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Torino. Oggetti di devozione da tutto il mondo In mostra l'umanità unita in una preghiera


Nepal, città di Katmandu, piazza Durbar: la grande festa d’inizio anno in onore di Shiva. Una donna aggiunge palline di cera ai piccoli ceri che già bruciano da ore di fronte al tempio. Si ferma a mani giunte, recita qualcosa e poi con la mano destra si segna, prima la fronte, poi il petto, poi una tempia. Cosa sta facendo? Ho la presunzione di pensare che stia pregando. Cosa me lo fa pensare? L’intensità del suo sguardo, il raccoglimento e il fatto che con lei migliaia di altre persone ripetono gli stessi gesti, gli stessi mantra e chiedono, mi sembra, qualcosa. Shiva è il dio della creazione e della distruzione allo stesso tempo, principio vitale nella sua danza perenne e distruttore del male. Immagino quindi che la donna si stia “indirizzando” alla divinità per lodarla o per chiederle qualcosa. Immagino. 

Una buona prudenza mi fa pensare allo stesso tempo che non posso proiettare su di lei quello che io conosco del pregare. Eppure qui, come tra i sufi di una tekkè di Istanbul o tra gli oranti di una sinagoga a Casale Monferrato, come tra i copti di Lalibela in Etiopia vedo gesti e parole, movimenti individuali e collettivi che mi fanno pensare alla stessa cosa: al fatto che pregare non sia un’esclusiva del mondo a cui appartengo, ma qualcosa che ha a che fare con una base comune a tutta l’umanità. Ci vuole del coraggio nel dirlo, sicuramente, perché mai come adesso siamo soggetti alla prova del pensare che le religioni siano luogo di conflitti, che tra induisti e musulmani in India non c’è pace, come non c’è tra copti, cristiani e musulmani in Egitto o in Siria, come non c’è tra buddisti e induisti in Thailandia o a Sri Lanka. Però quell’intensità, quel rivolgersi alla divinità o alle profondità di sé stessi, gli strumenti stessi usati per la concentrazione, rosari che si chiamano 
mala, tesbih, japamala ma che consentono al fedele di diventare una macchina di preghiera, tutto questo mi spinge a credere che ci sia una base comune. È il contrario di quanto alcuni pensatori hanno dichiarato. 

Rodney Needham in un famoso libro dal titolo Credere metteva in dubbio che si potesse estendere la categoria del credere a culture che non sono la propria. Ed il laicismo alla francese che oggi manda in carcere i ragazzini che a scuola si rifiutano di dire «Je suis Charlie» professa come credo l’abolizione di tutti i credi. Rispetto a questa posizione come antropologo e come viaggiatore assiduo non posso non pensare che anche gli “altri” preghino. 

Me lo dice l’esperienza diretta, l’amicizia con persone di altre culture, la conoscenza dei testi delle preghiere altrui, islamiche, induiste, buddiste, ebraiche e perfino di mondi che sembrano lontani, quelli dell’animismo e dello sciamanesimo, ma che condividono lo stesso anelito a comunicare con la divinità, sia essa rappresentata 
da spiriti della natura, da una pluralità o da un’unità di forze. Me lo dicono gli studiosi di religioni che da almeno due secoli si arrovellano su questa materia. 

E me lo dice l’evidenza della mia esperienza diretta. Ed è per questo che da qualche anno ho coltivato un sogno anticonformista e pericoloso: quello di raccontare la preghiera come qualcosa di universale, di comune nei gesti, nelle parole, nei canti, nelle danze a culture diversissime e lontanissime. 

Ho raccolto rosari di tutti i culti e mi sono stupito della loro bellezza e antichità e poi ho scoperto che i rosari “comunicano” tra di loro, raccontano cioè una storia di “prestiti” da una cultura all’altra. Nascono nel Subcontinente indiano, vengono assunti dal buddismo, i sufi dell’Asia centrale se ne appropriano e li passano ai monaci ortodossi anatolici che a loro volta li passano al mondo cattolico. Questi cerchi di preghiera raccontano l’assiduità della preghiera, il bisogno di ripetere, la sua circolarità che abolisce il tempo e lo rende qualcosa di fertile per dare al mondo un aspetto più divino. Ma allo stesso modo ci sono gesti come il “segnarsi”, come il genuflettersi, il tenere le mani giunte, o le braccia aperte nell’invocazione e nella danza che risalgono a tempi antichi e che sono ancora presentissimi nell’umanità. È il grido del Salmo 30, che dice: «Hai trasformato il mio lamento in danza». La preghiera implica, coinvolge e trasforma il corpo nella sua individualità e nella sua comunità con altri corpi, di presenti e di assenti. 

Contro la tendenza a pensare che le religioni siano luogo dell’antagonismo, una parte di me sa che esse sono anche l’espressione di un anelito comune che produce straordinarie coreografie, architetture, poesie, pratiche quotidiane, quello che gli antropologi chiamano “cultura”. Mi trovavo qualche giorno fa, invitato dal governo del Marocco, a filmare la preghiera all’interno delle magnifiche moschee di Fes. Un privilegio, perché ai non musulmani è interdetto l’ingresso. Adesso sono io l’osservato mentre riprendo. A questi composti fedeli che si genuflettono al richiamo del muezzin e che adempiono cinque volte al giorno uno dei doveri dell’islam, la 
salat, devo sembrare alquanto singolare. Perché l’altra faccia della medaglia è che ogni orante di ogni religione pensa che la sua sia l’unica maniera di pregare. E si stupisce che, ad esempio, il rosario esista anche in una cultura diversa dalla propria. È difficile testimoniare la base comune della preghiera, ma è anche sempre più urgente perché implica una vera coscienza universale. 
avvenire

Mostra al Louvre. Rapporto con Dio di Poussin, "Raffaello francese"

Balzac aveva colto l’essenza di una polemica nazionale che durava dal Seicento mentre scriveva Il capolavoro sconosciuto. Fra le tante cose che Balzac semina nel racconto, infatti, c’è anche sottintesa laquerelle che da due secoli si combatteva attorno a Poussin, il pittore filosofo, ma anche il “libertino erudito”, insomma il genio nazionale che la Francia venerava, e venera, come il suo Raffaello. 

I protagonista del Capolavoro sconosciuto, Frenhofer, riceve la visita dell’amico pittore Pourbus, il quale viene accompagnato da un giovane artista, Poussin appunto. Di fronte al quadro che Frenhofer sta dipingendo i due hanno un moto di sconcerto: gran parte della tela, infatti, è coperta da una informe crosta di colori, e soltanto in un angolo si vede emergere un piede femminile, ma eseguito con sublime verità. Frenhofer insiste a difendere il suo capolavoro che sfida la vita, ne nasce un alterco e il congedo dei due ospiti è brusco e repentino. 

Il giorno dopo Pourbus tornerà da Frenhofer e scoprirà che si è ucciso. In precedenza, però, Frenhofer aveva cercato di spiegare al povero Pourbus, che si era recato da lui per mostrargli un suo ritratto femminile, che cosa non andava (pur essendo ben dipinto): «Non riesco a credere che questo corpo sia animato dal tiepido soffio della vita. Mi sembra che se posassi la mano sulla gola di questa immobile rotondità, la sentirei fredda come il marmo». Qui Balzac applica a Pourbus la critica che venne mossa, già nel Seicento, a Poussin. La sua freddezza, la cerebralità della sua pittura “di pietra”.

