nulla, ma entrano – chissà perché – nei pacchetti dei tour operator.
«Il nostro tentativo è destagionalizzare il flusso turistico arricchendo il cartellone delle manifestazioni culturali anche nella bassa stagione e costruire delle reti con le frazioni e i comuni vicini – spiega l’assessore alla cultura Carolina Taddei –; in particolare con Volterra e Poggibonsi, che condividono con noi la cultura della società rurale toscana, perché per convincere il turista a prolungare la sua permanenza in questo territorio dobbiamo fargli scoprire le immense ricchezze naturali della campagna».
Quest’anno il programma delle manifestazioni per la “bella stagione” termina a metà ottobre, con un rinnovato investimento nella lirica, che ha vissuto la sua stagione aurea in piazza Duomo fino agli anni Novanta. Un cartellone ad hoc sarà proposto per i mesi invernali. Non è tutto. C’è il rinnovato interesse per la via Francigena e per la via del Sale che permettono di fare rete con Casole d’Elsa, Colle di Val d’Elsa, Poggibonsi, Monteriggioni e Radicondoli. E c’è soprattutto la scommessa dell’Unesco, che ha scelto San Gimignano per farne un modello di turismo sostenibile: esiste già un portale ( visitworldheritage.com ) dove “le dolci colline ricoperte di filari di viti, tetti in terracotta e torri fortificate” sono proposte ai globe-trotter come una meta da non perdere. «Il sito è in inglese – rivela la Taddei – e sarà tradotto presto in cinese, ma non in italiano, e questa per noi è un’indicazione chiara: si lavora sul turismo internazionale, che è stata la nostra prima vocazione e rappresenta il nostro futuro, per crescere in qualità». E in pernottamenti.
da Avvenire