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Dalla via Emilia alle strade del mondo A Reggio Emilia XI edizione di 'Fotografia Europea'

Dalla via Emilia al fiume, al mare, alle strade del mondo: è questo il tema dell'XI edizione di 'Fotografia Europea', fino al 10 luglio a Reggio Emilia. Un ricco programma di mostre, conferenze, spettacoli, e molte altre iniziative, animato dagli scatti degli autori più famosi, che il capoluogo emiliano dedica con questo festival alla forma d'arte che più di altre comunica e interpreta la complessità della società contemporanea.
Promossa dal comune e curata da un comitato scientifico composto da Diane Dufour, Elio Grazioli e Walter Guadagnini, la manifestazione si articolerà in numerose esposizioni, allestite nelle sedi più prestigiose della città, ognuna delle quali offrirà una particolare riflessione su 'La via Emilia. Strade, viaggi, confini', ispirata a sua volta a 'Esplorazioni sulla via Emilia', l'opera collettiva sul paesaggio, curata da Luigi Ghirri con un gruppo di fotografi e scrittori, per raccontare nel 1986 il 'volto di un paese reale'. Non a caso, proprio ai Chiostri di San Pietro, uno dei fulcri del festival, si svolgerà la mostra principale ispirata appunto a quell'evento di 30 anni fa.
Curata da Laura Gasparini, la rassegna presenterà infatti una selezione di opere di Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Giovanni Chiaramonte, Vittore Fossati, Luigi Ghirri, Guido Guidi, Mimmo Jodice, Klaus Kinold, Claude Nori, Cuchi White, Manfred Willman e il video di Nino Criscenti, tutte esposte in quella storica occasione.

La rassegna però prevede anche una serie di 'nuove esplorazioni', commissionate da Fotografia Europea 2016 ad artisti quali Alain Bublex, Stefano Graziani, Antonio Rovaldi, Sebastian Stumpf, Davide Tranchina, Paolo Ventura, Lorenzo Vitturi, che, con i loro scatti, hanno dato vita a un viaggio sorprendente tra realtà e immaginazione, tra documentazione e invenzione, che costituirà una delle novità più attese dal pubblico degli appassionati. Il tema dalla via Emilia si allarga quindi verso le strade del mondo. Sempre ai Chiostri di San Pietro, si terrà la mostra 'Exile', in cui verranno allestite le opere di 24 fotografi dell'agenzia Magnum. Sono immagini di reportage, scattate dai grandi interpreti di questo genere, da Werner Bischof a Robert Capa, da Stuart Franklin a Paolo Pellegrin, da Abbas a Chris Steele-Perkins, da Philip Jones Griffiths a Leonard Freed, in cui il tema dell'esilio è visto come una strada a senso unico, senza ritorno, toccando le pagine drammatiche dell'attualità. A Palazzo Magnani, invece, si svolgerà la prima grande rassegna italiana incentrata sull'opera di Walker Evans (1903-1975), uno dei grandi autori del '900, che lungo le strade degli Stati Uniti ha scattato alcune delle sue immagini più famose. Il fotografo americano sarà celebrato attraverso due distinte esposizioni. La prima, dal titolo 'Walker Evans.
Anonymous', presenterà il lavoro sviluppato dal 1929 su numerose riviste americane, per le quali era lui stesso, in molte occasioni, a scegliere il tema, scrivere i testi, selezionare le fotografie e curare l'impaginazione. Mentre i mass media indugiavano sul culto della celebrità e del consumismo, Evans fotografava anonimi cittadini e la loro vita quotidiana, creando immagini dirette e frontali delle condizioni del paese. 'Walker Evans. Italia', invece, ribadirà in 50 celebri scatti l'influenza che il maestro americano esercitò sul linguaggio poetico di molti dei fotografi protagonisti di 'Esplorazioni sulla via Emilia'.
E se allo Spazio Gerra si terrà la mostra 'Disco Emilia' per rivivere il fenomeno che vide tra i primi anni '70 e la fine degli '80 la nascita nella regione di moltissime sale da ballo (con scatti di Gabriele Basilico, Andrea Amadasi, Hyena e Arianna Lerussi), a Palazzo da Mosto si potrà visitare la collettiva 'Dalla via Emilia al mondo' con le opere di Ziad Antar, Paola De Pietri, Gulnara Kasmalieva & Muratbek Djumaliev, Kent Klich, Bettina Lockemann, Maanantai Collective, Michael Najjar, Paolo Pellegrin, Katja Stuke & Oliver Sieber.
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Simpson e cannabis, i viaggi studio per le lauree più bizzarre