La critica era stata rivolta a Poussin da Roger de Piles, artista e diplomatico francese, che aveva ricevuto una formazione filosofica e teologica e soggiornò per qualche anno a Venezia. De Piles scrisse, tra le altre cose, un Dialogo sui colori (1673), dove sosteneva la superiorità della pittura veneziana su Raffaello. Ma ai vertici poneva Rubens, contrapposto a Poussin, il quale, dice De Piles, finisce per dare alla carne l’apparenza della pietra, mentre Rubens fa proprio il contrario, fa sembrare carne la pietra. Lesa maestà? Certo, se si considera che Poussin era già all’epoca, cioè otto anni dopo la sua morte, considerato «le Raphaël de la France», come ricordano Nicolas Milovanovic e Mickaël Szanto, introducendo in catalogo le questioni da cui nasce l’importante mostra che il Louvre ha inaugurato a proposito di Poussin e Dio

E sarà perché si tratta ancora di lesa maestà che i due curatori della mostra nel loro saggio non nominano mai De Piles? Eppure, questo personaggio dalla vita avventurosa fu, con André Félibien, il teorico più ascoltato nel dibattito sulla pittura, dove difendeva, contro Vasari, la supremazia del colore sul disegno. La diatriba si lega bene al tema della mostra, tanto più che i curatori partono dalla polemica suscitata circa vent’anni fa da Jacques Thuillier quando allestì la grande retrospettiva su Poussin al Grand Palais. Thullier disse a chiare lettere che non vedeva in Poussin un vero afflato religioso, anzi aggiungeva che non fu mai toccato dalla grazia, quindi dalla fede, semmai realizzò una sintesi di cristianesimo e stoicismo antico (che bastava però a Fumaroli per farne un pittore cristiano).

Poussin era quasi un asceta, non si concedeva lussi, e non li ostentava. Aveva vissuto parecchi anni a Roma, dov’era morto nel 1665. Dire che campasse di niente, d’altra parte, sarebbe comico. Era, appunto, un pittore filosofo, e nell’Autoritratto del 1650, all’età di cinquantaquattro anni, mostra lo sguardo severo e virtuoso del “moralista” che nella mano destra stringe una cartella colma di disegni e al mignolo porta un anello con diamante. Le ultime ipotesi legano questo anello alla figura femminile sullo sfondo che indossa un diadema con al centro un occhio aperto (che il Bellori interpretò come un’allegoria della pittura), a un significato propriamente cristiano: l’occhio sarebbe quello della Provvidenza e le due braccia che cingono la donna evocherebbero l’incontro di Maria con Elisabetta, dove l’anello diamantato rappresenterebbe il simbolo della forza e costanza nella fede in Cristo “divino diamante”, incorruttibile e celeste. Ipotesi ardita, non c’è dubbio. Tuttavia, il fatto che Poussin abbia dipinto circa quaranta quadri dove compare la figura di Mosè, significherà qualcosa, tanto più se si pensa alla lunga tradizione misteriosofica fondata sul “Mosè egizio”. 

Bisognerebbe anche ricordare che dai Libri Carolini in poi esiste una polemica dei francesi sull’immagine sacra che rifiuta la consustanzialità fra l’immagine e l’archetipo affermata dal cristianesimo orientale (i Libri Carolini furono scritti, infatti, come risposta critica alle conclusioni del secondo Concilio di Nicea). Il sacro per un pittore francese è, in ogni caso, più secolarizzato di quanto non sia per un pittore italiano. 

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L’Eucarestia che Poussin dipinge pare la cena iniziatica di una setta o la seduta notturna di una scuola eleatica; dello stesso tenore anche il sacramento della cresima. Sono il frutto della meditazione di Poussin sugli antichi (più che su sant’Agostino, come sostengono i curatori della mostra), che egli traspone in una precisa metrica compositiva ammantando l’immagine del significato cristiano (il Cristo del Miracolo di san Francesco Saverio, d’altra parte – e già all’epoca venne così etichettato – sembra una specie di “Giove tonante” che incombe dal cielo).

C’è sempre qualcosa di troppo “elevato” in Poussin: L’Assunzione della Vergine sembra venirci incontro con la solidità di una statua, La Sacra Famiglia sulle scale pare più interessata alla dialettica con l’architettura e all’austerità "morale" della vita in una ideale società antica; la Morte della Vergine è una costruzione di elementi retorici dove il dolore e ilbouleversament indotto nei discepoli dal trapasso della Madonna non ha più nulla della verità umana, che invece si coglie nel quadro di Caravaggio, spostato per l’occasione poche stanze più in là, sempre al Louvre, dove è allestita, in perfetto pendant, una piccola ma calibratissima mostra, sulla “fabbrica delle immagini sante” a Roma e Parigi tra il 1580 e il 1660. Quattro anni fa il Louvre aveva presentato in queste sale una retrospettiva su Rembrandt e la figura di Cristo. 

Ne avevamo parlato ricordando quanto fosse stata decisiva la ricerca di Rembrandt se si prova a immaginare il deserto iconografico che si era prodotto nelle chiese olandesi con la Riforma. Molti artisti non avevano più sotto gli occhi modelli a cui ispirarsi. Rembrandt reinventa l’iconografia di Cristo e ce ne restituisce un’immagine profondamente umana senza tradire l’altra natura, quella divina. Se, adesso, consideriamo con la stessa ottica questa mostra sulla costruzione delle immagini sacre a Parigi, tenendo ben in mente la storia dell’iconoclasmo che dopo l’epoca tardo-bizantina riceve dalla Riforma nuova linfa, ci accorgiamo che a venir meno fu la natura umana, rimanendo quella divina una specie d’involucro, di larva, senza empatia; ed è questo un segno della difficoltà a conciliare teologia dell’immagine e incarnazione, così che prevale l’ésprit, cioè la mente e la ragione, anziché il cuore, pascalianamente inteso. 

È un’arte retorica, che non sembra potersi spingere, per esempio, dentro il dramma della Redenzione – vedi il Cristo morto di Philippe de Champaigne, che pare in posa per una foto, coi truccatori che hanno deposto ai bordi della ferita di lancia un gel colorato che gocciola luccicando su un corpo dove persino i buchi dei chiodi hanno qualcosa d’inverosimilmente grande e innaturale. La morte del Cristo diventa quella di un eroe, il sacrificio per l’idea, a cui, oltre un secolo dopo, l’iconografia rivoluzionaria cercò di dare nuovo pathos simbolico e rituale portando a compimento quella razionalizzazione del sacro che s’intuisce già in Poussin e in altri artisti francesi del suo tempo.
avvenire

