FELTRINELLI 1+1  IBS.IT
Visualizzazione post con etichetta Architettura. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Architettura. Mostra tutti i post

Lesley Lokko, la decolonizzazione aiuta l'architettura. Curatrice Biennale, c'è bisogno di novità anche nella formazione


Ansa

"Dopo due degli anni più difficili e divisivi che la storia ricordi, noi architetti abbiamo un'occasione unica per mostrare al mondo quello che sappiamo fare meglio: proporre idee ambiziose e creative che ci aiutino a immaginare un più equo e ottimistico futuro in comune".

Sicura e travolgente con tutta la forza della giovane Africa che è orgogliosa di rappresentare e nella quale è fiera di lavorare, Lesley Lokko, l'architetta anglo ghanese che guiderà la prossima Biennale Architettura (a Venezia da sabato 20 maggio a domenica 26 novembre 2023) commentava così qualche mese fa l'investitura appena ricevuta. "Una scelta audace e coraggiosa", sottolineava ringraziando il presidente della Biennale Roberto Cicutto. Lasciata New York per la sua Accra, in Ghana, dove con la collaborazione di David Adjaye ha fondato l'Africa Futures Institute (Afi) l'architetta, scrittrice e docente che succederà ad Hashim Sarkis è dunque al lavoro, concentrata sul grande impegno che la attende. E se il tema della kermesse veneziana è al momento top secret, in una densa intervista a thebrief testata online edita da Ppan, ragiona a tutto campo sul futuro di una disciplina nei confronti della quale spiega di sentirsi ottimista: "Lo sono perché ho potuto toccare con mano l'immaginazione di quest'ultima generazione di ragazzi africani- sottolinea - non solo di colore, ma anche indiani, e bianchi". Tra le prime a parlare di genere, identità e potere nell'architettura, temi che d'altronde sono stati sempre al centro della sua ricerca creativa, motore e sfondo in qualche modo pure della sua prolifica attività di romanziera (in Italia i suoi titoli sono pubblicati da Mondadori) Lokko si sofferma sull'importanza di "decolonizzare" l'architettura: "Considero la decolonizzazione un dono per l'architettura, perché significa aggiungere qualcosa, non sottrarre. Va colmato il divario", ripete ribadendo di sentirsi "quasi sopraffatta dalla creatività dei suoi studenti". E del resto - questo è un concetto che l'architetta, insignita del Riba Annie Spink Award per l'eccellenza nell'insegnamento dell'architettura nel 2020, ha ripetuto tante volte in diversi contesti - con un'età media sotto i vent'anni contro i 40 dell'Europa, l'Africa con tutta la sua enorme varietà e complessità è un continente che ha davvero molto da dare anche all'architettura. Un mondo "la cui complessità creativa richiede risposte altrettanto creative", spiega oggi a thebrief sottolineando ad esempio la necessità di lavorare sul linguaggio dell'architettura, che lei ritiene "veramente povero", per renderlo invece davvero universale.
    "Una delle grandi sfide che attendono le prossime 4 o 5 generazioni di professionisti dell'ambiente del costruito - dice -sarà quella di trovare, da una parte, un linguaggio universale per descrivere l'urbano, e dall'altra, un linguaggio che sia specifico per ogni sito. Non ha senso parlare un linguaggio universale, se poi nessuno capisce quello che dici in posti diversi". Uno sforzo di apertura e di innovazione che per forza di cosa deve coinvolgere anche i luoghi della formazione, le università, le accademie. Lei ne è convinta, tanto che nel 2020 a solo un anno dalla nomina ha lasciato sbattendo la porta il suo lavoro di preside alla Bernard and Anne Spitzer School of Architecture di New York in polemica con quello che definì un carico di lavoro "paralizzante" e una "mancanza di rispetto ed empatia per le persone di colore, soprattutto per le donne di colore, per i quali non ero preparata". Oggi, mentre lavora alle basi della sua nuova scuola, lo ribadisce: "Le istituzioni universitarie sono almeno dieci anni che affermano di voler cambiare, ma quando poi cerchi di farlo, non riesci. Ora è tempo di passare dalle parole ai fatti. Non è più una questione di avere 3 o 4 professori di colore, 2 donne, e poi metterli sulla copertina di una rivista, è necessario un cambiamento profondo e strutturale, anche se è un'idea spaventosa per l'accademia". Creatività, nuove generazioni, identità, ruolo dell'Africa. Chissà che non siano proprio questi i temi al centro della sua attesa Biennale. 

Architettura: il sacro nasce dalla realtà

È come mettere l’anima dentro a un corpo, far stare una chiesa dentro ai materiali edili. Un ossimoro eccellente, due pietre focaie che, scartavetrate fra di loro, generano la scintilla o l’incendio celeste. La difficoltà odierna nel concepirle è evidente quanto affascinante. So che sul tema è appena terminato un convegno a Bose. Secondo Aimaro Isola è il sagrato a contare più della facciata. Forse sì, ma quando la calamita è potente e il sagrato, per dirla, sia quello della basilica di San Pietro. Certo, il sagrato può essere luogo di intersezione di varie culture ma rischia anche di poter diventare il cortile dei gentili, che è un fuori rispetto al dentro del tempio. La chiesa invece è un dentro-fuori, senza sancta sanctorum o iconostasi di separazione. 