Scegliere cosa studiare non è mai facile. Individuare l'occupazione futura a cui dedicare il resto della propria vita è una decisione che viene presa in età molto precoce. La buona notizia è che i corsi universitari esistenti sono molto numerosi e vi è un’ampia possibilità di scelta. Uniplaces ha esaminato i corsi di laurea di tutto il mondo per aiutare gli studenti a scegliere il proprio percorso. Il risultato? Esistono più di 5mila corsi di laurea solo in Italia e in giro per il mondo è possibile trovare un numero infinito di indirizzi che fanno della specificità un punto di forza e alcuni di questi comprendono materie davvero particolari.
Di seguito un elenco di quelle più strane per cui organizzare un indimenticabile viaggio studio:
1. La filosofia dei Simpsons
Un vero fenomeno televisivo del nostro tempo, studiato in maniera piuttosto seria, sono I Simpson. Il modulo è insegnato presso l'Università della California, con sede a Berkley, e si fonda sul concetto che fra le puntate dei personaggi gialli più famosi del mondo, si nascondono teorie profonde, non solo della nostra cultura ma anche di grandi filosofi come Kant, Rousseau e Platone. Una prospettiva filosofica è più facile da capire se a spiegarla è la simpatica Lisa Simpson. Inoltre, alla fine del corso, viene data agli studenti l’opportunità di scrivere una puntata originale per la serie.
2. Hackeraggio Etico
Violare un sistema informatico non presume sempre cattive intenzioni. Lo insegna il nuovo corso dell’Università di Abertay, dedicato alla formazione di hacker etici che rilevano e correggono falle di sicurezza prima che vengano trovate dagli hacker cattivi.
3. Coltivazione della Cannabis
Il nome di questa laurea la dice lunga. L’Università di Oaksterdam in California offre corsi sulla coltivazione della cannabis, prendendo ispirazione dal celebre Cannabis College di Amsterdam. Qui gli studenti imparano tutto ciò che riguarda la cultura della cannabis, ovvero le tecniche agricole migliori, l'orticoltura, la medicina, la storia e la politica, relativi alla pianta per uso medicinale. Studiare la scienza dietro le piante è sempre affascinante, c’è solo da chiedersi cosa succede durante i laboratori pratici.