Parigi Bonnard, il lusso del colore


Il paladino più appassionato della pittura di Pierre Bonnard, oggi, è certamente Jean Clair. Difficile dargli torto, dopo essere usciti dalla straordinaria retrospettiva che il Museo d’Orsay dedica al pittore francese, a cura di Guy Cogeval e Isabelle Kahn. Sì, si può fare come alcuni critici che accusarono Jean Clair di aver usato Bonnard per ribadire la sua idiosincrasia verso le avanguardie. Il saggio, non lunghissimo, che scrisse nel 1975, ripubblicato nel 2006 e poi ancora nel 2008 all’interno di una raccolta di interventi critici, era un primo frutto di quella “critica della modernità”, che Clair stava elaborando, poi riassunta in un fortunatissimo pamphlet che tenne banco all’inizio degli anni Ottanta quando si cominciò a parlare del “ritorno alla pittura” che coincise con la moda del postmoderno.
Si dice che la pittura sia un’arte che torna in auge quando si fa sul serio, e quando il mercato riprende quota. È un lusso che diventa barometro della salute economica, insomma. Ora, Bonnard è certamente un pittore del lusso. Ma non quello borghese, ché anzi dalla sua pittura traspare una certa antipatia verso questo mondo. Il lusso di Bonnard è di segno metafisico, è quello del colore che riporta la natura a una condizione dove l’ombra è quasi imprendibile e rende a sua volta i corpi e le cose un riflesso nello specchio che, con la finestra, come notava Clair, è un tema importante per Bonnard. Nel catalogo della mostra, Nicholas-Henry Zmelty scrive che Bonnard e Matisse reinventarono il motivo classico della finestra, e si potrebbe aggiungere che la finestra (e lo specchio) sono il “diaframma” tramite il quale la natura torna a essere il giardino dell’inizio, vista come il «primo mattino del mondo» scriveva Clair, cogliendo un riferimento allo sguardo di Dio che ricrea il mondo in ogni istante mentre lo guarda.
Sempre i critici avversi, insinuarono che Clair volesse usare Bonnard come arma contro Matisse. Difficile avere la meglio, questo è certo. Perché Bonnard è sicuramente un pittore puro, pur senza essere un astratto antifigurativo. La mostra si apre con un Paravento a tre ante del 1889: il fondo completamente rosso, canne di bambù e felci, uccelli di varie specie: la certezza che quest’opera raffinatissima deve moltissimo alla stampa giapponese è pari a quella su quanto il primo Matisse debba a Bonnard.
Pare che non datasse mai la sua corrispondenza, Bonnard; invece, annotava giorno per giorno con meticolosa precisione nei suoi carnets le minime variazioni meteorologiche. Era tipico di un temperamento melanconico. Matisse lo fu forse di meno? Non disse instancabilmente, per tutta la vita, che la pittura doveva suscitare la gioia di vivere, essere un’oasi per l’uomo oppresso dalle infinite brutture di questo mondo? Sempre nella prima stanza della mostra, vengono esposte alcune strepitose tempere su carta, con figure femminili in giardino (e una con una donna in vestaglia che si confonde con la natura al punto tale da essere quasi indistinguibile da essa) dove valore di superficie e valore tattile del colore si scambiano continuamente i ruoli, in un sublime artificio decorativo.
Siamo 1890 e ’91, lo japonisme domina la scena parigina dopo le esposizioni universali che hanno fatto conoscere l’arte orientale e quella dei primitivi africani e oceanici; l’impressionismo è all’apice; ma Degas aveva sorpreso tutti e scandalizzato i benpensanti nel 1886 con sette pastelli dove donne della più umile condizione sociale vengono mostrate mentre fanno il bagno, si asciugano, si pettinano. Un affondo di strepitosa bellezza. Ed è ai pastelli e all’immaginario poetico di Degas, che Bonnard s’ispira in dipinti come La siesta (1900), Donna addormentata sul letto(1899), ma soprattutto negli anni che ruotano attorno alla Grande guerra, con Nudo inginocchiato nella tinozza del 1918 (che cita esplicitamente Le tub di Degas), Grande nudo blu del 1924, e ancora nel Nudo di schiena alla toilette del 1934.
Una cosa è chiara: Bonnard si è scelto i suoi compagni di viaggio: tre, in particolare: Degas, Matisse e Redon. Ecco l’altro profeta del mondo “surnaturel” e libero da ogni preconcetto modernista. Chi ha potuto vedere la grande retrospettiva che Parigi ha dedicato a Redon nel 2011 ed è entrato in quella stanza allestita coi dipinti che realizzò nel 1911 per l’abbazia di Fontfroid (acquistata dal pittore Gustave Fayet, suo amico), si è reso conto di quale poesia del colore furono capaci alcuni artisti francesi nei primi decenni del Novecento, oltre lo stesso impressionismo, anzi negando all’impressionismo quel verbo prospettico che lo stesso Matisse smantellerà nella sua pittura fauve e poi nelle composizioni successive dalla Danza del 1909, con gli interni arabescati degli anni Dieci, fino al culmine, dopo la metà del secolo nei papiers découpés.
Fra Bonnard e Redon la sintonia è anche nella tavolozza: certi gialli e azzurri, gli arancioni e i turchese tendenti al violetto. E il viola è il colore dove il cromatismo di Bonnard scatta con una intensità che tiene insieme bellezza e malinconia, come nel dipinto, sul quale tornerà più volte nell’arco di quasi vent’anni, La terrazza a Vernon (1920-1939). Vernon, che dista pochi chilometri da Giverny, dove Monet si è ritirato per dipingere la sua “natura naturata” del giardino che ha creato per essere una macchina dell’immaginazione; poco distante, dunque, Bonnard dipinge la sua natura “edenica”. Fénéon lo aveva definitivo un Nabis «molto giapponese»: in realtà, nei Nabis Bonnard ci stava stretto, la sua pittura era “profetica” ma non simbolica come l’intese il cenacolo raccolto da Paul Sérusier. Bonnard cercava il colore-vita, il colore-sguardo, era, per certi aspetti, un neobizantino. Ne testimoniano quadri come La danza del 1912, ma anche Il Paradiso terrestre e Sinfonia pastorale, dipinti tra il 1916 e il ’20.
Col tempo Bonnard sembra voler riscuotere il suo credito col primo Matisse, e in un dipinto come Tavolo da lavoro (1926-37) ritrova quella composizione quasi bidimensionale che Matisse pensava come architettura astratta di colore, soprattutto negli interni domestici. Per giganti della pittura come questi, le analogie e le citazioni non sono mai veri furti, si tratta di stimoli amicali, di affinità elettive, di un sentire comune che rappresenta, oltre gli schematismi critici, un sentimento del colore, una visione, che li unisce come la linea di un arabesco e da Bonnard, può giungere, forse anche inaspettatamente, fino a Rothko e Barnett Newman.
Parigi, Museo d’Orsay
Bonnard
Peindre l’arcadie
Fino al 19 luglio
avvenire

