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Da Caravaggio alle rovine, i tormenti di Guido Reni a Roma

 

La Roma delle grandi committenze legate al Giubileo del 1600, l'impatto stravolgente con l'archeologia, il confronto con Caravaggio e i rapporti non facili con gli altri grandi del suo tempo, l'urgenza di trovare un linguaggio nuovo e davvero suo, per la pittura religiosa, ma anche per le scene di paesaggio che tanto piacevano ai ricchi committenti.

Colto, raffinato, perfezionista, il grande Guido Reni, a dispetto di come la storia lo ha sempre raccontato, era anche un uomo irrequieto e tormentato, una personalità non meno complessa e in certi tratti non meno ombrosa di quella dichiaratamente maledetta del coetaneo Michelangiolo Merisi.

"Un pittore che abbiamo sempre considerato uno straordinario interprete della pittura religiosa, con profondi riferimenti classicisti, ma che è stato pure uno straordinario sperimentatore", spiega appassionata la direttrice della Galleria Borghese Francesca Cappelletti presentando la piccola grande mostra che a più di trent'anni dall'ultima grande esposizione italiana darà il via dal 1 marzo alla prima di una serie di iniziative internazionali dedicate al Maestro del Seicento italiano. Intitolata 'Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura', curata da Cappelletti (con la collaborazione di un team di studiosi tra cui Raffaella Morselli e Maria Cristina Terzaghi), l'esposizione ruota al "ritorno a casa" della Danza Campestre, una tela della collezione Borghese, dispersa nell' 800, che il prestigioso museo romano è riuscito a ricomprare. E proprio questo olio che racconta una festa da ballo all'aperto sotto un cielo dalle mille gradazioni di blu, si è rivelato un tassello fondamentale per ricostruire i primi anni romani dell'artista, i conflitti, le sperimentazioni, la messa a punto di un suo personale e particolarissimo linguaggio. "Non un percorso di formazione perché Reni arriva a Roma sull'onda di una carriera già brillante", spiega Cappelletti. "Era un pittore che già sapeva troppo e che in città resta un isolato di grande successo". Piuttosto, allora, il racconto di quello che il maestro ha preso dalla sua esperienza romana e del segno che ha lasciato. E anche un invito a riscoprirlo con un itinerario di luoghi romani che si affiancherà al catalogo. (ANSA).

Mostra i bolognesi che fecero Roma


Dire che sia una rimpatriata non sarebbe sbagliato, ma, in fondo, è un po’ riduttivo; dire che sia una parata di opere, più o meno grandi, frutto di una rinnovata stagione di studi, sarebbe invece eccessivo; e poi l’occasione è abbastanza casuale: i restauri nella “Sala Bologna” della Pinacoteca Capitolina, incentivati dal Giubileo della Misericordia. È invece un gioco di sponda naturale che ha riportato a casa i dipinti della scuola emiliana a cavallo fra XVI e XVII secolo, collocandoli nello scenario più giusto, Palazzo Fava, dove lungo la parte alta al piano nobile si dipana il celebre ciclo d’affresco dei Carracci sul mito di Giasone e Medea. Le opere testimoniano i rapporti fra Bologna e Roma in quell’epoca, e sono un nucleo approdato al museo capitolino nel XVIII secolo, con l’acquisizione voluta da papa Benedetto XIV, al secolo Prospero Lambertini già arcivescovo di Bologna. 

Se il dato storico ci spinge a considerare gli intrecci fra Roma e Bologna fin dal Cinquecento nella figura di Prospero Fontana, come ricorda Claudio Strinati nel catalogo; questa joint-venture museale consente anche di ripercorrere la storia della costituzione della Pinacoteca Capitolina a partire dalla megacquisizione pontificia della collezione Sacchetti, famiglia all’epoca coperta da debiti che rimontavano di alcune generazioni: centottantasette dipinti fu l’inventario della cessione del 1748 e il prezzo pagato venticinquemila scudi. Notizie ricordate da Sergio Guarino, curatore della mostra. A questo corpus se ne aggiunse nel 1749 un secondo, proveniente dalla famiglia dei Pio, che avevano trasferito il loro baricentro in Spagna, altri 126 quadri dai quali vennero esclusi i dipinti “osceni” e le copie, e il valore stimato dal pittore Giovanni Paolo Panini piacentino d’origine e romano d’adozione, sedicimila scudi, venne corrisposto.