4. Cultura Pop
L'Università di Baltimora ha tra i suoi piani di studio più prestigiosi quello in Pop Culture. Uno degli studi più divertenti e curiosi del nostro tempo, dove il mondo Marvel, Game of Thrones, Star Trek o tutto ciò che ruota attorno agli zombie diventa la chiavi per capire la nostra cultura. Secondo Blumber T. Arnold, docente presso l'università, "La funzione degli zombie è la rappresentazione di tutte le cose che accadono negli Stati Uniti, dalla minaccia comunista durante la guerra fredda ai nostri timori circa il bioterrorismo. È relativamente facile associare il concetto zombie con quanto avviene nella cultura odierna. Un altro esempio è il mondo Marvel e il successo delle loro rappresentazioni di eroi e di cattivi. Questi personaggi sono un chiaro schema di come avviene la distinzione tra bene e male al giorno d’oggi”.
5. Gestione e tecnologia dell’industria del Bowling
I 10 birilli non restano al loro posto dopo uno strike, quindi serve certamente qualcuno pronto a sistemarli o che abbia progettato un dispositivo in grado di farlo. Quel qualcuno ha bisogno di conoscere tutti i meccanismi e l'Università di Vincennes, in Indiana, è pronta a insegnarli.
6. Professione Tata
Anche se si tratta solo di una certificazione, il programma di 12 mesi di preparazione per babysitter della Sullivan University è piuttosto singolare. Sviluppo dell’infanzia, nutrizione e massaggi cardiaci di emergenza sono solo alcuni dei corsi che devono superare le aspiranti che voglio diventare una super tata.
7. David Beckham
Gli studenti di Sociologia o di Scienze dello Sport della Staffordshire University, fra i moduli del piano di studi devono prepararne anche uno della durata di 12 settimane su David Beckham. Il corso include tutto ciò che riguarda la stella internazionale del calcio inglese, compresi i suoi cambi di look e la relazione con la moglie Victoria Adams.
8. Storia dei Vichinghi e Tradizioni Scandinave
Dal mese di Settembre 2016 all’University College di Londra, gli studenti potranno scegliere il corso di laurea sulla storia dei Vichinghi e della Scandinavia, trascorrendo tutto il terzo anno in una delle università scandinave.
9. Cornamusa
Per chi vuole conciliare università e musica la Carnegie Mellon University di Pittsburgh offre, presso la propria sezione di Arti Performative, la classe di Cornamusa. Fino a oggi solo una persona si è laureata.
10. Marionette
All’Università del Connecticut esiste un corso di laurea anche per gli appassionati di marionette e burattini, dove gli studenti imparano tutto su costumi, illuminotecnica e scenografie, passando per la storia dei personaggi più famosi, dai Muppets a Topo Gigio.
11. Harry Potter
Fra i suoi tanti moduli, il piano di studi del corso di Scienze dell’Educazione dell’Università di Durham ne ha uno incentrato su Harry Potter. Gli studenti analizzano come il maghetto che ha sconfitto tu-sai-chi si sia liberato di ogni sorta di pregiudizio e di bullismo, diventando modello d’insegnamento anche per gli insegnamenti babbani.
12. Scienza e tecnologia del Surf
Piuttosto ambito nelle facoltà che si trovano lungo la costa britannica, come Cornwall e Plymouth, è il corso di laurea perfetto per i surfer più accaniti. Ovviamente non viene insegnato come cavalcare le onde, ma la scienza che c’è dietro. Il rischio più grande è quello di apparire come qualcuno che passa tutto il giorno in spiaggia.
13. Scienze della Fermentazione
Forse non è esattamente quello che un genitore sogna per il proprio figlio, ma la verità è che le opportunità lavorative sono notevoli. Nel corso di laurea dell’Appalachian State University, nel North Carolina, gli studenti imparano l'arte di fermentare tutti i tipi di alimenti e bevande. Le conferenze accademiche sono dedicate principalmente alla produzione di birra e alcolici.
14. Scienze del Pollame
La leggenda vuole che il Colonnello Sanders, il fondatore della catena di fast food KFC, abbia iniziato il suo impero studiando Scienze del Pollame. La verità è che molte università degli Stati Uniti hanno una facoltà apposita, dove si impara tutto su polli, tacchini, quaglie e tutti gli altri uccelli, fra queste Georgia, Virginia e Missisipi University.
15. Scienze dei tappeti erbosi
La facoltà perfetta per gli appassionati di calcio che vogliono distinguersi dalla massa. Il corso dell’Università del Kentucky conta pochissimi iscritti, quindi le possibilità di diventare il più grande esperto di tappeti erbosi è davvero alta.
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Turismo: Dai, crediamoci. #ReggioEmilia è una città seducente

La statuta di Marco Emilio Lepido
Dai, crediamoci. Reggio è una città seducente. L’abitudine di stare e abitare qui, sul guardrail della pianura, fa apparire tutto consueto e domestico. La crisi ha appannato la vita che era aperta e frizzante come il Lambrusco. Le temibili infiltrazioni mafiose, le cronache giudiziarie e processuali hanno ora un maledetto sopravvento sulla sostanza di questa città.
Eppure in tre-quattro giorni va capitando ogni cosa buona, che non è poi tanto inarrivabile, o così rara: Reggio è cultura e fa cultura. Cioè quell’anticorpo del quale tanto si blatera, se ne lamenta colpevolmente l’assenza, se ne invoca l’indispensabilità. Eppure c’è. È attivo. Giovedì sera il “Valli” ha presentato il suo bilancio consuntivo e quello della nuova stagione, confermando che Reggio ha passione per il teatro, la danza, la musica con 210 eventi, 80mila spettatori paganti e 4.631 abbonamenti; un 2016-2017 denso di prospettive e progetti.
Questa è una città che si raddensa e rappresenta nei teatri, che altrove non sono così concentrati e attivi. Perché sostituiscono la piazza, sono luoghi civili: elevano. Venerdì, poi, è stata inaugurata l’undicesima edizione di Fotografia Europea.
 