Pasquetta al Museo dell'Olivo

(ANSA) - ROMA, 4 APR - Dalle tavolette cuneiformi di Babilonia, che testimoniano del consumo e del commercio dell'olio già nel II millennio a.C., ai resti millenari di olivi selvatici; dai pratici orci dei commerci romani, fino alle sontuose oliere da tavola in argento e cristallo colorato della Francia ottocentesca. In tempi di grande allarme per gli ulivi mediterranei, con gli alberi secolari della Puglia a rischio abbattimento per colpa della Xylella fastidiosa e il panico per la 'peste' che invade l'Europa e mette a rischio anche le esportazioni, c'è in Liguria un piccolo, curioso museo tutto dedicato all'olivo che a Pasquetta apre le porte gratis ai visitatori, per un tuffo nella storia millenaria e affascinante di questa pianta da sempre simbolo di pace. Allestito dal 1992 a Imperia - Oneglia in un villino anni Venti dalla famiglia Carli, storica azienda olearia del ponente ligure, il piccolo museo privato offre 18 sale che gli hanno fatto meritare nel 1993 anche la menzione di "museo dell'anno".
    Tre gli itinerari tematici, per ripercorrere la storia, scoprire i segreti della coltivazione, imparare tutto sulle tecniche di produzione dell'olio, apprezzare perfino come è fatto un terrazzamento tradizionale ligure, ricostruito all'interno del Museo. Un lungo percorso per scoprire, anche con l'aiuto di filmati e di una voce narrante, nonché di reperti archeologici, libri e documenti antichi, presse monumentali, sistemi di pesatura, impianti e utensili per la produzione di olio antichissimi, giare e contenitori, che la storia dell'olivo comincia addirittura nel IV millennio avanti Cristo con le prime organizzazioni statali del Medio Oriente che danno il via alle grandi civiltà mediterranee.
    Dal Medio oriente alla Grecia, dove l'olivo è consacrato ad Atena, la dea della sapienza, che vincendo la contesa con Poseidone, re del mare, lo offre in dono agli abitanti di Atene.
    Albero sacro, considerato tramite tra l'uomo e la divinità, simbolo di pace. La tradizione vuole che sia il ramo di olivo portato dalla colomba ad annunziare a Noè la fine del castigo divino. Ramo che si dice provenisse dall'albero piantato sulla tomba di Adamo. Una lunga serie di riferimenti materiali costella le Sacre Scritture e la tradizione ebraico cristiana: di olivo dorato sono le porte del Tempio di Salomone, di olivo e di cedro, secondo una leggenda, era la Croce di Cristo. La visita si conclude con due sale dedicate all'arte e alla poesia ispirate dall'olivo e con le oliere e i lumi ad olio che narrano di tavole imbandite nelle corti europee e di fiammelle dorate che dall'impero romano rischiarano la notte fino all'inizio del secolo scorso. Mentre in parallelo un percorso tattile realizzato con l'Unione Italiana Ciechi permette anche ai non vedenti di approfondire temi botanici, colturali, storici e tecnologici dell'olivo in ambito mediterraneo.
    A Pasquetta il museo sarà aperto dalle 9 alle 12.30 e poi dalle 15 alle 18.30. L'iniziativa, spiega Claudia Carli, direttrice comunicazione Fratelli Carli, "nasce dal desiderio di valorizzare il patrimonio culturale imperiese, nella speranza di coinvolgere anche altre realtà che come noi hanno desiderio di promuovere il turismo in questa meravigliosa parte del ponente ligure dove l'olivo, appunto, è il protagonista indiscusso".
    Visitarlo, chissà, può servire anche un po' a fare il tifo per la sorte degli olivi pugliesi. O quantomeno a prendere coscienza del grande valore, anche storico e culturale, di queste piante.
    (ANSA).
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Lunedì dell'Angelo alla Tenuta della Landriana

A pochi chilometri da Roma, gli storici giardini della Landriana aprono le porte al pubblico per il lunedì di Pasquetta: patrimonio di architettura paesaggistica di raro pregio, il parco è stato recentemente rinnovato e riaperto in occasione della primavera. Durante il periodo di chiusura, infatti, sono stati realizzati importanti lavori di ringiovanimento delle piante, che si presentano ai visitatori in una veste completamente nuova e vivace.
L'oasi mediterranea nei pressi di Ardea, sulla costa laziale, viene consegnata al pubblico da una storia del tutto singolare, che intreccia il caso alla nascita di una profonda passione. Tutto ebbe inizio nel 1956, quando il marchese Gallarati Scotti e sua moglie, Lavinia Taverna, decisero di acquistare, ad un'asta giudiziaria, una proprietà rurale che chiamarono la "Landriana", in omaggio ad uno dei nomi della famiglia Taverna. Dopo aver piantato degli alberi per frenare i venti che soffiavano dal mare, un'amica di famiglia donò a Lavinia Taverna una bustina di semi e la marchesa, quasi per gioco, provò a seminarli. Il risultato dell'esperimento fu sensazionale: nacquero delle piantine e con esse un profondo amore di Lavinia verso il giardinaggio. La marchesa iniziò ad avvicinarsi al giardino con grande ardore, dedicandosi con estrema cura alla semina e allevando con amore le centinaia di piante nate grazie al suo attento lavoro nell'area che circondava la casa, senza seguire uno schema preciso. A dare una struttura al giardino fu in seguito l'architetto paesaggista Russell Page, che lo suddivise in spazi circoscritti dal disegno fortemente geometrico, attraverso la creazione di siepi e vialetti.
Alla sua morte, nel 1997, Lavinia Taverna ha lasciato al pubblico l'inestimabile patrimonio di un giardino moderno e unico in Italia, fatto di attente giustapposizioni, accurate potature, viali e camminamenti lastricati o in erba, schemi di colori armoniosi. Oggi la Landriana costituisce uno stimolo ed una fonte d'ispirazione preziosa per chiunque intenda avvicinarsi al giardinaggio, sia con un approccio poetico e riflessivo, sia con un'attitudine più concreta e scientifica.
Durante il lunedì di Pasquetta, visite guidate accompagneranno il pubblico alla scoperta degli angoli più suggestivi della tenuta di dieci ettari: la Valle delle Rose, il Viale Bianco, il Giardino degli Ulivi e il quieto Lago circondato dalle rose antiche che proprio in questa fase dell'anno regalano un magico scenario. Un punto ristoro nel cuore del parco permetterà di fermarsi per il pranzo. Le festività della nuova stagione ai giardini sul litorale laziale proseguono dal 24 al 26 aprile con il ventennale del flower show "Primavera alla Landriana": all'evento sono attesi circa 150 espositori internazionali che presenteranno non solo piante insolite e rare, come da sempre recita il claim della Landriana, ma anche soluzioni tra le più nuove e sostenibili per gestire giardini o balconi. Era l'aprile del 1995 quando la marchesa Lavinia Taverna decise di allestire nei suoi meravigliosi giardini mediterranei una delle prime mostre di fiori e piante in Italia: a distanza di vent'anni, i giardini della Landriana, oggi guidati da sua figlia Stefanina Aldobrandini, sono divenuti un punto di riferimento del florovivaismo di qualità e simbolo di un valore culturale fiorito nel tempo proprio come le sue piante.
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Da Nord a Sud nei luoghi dello street food italiano

 
Dai bretzel agli scartossi di pesse, dal lampredotto al pane ca meusa: la bella stagione è iniziata e la primavera mette voglia di trascorrere le prime giornate di sole all'aperto, magari gustando le prelibatezze dal nord al sud d'Italia.

Con l'occasione Casevacanza.it ha analizzato i prezzi disponibili sul portale per il periodo che va dal 21 marzo al 30 aprile 2015 e ha calcolato quanto spenderebbe a notte, in media, un gruppo di quattro persone.

Partendo dalle Dolomiti, il tour del cibo di strada comincia dai bretzel, i simpatici panini che si trovano nella provincia di Bolzano dalla curiosa forma attorcigliata: per una notte in casa vacanza qui si spendono mediamente 95 euro. Gli amanti della montagna a primavera, delle passeggiate e dell'aria pulita possono recarsi in Valtellina, dove una notte in casa vacanza costa un po' meno, 90 euro; dopo una lunga camminata fra i sentieri, niente di meglio che ristorarsi con gli sciatt, frittelle ripiene di formaggio tipiche di questa zona.
Rimanendo al Nord, ma spostandoci verso il mare, per le calli di Venezia sono molti i turisti che passeggiano tra le bellezze della città con in mano degli invitanti scartossi di pesse, i coni di carta ripieni di pesce fritto della laguna. Per questo succulento spuntino, e per le meraviglie dei canali, si deve essere disposti a spendere un po' di più: i prezzi medi, in questa stagione, ammontano a 150 euro a notte. Sempre sul mare, ma sull'altro versante dell'Italia, troviamo Recco, in provincia di Genova, e la sua celeberrima focaccia: qui i prezzi sono notevolmente più contenuti e per affittare una casa vacanze bastano 85 euro a notte.