Bella la cattedrale di Medellin, forse capitale mondiale della droga. Le porte della facciata e quelle laterali del tempio sono tenute spalancate e, nei luoghi circostanti, dal sagrato, ci si ritrova all’interno, in un tutt’uno che non separa appunto l’esterno dall’interno e viceversa, come esattamente un anello di Moebius. A proposito del sagrato, si può rammentare quando nell’Ottocento i “folli di Dio”, nella Santa Russia, arrivavano a sputare sui portoni delle chiese, immagino significando che non solo nei riti sta il nocciolo. Gli stessi folli si fermavano a pregare sulle porte dei postriboli, significando, credo, un potente bisogno redentivo. Delle due situazioni forse sarebbe stata necessaria una sintesi fraterna.

Leggo ora, su “Avvenire”, l’intervista all’architetto cileno Cristián Undurraga, che può fare a meno di croce e altare, perché più astratto è il luogo e maggiore è la spiritualità che vi abita. Mi pare che il restauratore del Palacio de la Moneda malponga la questione. Il silenzio lo si può incontrare dove c’è. Basta trascorrere una notte in una stazione ferroviaria di testa o una giornata in un cimitero per percepire un silenzio che però, in sé, è neutrale. Tocca al beneficiato indirizzarlo e farlo proprio. La spiritualità è un’altra cosa. È sufficiente un viaggio in metropolitana all’ora di punta per sentire il folto dei corpi umani, l’odore e persino l’ingenuità di coprirlo con l’artefatto dei profumi. 

Penso alla ressa di malati in barella negli atri dei pronto soccorso urbani. Se il cuore non è piccolo, questi luoghi mescolano i salmi del male e la loro spiritualità. No, i non luoghi non esistono, sono gremiti invece da anime corporali. E la croce? È ineliminabile, perché la relativa religione è l’unica che viene da un martirizzato, che si fonda sull’eterna pena di morte, privilegio mostruoso del genere umano. Temo che l’idea di una caverna, col suo primitivismo, di cui l’architetto cileno dice, non sia una buona soluzione. 

È una inutile regressione ai primordi dell’umanità, perché il bene e il male non hanno un calendario qualsivoglia. Per significare, a mio avviso, come i luoghi sacri, asettici non invoglino all’incontro con il Padreterno, mi pesa ancora troppo la chiesa progettata da Renzo Piano per Padre Pio. Riesce persino a cancellare la spiritualità naturale di quell’Appennino con questa ostentazione di arconi che mi sono parsi più idonei per una fiera espositiva di trattori agricoli che non per recitare il Padre Nostro.

Anni addietro pensai, occupandomi di linguaggio, che l’architettura religiosa è la lingua del religioso abitare. Allora, con un amico architetto, partecipai addirittura a un concorso per la progettazione di nuove chiese. Non lo vincemmo, ma scelsi come forma dell’edificio quella di un pesce, preso pari pari dalle stilizzazioni nelle catacombe. Il pesce di calcestruzzo era circondato da acqua. Il tetto era di vetro ed era il fondo di un acquario ricco di pesci. Stando in chiesa, si sarebbero visti i pesci volare. Si poteva anche tornare a un modello naturale ma solo perché già mediato dalla prassi della storia della buona novella. Se non sbaglio, altri hanno poi, autonomamente usato l’idea.
Ma oggi, oggi, perché si devono scolorire i colori per renderli neutri, abolire gli spessori per ottenere un mondo di carta velina? Se oramai viviamo accatastati, in comune con gli oggetti, perché rifugiarsi in uno spazio che non c’è? Allora, sgomitando tra i calcestruzzi fraternamente dilaganti, penso alle tante fabbriche dismesse. 

Ecco, forse sono facilitato in questa sensibilità, dal fatto di essere figlio di un operaio. Lì, fra le mura abbandonate dell’industria, il martello ha battuto infiniti chiodi, crocefissa infinita fatica. Riattare un edificio simile, e preferisco proprio la parola riattare a quella restaurare, darebbe una chiesa già quasi consacrata di per sé, grazie alla sua propria storia. Ho visto ospedali abbandonati, poi trasformati in scuole. Cosa di meglio di quel luogo di innumerevoli viae crucis per diventare chiesa o essere di già una chiesa? E ancora mi riferisco alla dismissione di edifici carcerari. Luoghi di disperazione, suicidi, violenza e redenzione. Anche questa tipologia fa parte di una trinità di opportunità con dentro un’eco di emozioni, che di per sé danno luogo alla scaturigine della verticalità religiosa. 

Credo l’architettura della chiesa debba essere un’acqua potabile, non un’acqua distillata o sterilizzata. Deve recare in sé la sua naturale flora batterica, non essere figlia dell’antibiotico che garantisce purezza al momento ma promuove resistenza nell’indomani. Ecco, sono soltanto appunti, aggiunti per una riflessione centralmente al di fuori al mondo dell’architettura e solamente colloquiale con la mensa senza tovaglia del vino e del pane. Abbozzi che si giocano sull’inciampo nella realtà, per non buttare nulla della fatica e del dolore della storia, perché è lì che è contenuta la nostrana gloria.
Avvenire

Apre Biennale Architettura, 65 paesi

 Con la presenza di 65 Paesi, di cui cinque presenti per la prima volta, è stata aperta la tre giorni di vernice della Biennale d'Architettura di Venezia. "Reporting from the front", questo il titolo della 15/a edizione della mostra, è diretta da Alejandro Aravena e organizzata dalla Biennale di Venezia presieduta da Paolo Baratta. La rassegna, che sarà aperta al pubblico da sabato 28 maggio a domenica 27 novembre 2016, ai Giardini e all'Arsenale di Venezia, vede la partecipazione di new entry come Filippine, Lituania, Nigeria, Seychelles e Yemen. Il Padiglione Italia alle Tese delle Vergini in Arsenale, sostenuto e promosso dal Ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo, è stato affidato al team TaMassociati composto da Massimo Lepore, Raul Pantaleo, Simone Sfriso.
ansa