LO STARE AL MONDO
Non preoccupatevi, non sto scodellando una facile sintesi del fine settimana reggiano più charmant dell’anno. Analizzo e scrivo che qui si concentra e scorre il sangue arterioso e si elettrizzano i neuroni più efficaci per lo stare al mondo della nostra città.
 
Mi piace ribadire lo stare al mondo. Modo di dire che nell'italiano corrente e nel dialetto più illuminato coincide con il tema del festival: la via Emilia, strade, viaggi, confini. Come non mai Fotografia Europea, oltre ad aprire e illuminare la città, “cala” nella genetica più arcaica, originaria, fondativa di Regium Lepidi. 
Ma anche nell’essere oggi al mondo di questa conurbazione fuoriuscita dall’esagono medievale che, appesa all’itinerario della strada romana, si tende nel mezzo della regione e - come canta il titolo - è insieme strada, dunque movimento (anche ignoto) e confine.
 
Per i fotografi dei due rami della manifestazione, on e off, che si esprimono nelle 73 mostre disseminate in centro e in periferia, il tema è generoso, eleva la città, trasforma la nostra provincia lunga in una componente del breve mondo contemporaneo. Ma il gusto della scoperta è altro. Meno complesso.
 
ERBAZZONE E CONOSCENZA
Il gusto è incarnato dal desiderio dei reggiani e degli ospiti, tanti, tantissimi, di popolare la città. Animare con fame di erbazzone e conoscenza, macchina fotografica e festa, una Reggio altrimenti ritenuta sazia (abbastanza), disperata (non troppo), condizionata o intrisa dagli insediamenti mafiosi (purtroppo), ma d’alti valori civili (ancora).
 
Una Reggio che, chissà per quale credenza secolare, troppi suoi abitanti ritengono culturalmente blanda, subalterna, secondaria. Balle. 
 
La produzione e l'appetito intellettuale qui sono immensi e corrispondono a luoghi architettonici o urbani sorprendenti, come i chiostri benedettini di San Pietro dove è stata ospitata la presentazione di Fotografia Europea, le vie, le cupole, le atmosfere, il tracciato della via Emilia che ancora infilza la città o è tutore obliquo di Reggio.
 
SPAESAMENTO
Sentite, leggete, come le ispirazioni collettive fanno crescere la concreta certezza che questo luogo coltiva cultura? Non soltanto locale.
 
Venerdì pomeriggio il chiostro grande tardocinquecentesco di San Pietro, quello con le statue, il bugnato alla romana, con la platea sprofondata in quelle che erano le cantine conventuali, ha aiutato il gioco liberante che si chiama spaesamento. Rinforzato dal senso della fotografia, la quale mostra il mondo con l’occhio degli altri. È un gioco così forte che spacca quello che all’inizio di questa mia pensata domenicale ho definito guardrail della pianura, che muto in cultura, cioè la via Emilia, il posto diagonale nel quale la valpadana s’increspa, si disassa, scivola inclinata da Rimini a Piacenza e viceversa, avvista il Po da una parte e la cordigliera appenninica dall’altra.
 
È un luogo favorevole e benigno, incerto tra il west e la pampa padana, scandagliato da Pier Vittorio Tondelli, Luciano Ligabue, Luigi Ghirri, Edmondo Berselli. Ce n’è abbastanza per credere fermamente che lo spirito emiliano esiste. Queste mie convinzioni corrispondono alla carta dell’Italia capovolta che fa da logo all’edizione 2016 di Fotografia Europea. Capovolta, con Reggio, il Po, la cresta appenninica in primo piano, in una visione sognante e scorciata che però non insinua disordine. Ma suggerisce orientamenti nuovi. 
Al di là della medicine selettive anticrisi, antidepressive sociali, antimafia, esiste davvero una profilassi preventiva
potente. La cultura, appunto. Qui si fa cultura. Reggio è una città bella.
 
s.scansani@gazzettadireggio.it

fonte: Gazzetta di Reggio

Isole Svalbard in nave: oltre l’80° parallelo Nord, dove l’estate dura un giorno. Lungo quattro mesi