A Firenze, spendendo 110 euro a notte, è possibile fare tappa presso uno dei botteghini che prepara il lampredotto: non proprio cibo da turisti, certo, ma un panino che racconta la storia e la vita dei fiorentini molto meglio di un libro. A Livorno si spende molto meno, 60 euro, per assaggiare il cinque e cinque, un tipico panino farcito con una sottile torta a base di ceci. Tra le proposte dei luoghi dello street food italiano non poteva mancare la piadina, uno dei nostri simboli gastronomici più conosciuti: una notte in una casa vacanze a Rimini, terra d'elezione per questo prodotto, costa mediamente 65 euro.
Per chi vuole visitare Roma in primavera e godersi i suoi capolavori prima che arrivi il grande caldo estivo, una notte costa mediamente 100 euro: immancabile la tappa in una delle gastronomie che preparano i famosi supplì o la pizza romana. Basta molto meno, 65 euro a notte, nella zona dei Castelli Romani: qui i panorami sono mozzafiato, tra boschi e laghetti che in primavera offrono il loro aspetto migliore, e per goderseli a pieno niente di meglio che un buon panino con la porchetta all'aria aperta.

Per gli amanti della carne, di quella appena arrostita e fumante, il Sud Italia offre molte possibilità in questi giorni di primavera: in Abruzzo, per esempio, a Pescara, si potrebbero andare ad assaggiare i famosi arrosticini senza spendere troppo per il soggiorno (70 euro a notte). La Puglia, invece, va citata con le bombette della valle d'Itria: a Cisternino, paesino in provincia di Brindisi, per assaggiare questi deliziosi involtini serviti nei coni di carta una notte in casa vacanze costa in media 85 euro. La Sicilia offre ben due località per chi ama i sapori forti della carne e vuole osare: Catania è molto famosa per le grigliate all'aria aperta in giro per la città e che offrono involtini e polpette di cavallo ("Arrusta e Mangia"). Nella città dell'elefante, una notte costa mediamente 60 euro; leggermente più alti i prezzi di Palermo, 70 euro a notte, dove la vera chicca è u pani ca meusa, un panino ripieno di milza cotta nello strutto, condita con limone e ricotta salata. Ma chi visita Palermo non può rinunciare al panino con le panelle e alle arancine (disponibili anche in versione "bomba").

Per chi alla carne preferisce i carboidrati, allora i posti giusti da visitare a Sud in primavera per assaggiare delle vere e proprie delizie a base di farina sono Bari e Napoli. Nel capoluogo pugliese una notte in case vacanza costa mediamente 65 euro e, oltre al giro della città e dei dintorni, si può godere della focaccia barese, una delizia croccante ai bordi e soffice al centro e ricoperta di pomodorini e olive. A Napoli, bellissima da visitare in primavera quando ancora non fa molto caldo, troviamo lo street food più famoso del mondo, un vero e proprio marchio del nostro Paese all'estero, la pizza. Per assaggiare quella vera e, perché no, anticiparla con uno spuntino "light" a base di zeppoline e montanare, servono 90 euro a notte.
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La guida 'I Borghi più belli d’Italia' diventa multisensoriale

Nuova veste grafica per “I Borghi più belli d’Italia”, la guida turistica giunta quest’anno all’undicesima edizione, grazie l’inserimento di una'app per la realtà aumentata  che valorizza sensazioni, profumi e sapori che solo la storia e le tradizioni del Belpaese.  Un “apposito simbolo” posizionato accanto all’immagine permetterà d’individuare all’interno della Guida i contributi multimediali, grazie ai quali il lettore si ritroverà a spasso nei paesi e nei centri storici più caratteristici d’Italia, attraverso un’inedita esperienza multisensoriale. L’ App sarà scaricabile gratuitamente sul dispositivo mobile – tablet o smartphone – in versione APPLE IOS o Android e consentirà di accedere a contenuti interattivi extra a partire dalle informazioni presenti sulla Guida. Puntando la pagina individuata con la fotocamera del dispositivo si potranno visualizzare sullo schermo immagini, video, pagine web e link di approfondimento legati alla località, alla sua storia e alle eccellenze che rappresenta. Unite a una serie di aneddoti e curiosità che renderanno ancora più stimolante la conoscenza del luogo. La Guida, quest’anno, sceglie per la sua uscita in anteprima una location d’eccezione, infatti verrà presentata il 1 maggio all’Expo 2015 di Milano, all’interno del padiglione Eataly (dove I Borghi più belli d’Italia avranno uno spazio dedicato).
I borghi nell’edizione 2015, hanno raggiunto il numero record di 245, con l’aggiunta di ben 35 borghi più due onorari: Erice e Borgo S. Antonio. Crescono di anno in anno, ma devono superare l’esame accurato degli standard per l’iscrizione al Club dei Borghi più belli d’Italia. Per farlo questi gioielli si adeguano, infatti, ai parametri di qualità architettonica e paesaggistica richiesti dalla Fédération des Plus Beaux Villages de la Terre di cui l’Associazione italiana è socio fondatore. Gli altri Paesi con una rete di borghi certificati sono Francia, Belgio, Spagna, Romania, Germania, Grecia, Giappone, Canada (a breve si uniranno Portogallo, Malta e Polonia). La Guida nasce dalla collaborazione di SER con il Club dei Borghi più Belli d’Italia, nato nel 2001 su impulso della Consulta del Turismo dell’ANCI (Associazione nazionale dei Comuni italiani). La Guida, ogni anno più ricca, valorizza il grande patrimonio di storia, arte, cultura, ambiente e tradizioni presente nei piccoli centri italiani spesso emarginati dai grandi flussi turistici. Nel 2014 la regione più rappresentata è l’Umbria (22 borghi), seguita da Marche e Abruzzo (20 ciascuna), Liguria (19), Lombardia (18), Toscana (17), Lazio e Sicilia (12), Emilia Romagna e Piemonte (11), Puglia (10) e via via tutte le altre. La storia di ogni borgo, le cose da vedere, i piaceri e i sapori, gli eventi, i musei, un ricco apparato fotografico, guidano il lettore attraverso l’insospettabile ricchezza della provincia italiana, dove la bellezza sedimentata nella storia aspetta solo di svelarsi al visitatore curioso.
Il portale dei Borghi più belli di ItaliaDall’incontro fra due realtà editoriali creative e dinamiche: Società Editrice Romana e 3SComunicazione nasce l’idea di restyling e sviluppo del sito dei “Borghi più belli d’Italia”, all’interno di un progetto più ampio di rilancio del turismo in chiave “digital”, basato sulle tendenze e sulle tecnologie oggi più attuali nel campo del web e della multimedialità. Contenuti nuovi e più accessibili, maggiore interattività e una ricca galleria di immagini che valorizzano i territori. Rinnovato nella grafica e nello stile, il nuovo portale è stato realizzato dalla società di comunicazione digitale iVision Group di Udine(*) e si ispira ad alcuni fondamentali topics del destination management turistico: relazione più diretta e interattiva con il pubblico, informazioni facilmente estraibili, contenuti più emozionali, integrazione con i social e con il mobile (grazie a un design responsive che consente l’adattamento automatico a tablet e smartphone), e una maggiore attenzione a quello che il “turista cerca e si aspetta”. Tra le novità, ad esempio, c’è la “mappa interattiva” che permette di navigare il territorio nazionale attraverso chiavi di ricerca che filtrano le località sulla base di una specifica combinazione di preferenze.
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Enit, con Pasqua e Expo crescono gli arrivi da oltreoceano

