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La mostra. Van Gogh, tenera e ruvida terra

C’era da aspettarselo: Van Gogh, anche in tempo di crisi, genera code. Un serpentone di aspiranti degustatori (anche numerose scolaresche, molto disciplinate) risale compunto verso la piccola mostra allestita con l’ormai consueto deprecabile sistema del “taglia-incolla”, vale a dire messa su trasportando a pacchetto le opere da una sede espositiva (estera, e questa volta è toccato al Kröller-Müller Museum di Otterlo, come peraltro era già successo con la “mitica” mostra di Palazzo Reale del ’62) all’altra (nostrana).
 
Tutti in attesa del fatidico incontro col mito, e l’allestimento dell’archistar giapponese Kengo Kuma, facendo galleggiare i quadri (in certi casi al limite della visibilità: la Natura morta con cappello di paglia e gli splendidi Nidi, per esempio, non si vedono) in un mondo fluttuante che poco o nulla ha da spartire con il misticismo sociale del van Gogh “prima maniera”, sembra studiato a tavolino per creare, appunto, non l’incontro contundente con quella sua “cattiva pittura”, ma la disciplinata celebrazione di un rito. Dentro la fastidiosa scatola magica, comunque, la sostanza c’è tutta, e delle 47 opere esposte (la mostra è a cura di Katheen Adler, catalogo 24 Ore Cultura) un nucleo corposo consegna un’immagine di Van Gogh, quello del periodo olandese appunto, la cui ruvidezza è certamente, al pubblico italiano, poco consueta.
 
Incoraggiato da Anton Mauve, all’età di 27 anni, tra l’agosto del 1880 e la fine del 1881, predicatore fallito cui la Scuola di evangelizzazione di Bruxelles aveva ritirato l’incarico per “eccesso di zelo” quasi mistico, Van Gogh decise che sarebbe diventato pittore. La decisione cominciò a prendere forma a Nuenen, nella regione olandese del Nord Brabante (dov’era Zundert, il suo paese natale, e dove visse dal dicembre 1883 a fine novembre 1885), all’“accademia” del mondo contadino: quella vita nuova doveva marcire, maturare e scoppiare come un seme gettato nella terra – «Più divento dissipato, malato, vaso rotto, più io divento artista, creatore... con quanta minor fatica si sarebbe potuto vivere la vita, invece di fare dell’arte» scriverà al fratello Theo il 28 luglio 1888 – passando per la messa in sordina delle astrazioni culturali (il che non ne fa naturalmente un pittore naif: Van Gogh fino a quel momento era stato e rimase sempre un lettore assiduo capace di passare con naturalezza dall’olandese all’inglese al francese; eseguì con puntiglio tutti gli studi artistici “da manuale” e, quanto alla conoscenza dei "classici", basterebbe ricordare quanto calorosamente raccomandasse al fratello Theo, da Londra, già nel ’73, di «andare spesso al museo» come lui già aveva fatto all’Aja, ad Amsterdan e ad Anversa), non per prescinderne, ma per sedimentare e sciogliere quella cultura nell’elemento con cui sentiva di essere lui stesso impastato, la sostanza elementare e sorgiva che fa l’occhio e la mente e i nervi sensibili alle pieghe più minute della vita, al respiro che c’è dentro le cose.
 
E si capisce come potesse riuscire a comporre quel che è umanamente incomponibile: da una parte l’ammirazione per Millet e Breton, e dall’altra il rifiuto quasi selvatico di quella douceur che ne faceva dei pittori au-bon-ton, determinato a sporcarsi le mani e il cervello con i toni polverosi e pesti in cui sono calate, appunto, le opere di quel periodo. Che certamente non sono i suoi capolavori, ma è evidente che quei colori impastati di luce che tessono la drammatica energia della sua opera maggiore maturata dopo l’incontro con la “pittura moderna” del biennio parigino, e poi ad Arles, e da Arles a Saint-Remy fino a Auvers-sur-l’Oise.
 
Senza questo espiativo ritorno al grembo della pittura non gli sarebbero mai scoppiati dentro con quella nativa necessità. Verrebbe da dire: nonostante le sue stesse intenzioni, lui che aspirava alle composizioni complesse di figure e in fin dei conti ne farà una soltanto, I mangiatori di patate (qui evocato da una Testa di donna che forse vale il dipinto, il quale però resta il grande assente in mostra: i tanti studi di contadini eseguiti in quegli anni nascono infatti tutti quanti all’ombra di quel quadro), troverà il punto di forza della sua pittura in quell’elemento antinarrativo che è per l’appunto lo spremere fuori una sostanza superindividuale da qualsiasi cosa essa tocchi: da un volto – sostanza che nel ritratto di Joseph Roulin ha i nomi di “tenerezza” e “silenziosa serenità”, scriverà nell’aprile dell’89 da Arles, e lo sentiamo nell’affetto con cui Van Gogh gioca con i riccioli della sua barba fluente – o da una natura morta o da un cielo bianco che copre come una sindone i verdi teneri della terra («Cos’altro si può fare, pensando a tutte le cose la cui ragione non si comprende, se non perdere lo sguardo sui campi di grano?» scriverà da Saint-Rémy-de-Provence nel luglio di quello stesso anno). Con il suo malinconioso sentimento del tempo, su cui lasciare che lo sguardo si perda.
 
 
Milano, Palazzo Reale
Van Gogh. L’uomo e la terra
Fino all’8 marzo 2015
avvenire.it