Nella notte che non c’è, nella città silenziosa, sotto il sole bianco che non dovrebbe esserci, scorrono fiumi di birra sui tavoli all’aperto dello SvalBar. Fa freddo, ma non il freddo che ci si aspetterebbe qui a due passi dal Polo Nord, solo un’aria frizzante, da montagna, basta una buona giacca a vento e qualcosa in testa. L’umidità è quasi assente, si chiama “deserto artico”, meno di 400 millimetri all’anno di pioggia e neve. Il freddo secco si sopporta meglio. L’orologio segna le due, le tre, ma nessuno se ne va a casa. Giovani dalla barba bionda, qualche tratto asiatico. Uomini, donne di tante nazionalità che sembra di stare al palazzo dell’Onu. Si arriva qui per “qualcosa” che attrae. Il mondo ancestrale, la semplicità. La fuga da tutto. Meno complicato dei Caraibi. Australiani, inglesi, italiani, svizzeri. Sembrano felici e rilassati. Con i loro boccali di birra.
Succede così, da questa parti. Da Helsinki in su si vive seguendo i ritmi della natura. Se la tua giornata è di ventiquattro ore vai di corsa, se dura mesi ti adegui. Da novembre è buio totale, il sole si acquatta 6 gradi sotto la linea dell’orizzonte sino alla fine di gennaio. Non c’è neanche il barlume crepuscolare. Il sole piano piano riappare dopo l’inverno, qualche ora, poi sempre di più, fino ai mesi della luce perenne. E allora non te ne andresti mai a dormire. Dopo una notte così lunga hai una giornata infinita. Un giorno lungo mesi in cui si fa succedere tutto quello che si può. Feste, concerti, spettacoli. Si pubblica un giornale in lingue inglese, l’icepeople, per informare la gente. Basterebbe il passaparola in una capitale che ha la popolazione di un block di Manhattan. Giù a Helsinki, Oslo, Copenhagen ci si scatena, qualche volta si esagera. Ma questo è un altro Nord, è un Nord più delicato, intimo, da intellettuali potremmo dire. Qui tutto è silenzioso, quasi irreale. Ti guardi intorno, la città è questa. Un grande prato con file di casette di Lego, rosse, gialle, blu, squadrate, efficienti, senza un fronzolo. Appoggiate sul prato e appese al cielo. Qualcuno mette un palco di corna di renna sopra la porta d’ingresso. I maschi le perdono dopo la stagione degli amori. Basta raccoglierle. Un ornamento innocuo. Motoslitte giacciono abbandonate disordinatamente qua e là, per il momento inutili, indispensabili per i mesi con la neve. D’estate si usano le Land Rover. Un po’ di neve è rimasta, a macchie, non se ne va mai, passa da un inverno all’altro.
Una sola strada. Una sola auto che va avanti indietro, manco fossimo sulla main street di un paesotto della provincia americana. Non è neanche un pick-up, ma una vecchia Volkswagen azzurrina, come non se ne fanno più. Neanche nel colore. Niente sgommate.Tutto in silenzio. È una città dolce, questa. Quando arriva il buio dell’inverno si cena alle 5 del pomeriggio e si va a letto alle 6. Per dire. Una vita da orsi. «Andiamo in letargo anche noi», dicono da queste parti.
Longyearbyen, la città. Svalbard l’arcipelago abitato più a nord del mondo, di cui è la minuscola, irreale, capitale. SvalBar, il locale dove si beve birra. Piccola genialità nel nome. Ce n’è un altro di locale, il Kroa, pieno. Ma domani non è sabato e neanche domenica. «Chi non vive qui, chi vive il ritmo delle 24 ore, non può capire». Finisce che quando arriva l’inverno sei spossato da tante cose hai fatto. Non è che si stia solo a bere birra di notte, qui. È dal 1600 che popoli vari si affannano tra questi fiordi. Il primo europeo ad arrivare è stato Willem Barentsz, olandese, era il 1596. Diffuse la notizia di un posto pieno di balene, foche, trichechi. Arrivarono i cacciatori. Nel 1905 un americano di nome John Munro Longyear avviò l’estrazione del carbone di cui l’isola di Spitsbergen, che in olandese significa “monti acuminati”, sembrava zeppa. Cominciò a bucherellare come una talpa. Arrivarono i minatori. Non hanno ancora smesso. Sulle alture intorno