L'onda lunga delle vacanze pasquali farà da traino ad una serie di appuntamenti in Italia per i quali si prevede una crescita sostenuta degli arrivi internazionali dai mercati d'oltreoceano, come India, Corea, Emirati Arabi, Cina, Usa e Canada, grazie anche al potenziamento dei voli intercontinentali e dei collegamenti ferroviari ad alta velocità. E' quanto emerge da un'indagine dell'Enit, realizzata in vista delle festività pasquali, su 154 tour operator stranieri presenti in 25 mercati internazionali.
In Europa rispondono bene il mercato inglese, francese e spagnolo, olandese, polacco, ungherese. Trend in salita anche per gli arrivi da Paesi lontani come Giappone, Australia e Argentina. Crescita più contenuta - secondo l'Enit - per l'incoming dai Paesi di area tedesca come Germania, Austria, Svizzera e Belgio, dai mercati nordici e dal Portogallo. I flussi turistici dalla Russia hanno subìto una consistente frenata e le previsioni per l'anno in corso sembrano essere le peggiori dell'ultimo ventennio. Anche la situazione economica del Brasile penalizza il turismo in entrata. Il 'sentiment' degli operatori intervistati dall'Enit è in linea di massima positivo anche in vista di Expo 2015 anche se ulteriori azioni di comunicazione, in particolare verso i potenziali turisti, potranno influire sull'aumento di visite per l'evento.
Le città d'arte rimangono il prodotto più venduto dai tour operator esteri, sia europei sia oltreoceano, nei pacchetti che hanno come destinazione l'Italia. Molto gettonati i laghi del Nord, le località del Sud e delle Isole (buone prospettive per Sicilia, Campania e Puglia). Trend in salita per il turismo religioso che coinvolge anche località di provincia, fuori dai consueti percorsi turistici, che conquistano sempre più punti nella graduatoria dei luoghi più visitati dagli stranieri. "Siamo di fronte ad un anno di svolta - commenta il commissario straordinario dell'Enit, Cristiano Radaelli - per Expo, per la grande serie di importanti eventi programmati e per la favorevole situazione dei cambi rispetto all'euro. È una grande opportunità e sono certo che il turismo potrà contribuire ancora più che in passato alla crescita economica del Paese".
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VIVICITTA’ 2015. Dieci giorni separano Reggio Emilia dalla grande corsa per tutti


Reggio Emilia – Il centro storico di Reggio si prepara alla pacifica invasione dei partecipanti all’edizione 2015 di Vivicittà, che avverrà domenica 12 aprile. A dieci giorni dalla grande manifestazione Uisp, il numero di adesioni è già arrivato a 2.500 con una sentita partecipazione da parte delle scuole.
Tutte le novità verranno presentate in conferenza stampa giovedì 2 aprile alle 11.00 nella sede del Banco S. Geminiano e S.Prospero – Gruppo Banco Popolare.

Gli organizzatori preannunciano che l’obiettivo è quello di continuare a crescere allargando sempre di più le fila della manifestazione, che la Uisp portò a Reggio Emilia nel 1985 consegnando la città a pedoni e ciclisti.

Alta l’asticella della sostenibilità ambientale, che rimane uno dei punti cardine di tutte le manifestazioni Uisp grazie all’adozione delle linee guida stilate dalla Uisp Emilia-Romagna e presentate in occasione di un convegno sugli eventi sostenibili in programma mercoledì 8 aprile allo Spazio Gerra.

La manifestazione è attesa in città domenica 12 aprile con la corsa per tutti in partenza da Piazza Martiri del 7 Luglio. Sabato 11 aprile giochi, laboratori e un'insolita caccia al tesoro nelle vie e tra i negozi del centro a cui tutti sono invitati a partecipare.
Per iscriversi è sufficiente inviare una mail a info@maratonadireggioemilia.it.

Circo Medrano a Reggio Emilia

I mezzi del circo Medrano sono approdati a Reggio Emilia. Il debutto avverrà giovedì 12 marzo.
Il circo Medrano sarà presente a Reggio Emilia per 12 giorni, precisamente fino al 23 marzo, dove lochapiteau sarà installato in via Del Chionso (vicino Seta Trasporti).
La storia dei Casartelli è quella di una grande dinastia di artisti le cui radici affondano al 1873. Piero Casartelli sposa Albina Fedrigon, una ragazza appartenente al mondo del circo. Dal loro matrimonio nasce Umberto Casartelli che sposatosi con Rosina Gerardi (1898 - 1974) di solida famiglia circense – darà il via alla grande famiglia circense cui ancora oggi sono affidate le glorie del Medrano. Dopo la prematura scomparsa di Umberto, a mamma Rosina toccherà l’arduo compito di proseguire l’attività circense coi quattro figli Jonne (1919 – 1999), Liliana (1921 – 2004), Leonida (1924 – 1978) e Lucina (1931 – 2003). Con il coraggio e la determinazione delle vere donne del circo, mamma Rosina darà vita all’Arena Rosa con i materiali recuperati: alcune tavole prestate da muratori, due antenne piantate a terra per il trapezio e gli anelli, e una scorta di cassette da pasta e sapone utilizzate quali sedie e panche. Nel 1939 Rosina acquista dalla famiglia Togni il primo chapiteau, (termine francese che significa tendone) sotto al quale nasce il circo “Arena Rosa”. I figli crescono e gli sforzi della donna sono ricompensati dai primi guadagni: il circo si dota di strutture nuove e dei primi animali: cavalli ben dressati. Sotto questi auspici la famiglia Casartelli compie un altro passo decisivo nasce il “Circo Aurora”.
 Man mano che i figli di Rosina crescono la gestione del circo passa nelle mani di Leonida Casartelli che per il carisma e la capacità di condurre l’impresa di famiglia sarà da tutti riconosciuto come il “Grande Capo”. Nel 1943 Leonida sposa Wally Togni e dalla loro unione nascono sei figli: Ghisi (1944), Joset (1947 – 1997), Heros (1949), Elio (1952), Davio (1956) e Liviana (1960).