A questo punto come ricorda Guarino, il nucleo portante della pinacoteca, oltre trecento quadri, era costituito, «rimaneva la necessità di occuparsi, come lo stesso Benedetto XIV aveva scritto nel chirografo Sacchetti, dell’“ammaestramento della Gioventù inclinata allo studio delle Arti Liberali”, obiettivo che venne raggiunto pochi anni dopo, istituendo la Scuola del Nudo dell’Accademia di San Luca, in stretto collegamento con la collezione dei quadri». Papa Lambertini inaugurò una linea moderna nella difesa dei beni artistici di Roma, con tanto di norme a tutela del patrimonio (Andrea Emiliani ricorda che all’epoca «l’esportazione incontrollata» era un problema serio per Roma, niente di nuovo sotto il sole dunque); il Lambertini, già pontefice, aveva pubblicato anche un editto che immobilizzava le proprietà ecclesiastiche bolognesi, adeguandosi ad analoghe norme in vigore a Venezia.

Fu sempre lui ad acquistare ciò che restava d’importante della raccolta d’Este ceduta dal duca di Modena, con una emorragia che aveva portato opere importantissime a Dresda. E altre iniziative in merito intraprese per arricchire il Museo Cristiano della Biblioteca Apostolica. Sono soltanto alcuni cenni sul ruolo svolto da Benedetto XIV a tutela dei patrimoni artistici romani e non solo, che anticipano e pongono le basi per un nuovo impianto giuridico a sostegno di questa salvaguardia. Canova fu forse il più convinto continuatore di questa politica come difensore del patrimonio dalle grinfie napoleoniche, e nella stessa epoca Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy nelle Lettere a Miranda, scrive, a proposito del patrimonio di Roma che «il vero museo si compone, è vero, di statue, di colossi, di templi, di obelischi, di colonne trionfali, di terme, di circhi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di tombe, di stucchi, di affreschi, di bassorilievi, di iscrizioni, di frammenti di ornamenti, di materiali da costruzione, di mobili, di utensili, eccetera eccetera, ma nondimeno è composto dai luoghi, dai siti, dalle montagne, dalle strade, dalle vie antiche, dalle rispettive posizioni delle città in rovina, dai rapporti geografici, dalle relazioni tra tutti gli oggetti, dai ricordi, dalle tradizioni locali, dagli usi ancora esistenti, dai paragoni e dai confronti che non si possono fare se non nel Paese stesso».
Sarebbe lungo discutere questa convinzione, ma è certo che sulla base delle parole di Quatremère de Quincy tutto diventa museificabile (e sappiamo bene come la conservazione a oltranza abbia anche generato mostri e falsi storici, non tanto quelli di Viollet-le-Duc che erano dichiarati e a modo loro immaginifici, ma quelli davvero immobilisti della cultura del recupero dei centri storici propugnata negli anni Ottanta del Novecento da Pier Luigi Cervellati che spesso ha prodotto la mummificazione dell’immagine della città, sostituendone solo il materiale corporeo, ovvero demolendo quartieri antichi perché fatiscenti e ricostruentoli identici, magari con un’anima in cemento armato).

Ma, ecco, se tutto questo è degno di riflessione, non sono però gli spunti storici quelli più suggestivi che offre questa mostra. Sono le emozioni singole, legate ad alcune opere piuttosto che ad altre: il “ritorno a casa” di Prospero, Annibale, Ludovico, Guido, Domenico ci fa ricordare quanto la “poetica degli affetti” identifichi i bolognesi di quel tempo. Si potrebbe dire che sia essa a tenere unito l’arco che dal manierismo aggetta verso il barocco. Se Caravaggio ravviva la realtà con un pensiero metafisico, i bolognesi la esprimono sempre con uno scarto psichico che li rende lunatici, ipocondriaci, sentimentali, mai zuccherini. Esistenzialisti ante litteram forse: basti guardare quel formidabile memento che è il San Francesco in adorazione del crocifisso di Annibale, coi fori delle stigmate come speculum che fa vedere di riflesso il sacrificio di Cristo.

Così anche la materia pittorica del bellissimo Ritratto di giovane di Ludovico, cugino di Annibale, con quel movimento degli occhi verso la sorgente luminosa che sembra portare un soffio vitale nelle fibre stesse del colore; e sempre di Ludovico lo sguardo tenero e malinconico che Caterina d’Alessandria rivolge al Gesù bambino tenuto in braccio dalla Madonna, la quale, a sua volta, medita sul destino di entrambi, il sacrificio che salva e la testimonianza nel martirio. Le figure di Guido, tranne il San Girolamo già attribuito a un’altra mano di pittore emiliano (chissà che non ci sia quella di un romagnolo, oppure del pesarese Cantarini, che di Reni fu allievo), vivono in una luce-materia perlacea e lunare, una sostanza che quasi sfugge al controllo della forma e si scioglie in un colore freddo non d’incredulità, ma carico del nichilismo che spinge il giocatore d’azzardo a sfidare il destino.
Bologna Palazzo Fava. "Guido Reni e i carracci" fino al 13 marzo.
da avvenire