Il 25 Aprile 1945 a Melegnano (MI) avviene il passaggio dei poteri da Rosina a Leonida. In varie occasioni Leonida dimostra di possedere buon fiuto nella scelta delle “Piazze”, buonissimo intuito per la formazione dei programmi, e infine, di avere una personalità già formata, mettendo a frutto una forza di volontà e un’ intraprendenza di spiccata discendenza materna. In motocicletta “ il nuovo direttore” va alla ricerca delle “piazze”, ma ogni sera ( e anche nei pomeriggi ) Leonida è pronto ad entrare per le sue varie prestazioni.
Nel 1949 il circo Aurora appartiene alla seconda categoria. Durante l’anno viene acquistato il primo elefante e poco dopo un gruppo di leoni. Nel 1951 Leonida, nelle vesti di Tarzan, entra per la prima volta in gabbia e debutta con un numero di leoni e tigri che rimarrà nei ricordi di tutti.
Nel 1958 Leonida Casartelli porta il proprio complesso fuori dai confini nazionali per una tournée in Spagna che durerà due anni, prima come Circo Aurora e successivamente con l’insegna “Circo Nazionale Spagnolo Coliseum”. In questi anni il circo della famiglia Casartelli si lancia alla scoperta di nuovi territori presso cui esportare il modello circense italiano: Spagna, dunque, ma anche Turchia, Bulgaria, Israele, alternando stagioni all’estero a permanenze in Italia con varie insegne: Circo Ker Kroll, Circo di Barcellona, Circo Heros.
Il 1972 è l’anno della svolta: a Varese i Casartelli debuttano con il “ CIRCO MEDRANO” un grande circo accompagnato da uno sterminato zoo arricchito da un mastodontico gorilla (unico in Italia), numerosi elefanti, cavalli, zebre, cammelli, un orango e un rinoceronte bianco, un prezioso esemplare che solo il Medrano può offrire al pubblico e due splendide giraffe.
Da allora il Medrano è rinomato per la ricchezza dei suoi spettacoli e la cura dei suoi numeri con animali applauditi numerose volte al Festival del Circo di Montecarlo e vincitori di prestigiosi premi. Davio Casartelli in questi anni crea fantastici numeri di elefanti, tra cui un esercizio unico che vede la tigre cavalcare l’elefante in libertà e senza gabbia e il numero in cui gli elefanti azionano le bascule.
I CASARTELLI: la pi
ù grande famiglia di circo.
La famiglia Casartelli è stata recentemente definita nel Principato di Monaco “La più grande famiglia di circo di alto livello in attività”. Effettivamente si tratta di un nucleo numeroso la cui forza e determinazione è all’origine dei grandi successi internazionali. Dei figli di Leonida Casartelli (1924-1978) e Wally Togni (1921) abbiamo già ricordato che sono nati sei figli: Ghisi sposata con il giocoliere Alberto Sforzi dalla cui unione sono nate Denise (1970) e Ilenia (1973). Josette sposata con un altro giocoliere Luciano Bello e dalla cui unione sono nati Ronni (1973) e Steve ( 1977 ), acrobati icariani scritturati al Cinque du Soleil. Elio sposato con Rosy Duran ha tre figli: Braian (1977), sposato con
Kinereth Huesca; Ingrid (1979) sposata con Miguel Lima e Leslie (1982) sposata con Ferdinando Mendola. Davio che sposa l’acrobata Wally Huesca ed ha una figlia : Alexis (1984). Liviana sposata con il trapezista Kindy Hones (1954) genitori di Sendi (1982) e Stephanie (1987). Per ultimo si sposa Heros con Viviana Riva e dalla loro unione nascono Sharon (1991) e Jordy (1992). E intanto sta crescendo la settima generazione …

Il Grand Hotel Adriatico riapre le porte al Teatro


Il progetto della famiglia Caridi di avvicinare i fiorentini alle loro strutture continua, dopo l’ormai consueta mostra di presepi di Claudio Ladurini ed i festeggiamenti per i 50 anni dell’Hotel Rivoli, è il Grand Hotel Adriatico a riaprire le sue porte grazie alla ormai consolidata collaborazione con Nexus Studio: un centro studi polivalente che organizza e accoglie attività didattiche, stage e spettacoli da 12 anni sul territorio fiorentino.
L'11 Marzo il 12 Marzo e il 13 Marzo 2015 alle ore 21:00 il Grand Hotel Adriatico ospiterà lo spettacolo teatrale intitolato “Reading Novecento” tratto da “Novecento” di Alessandro Baricco,sotto l’attenta regia e con la partecipazione di Ciro Masella.
Dopo il grande successo riscosso lo scorso anno con la messa in scena di “Piccoli Crimini Coniugali”, “Appartamento al Grand Hotel Adriatico” e “Beatles’ Drama” (quest’ultima una rappresentazione teatral-musicale che ha coinvolto e scatenato i presenti), torna un gradito appuntamento: quello con il teatro ospitato nel nostro albergo – dichiara la proprietaria Chiara Caridi – lo spettacolo infatti è uno dei primi appuntamento per il 2015 e si svolgerà come di consueto all’ interno di uno delle sale del Grand Hotel Adriatico, dando così al pubblico la possibilità di dividere lo stesso spazio con gli attori, in modo da non essere semplice spettatore ma di vivere da vicino la rappresentazione.
Ciro Masella offre al pubblico l’occasione di immergersi nelle pagine di Baricco e di lasciarsi cullare dalle parole: aprire il cuore e la mente per farsi trasportare in mezzo al mare, a volte calmo a volte in tempesta, a bordo di una nave grande e maestosa, in compagnia di un equipaggio bizzarro ad ascoltare jazz e “la musica che prima non c’era e dopo non ci sarà mai più”, suonata dal più grande pianista che abbia mai solcato l’oceano, quello che ebbe il coraggio di suonare la propria vita come sulla tastiera di un pianoforte, in un’unica nota infinita, ma che da quella nave non scese… mai.
Una delle più belle storie mai raccontate: intesa, commovente, divertente e assurda… come la vita.
INFO E PRENOTAZIONI:
NEXUS STUDIO 347.5768067 o info@nexustudio.it
Prenotazione Obbligatoria
11, 12, e 13 Marzo 2015 ore 21:00
Biglietto unico: 12 €
Il GRAND HOTEL ADRIATICO accoglierà il pubblico a partire dalle ore 19.30 e, per chi lo desidera, sarà disponibile, oltre al consueto servizio bar, un servizio di “aperi-cena” al costo di 10 € (solo su prenotazione).
Per riferimenti e maggiori dettagli: Daniele Benelli
Responsabile Grand Hotel Adriatico
Tel. +39 055 27931
dbenelli@hoteladriatico.it

Musei Capitolini L'angoscia va in mostra: il PERTURBANTE dei Romani

È un dato di fatto che cogliere lo stato d’animo di un romano del secondo e terzo secolo dopo Cristo osservando un ritratto in scultura dell’epoca è cosa ardua. Per ovvie ragioni: non conosciamo il personaggio, ma soprattutto diciotto secoli di storia ci separano dal suo mondo e dal suo modo di vivere. Si aggiunga il fatto che un ritratto dell’epoca partecipava della scena pubblica sulla quale si proiettava e come tale ne acquisiva il linguaggio e il senso retorico. La storia è sempre una narrazione di qualcosa che in gran parte ci sfugge quanto più è lontano nel tempo ciò di cui si parla; bisogna immaginare, pensare, ipotizzare ma la certezza che si sia giunti a una verità (a volte diversa da quella affermata dai documenti o dai testi coevi), non è mai assoluta. Figurarsi se si entra in questioni “psicologiche” come quella cui si lega il tema della straordinaria mostra allestita ai Musei Capitolini sull’Età dell’angoscia,  quella tra il 180 e il 305 d.C., ovvero dall’avvento 
di Commodo alla morte di Diocleziano (che lascerà il trono a Costantino, imperatore che segna lo spartiacque oltre il quale il cristianesimo diventerà religione di Stato). 

L’angoscia si lega, nell’interpretazione dell’epoca in questione, al concetto di decadenza. Forse il “sintomo” più rilevante, per capire il rivolgimento totale che caratterizza quei secoli, è il contrappunto fra la perdita di centralità di Roma dopo la morte di Commodo (che fu, in un certo senso, il conato dell’epoca precedente segnata dalla grandezza imperiale voluta da Marco Aurelio) e il moltiplicarsi delle sedi imperiali e di nuove imponenti architetture il cui aspetto, come sottolinea Claudio Parisi Presicce (che con Eugenio La Rocca e Annalisa Lo Monaco cura la rassegna), spesso è quello di castelli fortificati. Parisi nota anche, di rimando nella bibliografia, che urge un lavoro storiografico sul fenomeno delle “città capitali” degli imperatori. 

L’impressione è che questa perdita della centralità spinga gli imperatori a disseminare sui territori dominati una architettura di presidio del potere, un’architettura fortemente militarizzata nella concezione, pronta a rendere la forza di un imperium che in realtà si sfalda per ragioni economiche, per l’influenza delle religioni che vengono da Oriente e per una profonda crisi dei valori morali. L’arte ne capta (o ne anticipa) i sentori. Abbiamo assistito a qualcosa del genere anche nel Novecento: il monumentalismo dei regimi enfatizzava le forme per tenere sotto controllo le spinte disgregative di un corpo sociale che combatteva con l’incertezza del futuro. 

Sia Parisi che La Rocca evocano il libro di Auden del 1947: L’età dell’ansia, che diventa quasi il testimone retrospettivo di un’analogia tra il tardo impero romano alla crisi antropologica del “secolo breve”. Certo suona allusivo il breve excursus sull’angoscia che Parisi compie chiamando in causa oltre ad Auden, Kierkegaard e Heidegger. L’angoscia non è la paura, che di solito si lega a una minaccia precisa, è un sentimento suscitato da qualcosa che resta incircoscrivibile, come un’aura negativa, o, avrebbe detto Freud, il “perturbante”. Sentire la terra venir meno da sotto i piedi ma non poter attribuire il fenomeno a un centro tellurico: il crollo è una possibilità, un sentimento diffuso d’instabilità, che ci fa “sentire” la fragilità del mondo anche se i muri ancora non tremano. Per quanto riguarda il tardoantico è trascorso oltre un secolo da quando Franz Cumont mise in luce l’influenza delle religioni orientali (considerava tale anche il cristianesimo) sul paganesimo romano; molte cose che scrisse sono state superate da un’articolazione più specifica sul piano degli studi socio-storici (vedi le ricerche di Peter Brown) e storico-religiosi, ma l’analisi di una nuova e diversa “emotività” esistenziale rimane calzante: col cristianesimo e i culti orientali, diceva Cumont, la religione romana «cessa di essere legata a uno Stato per divenire universale; essa non è più concepita come un dovere pubblico, ma come un’obbligazione personale; essa non subordina più l’individuo alla città, ma pretende innanzitutto di assicurare la sua salvezza particolare in questo mondo e soprattutto nell’altro». 

  Lo sforzo che viene compiuto dai curatori della mostra è quello di articolare, su materiali in gran parte presenti nei depositi dei Musei Capitolini, ma con prestiti internazionali importanti, una prospettiva più ampia che non leghi quella svolta soltanto all’avvento del cristianesimo: per quanto, l’idea di Brown – ricordata da La Rocca ed espressa nel lontano 1978 – che nel III secolo d.C. non vi fu una rivoluzione indotta dalla nuova religione che sia paragonabile come impatto alla spinta indotta dal movimento dionisiaco che mutò la percezione del sacro nel mondo greco, resta valida retrospettivamente alla luce del processo che portò il cristianesimo a diventare la religione dell’impero fino ad assimilare certe manifestazioni del paganesimo rovesciandone il valore semantico: basti pensare all’iconografia del Buon Pastore, di cui in mostra è esposta la scultura del III secolo rinvenuta in uno scavo a Porta San Paolo verso la fine dell’Ottocento. Si potrebbe dire una dirompente continuità tra cristianesimo e cultura latina che ha fondato l’Occidente. 

La trama su cui questa mostra si distende ha nel ritratto il filo conduttore con decine di teste e busti dell’epoca; a questo si legano affondi sulla presenza militare, sulla strutturazione urbana di Roma, sulle dimore private, sulla religione e, nelle due sezioni conclusive, il rapporto con la morte e gli usi funerari. Proprio nel Sarcofago di bambino della Fondazione Santarelli, databile al 220 d.C., la figura della mano che sorregge il volto affranto dei congiunti riprende una forma tipica dell’angoscia: la malinconia indotta dalla perdita, a cui corrisponde una compostezza nel portare il “dolore di vivere” che pare mettere a frutto la pedagogia della morte cristiana (nei Padri della Chiesa è ricorrente la critica alle manifestazioni di abbandono eccessivo al dolore, come nelle prefiche greche, perché era il sintomo di un attaccamento alla terra e della mancanza di fede nella promessa del riscatto di Cristo). I ritratti che accolgono il visitatore fin dalla prima sala del Museo ci attirano forse più per gli elementi accessori che per una evidente testimonianza di angoscia come oggi spesso viene intesa: è invece un’angoscia severa, introiettata (non in senso psichico, bensì in una forma virile, una padronanza di sé che è un modo di resistere, se vogliamo, allo sfaldamento del proprio mondo): il ritratto di 
Commodo come Ercole con i torsi di Tritoni sembra già una manifestazione ironica della fiducia nel proprio passato rispetto a un futuro che si annuncia declinante. 

  Bernard Berenson, scrivendo della forma “non eloquente” di Piero della Francesca, scherniva il gusto di chi ha bisogno delle espressioni forti, drammatiche, lacerate, per esprimere un sentimento. Arrivava a dire che nelle figure di Piero «l’energia vitale si manifesta nell’azione di polsi e caviglie», e aggiungeva: «Se pensano o sentono qualcosa in particolare, i loro lineamenti non lo tradiscono. Essi sono rappresentati in quanto esistono, in sé e per sé, con tanto poco da dire, oltre a ciò che la loro forma e sostanza già rivela, quanto cime di monti all’orizzonte». Così, questa mostra ci invita a leggere l’angoscia in un impercettibile movimento delle sopracciglia, in uno sguardo obliquo, nell’accuratezza con cui è resa un’acconciatura dei capelli, nello scavo delle rughe su un viso. Mai in un abbandono esplicito al demone della disperazione. È così che ci si mostra all’altezza del proprio passato. Quando tutto crolla saper guardare in faccia il pericolo come se si andasse incontro alla vittoria. 
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La Cappella di Teodolinda torna a splendere

Riapre al pubblico, dopo un restauro durato sei anni, la cappella di Teodolinda del Duomo di Monza, capolavoro riconosciuto dell'arte gotica internazionale ad opera degli Zavattari. Nell'altare della Cappella è inoltre custodita la Corona Ferrea, che secondo la tradizione è stata forgiata con il ferro di uno dei chiodi utilizzati nella crocifissione di Gesù. 

Il progetto, costato tre milioni di euro e varato nel 2008 da Regione Lombardia, Fondazione Cariplo, World Monumento Found, Marignoli Foundation e Fondazione Gaiani (responsabile della gestione del patrimonio artistico di Duomo e Museo del Duomo di Monza), ha visto al lavoro decine di restauratori guidati dallo studio milanese di Anna Luchini, capaci di ridare vita e luce agli affreschi. 

Oggi si è tenuta la cerimonia di inaugurazione per la riapertura al pubblico. Si tratta di "un gioiello straordinario - ha sottolineato l'assessore regionale lombardo Cristina Cappellini - torna a essere patrimonio dei cittadini monzesi". "La Cappella di Teodolinda - ha aggiunto - avrebbe tutte le carte in regola per entrare a far parte del sito seriale già patrimonio Unesco che interessa le realtà longobarde".

I restauri sono durati 6 anni, un anno in più di quanto impiegato dagli artisti che realizzarono gli splendidi affreschi della cappella, collocata nel Duomo di Monza. Questi furono realizzati tra il 1441 e il 1446 da Franceschino Zavattari e i figli Gregorio, Giovanni e Ambrogio. I quattro dipinsero a secco utilizzando tempera a olio e uovo, ma anche pastiglie in rilievo di gesso e colla. Il tempo però aveva danneggiato gravemente le pitture, anche in seguito al degrado del materiale usato per dipingere.

L'opera è molto complessa in quanto consta di ben 45 scene, che raccontano di Teodolinda e di altri personaggi del mondo longobardo. L'opera era stata pensata per legittimare la presa del potere da parte di Francesco Sforza grazie al matrimonio con Beatrice Maria Visconti. 
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