alla città vedi costruzioni strane, impalcature, che sono gli ingressi delle miniere. Nello Svalbard Museum, che è una costruzione modernissima, mappe, disegni, fotografie spiegano ogni cosa. Le colline qui intorno sono tutte un buco e gallerie infinite. Longyear diede il nome alla città che sorse per i minatori, ma la“corsa al carbone” non fu clamorosa come quella all’oro nel Klondike. Però diede lavoro a un sacco di persone. Stagionali che arrivavano dalla Norvegia. Tre mesi e poi a casa. È un museo magnifico come sanno fare i nordici, con la ricostruzione di stazioni baleniere, degli accampamenti dei trapper, i cacciatori di pellicce che vivevano per mesi isolati in baracche di legno fra i ghiacci. E una collezione, unica al mondo, di mappe e di testimonianze delle escursioni di un secolo fa.
C’è una nave là fuori, attraccata in banchina. Una bella nave filante, costruita ad Amburgo nel 1956 e poi rifatta tante volte nel corso degli anni, rossa, come tutte le navi nordiche che devono farsi vedere nelle nebbie e nelle bufere, solida. Si chiama Nordstjernen, ha cabine piccole, da marinaio, un salone di legni lucidi e il sapore delle vecchie navi. Fa parte della flotta Hurtigruten, quella dei postali, solo 80 metri di lunghezza, solo 15 nodi di velocità, al massimo. È una nave leggendaria, un bel modo per andarsene in giro per l’Artico. Anzi, l’unico. Così si va in nave. Dai un’occhiata alla carta geografica e scopri d’essere dentro un intricato merletto di isole scavate dai fiordi. Il mare Artico si insinua dappertutto distribuendo salmoni e azzurro dentro le terre gelide. Questo di Longyearbyen è l’Adventfjorden, braccio laterale dell’Isfjorden; Spitsbergen la più grande di tutte le isole dell’arcipelago. Non chiamatela crociera, è solo un modo, anzi l’unico modo, per raggiungere luoghi altrimenti inaccessibili.
Fin qui si arriva in aereo. Prima tappa Oslo. Un paio di giorni per vedere appena un po’ della capitale norvegese, scoprire che sul bus dall’aeroporto c’è la connessione wi-fi, gratuita. Che la metropolitana si paga con la carta di credito (la infili nella stazione d’ingresso, fai lo stesso alla stazione di uscita e qualcuno calcola il dovuto). Che piazze, strade pedonali e giardini ti fanno meditare sulla possibilità di vivere qui. E poi si vola su alle Svalbard. Una notte di birre allo SvalBar e poi in navigazione tra i fiordi. Già il navigare è piacevole, ma gli approdi possono essere stupefacenti.  Per esempio Barentsburg, un villaggio russo degli anni ’40 mummificato insieme con i suoi abitanti e le statue di Lenin. È sulla stessa Spitsbergen, a una cinquantina di chilometri da Longyearbyen, ma irraggiungibile se non via mare. A piedi sarebbero due giorni di viaggio. In nave qualche ora e un salto nel tempo di più di mezzo secolo. È una città mineraria fondata dagli olandesi nel 1932 e ceduta alla compagnia sovietica Arktikugol. È una specie di enclave sovietica. Non della Russia di oggi, proprio di quella sovietica, con tutte le sue Repubbliche unite. Ci abitano quasi 500 persone, tutti minatori, tutti russi, dell’Urss intendo, ucraini, kazachi, bielorussi, con mogli e figli. Con quasi 500 abitanti è la seconda “città” delle Svalbard, visto che la capitale ne conta circa 2.100. È un’enclave culturale e architettonica straordinaria. Le case sono in rigoroso stile sovietico, la strada principale lastricata di cemento è rigorosamente percorsa da Uaz color ruggine e vecchie Lada, il busto di Lenin oversize c’è davvero. Grande come una locomotiva, sullo sfondo un palazzone razionalista stile Mosca anni ’60. Le case di legno appoggiate qua e là sembrano invece uscite dalla Russia di Gogol’. E perché non ci siano dubbi su come la pensano e su cosa rimpiangono gli abitanti di qui, un ragazzo esibisce una bandiera rossa. E se la mette vistosamente sulle spalle. Gesto spontaneo o programmato per il business turistico? Il turismo fa raggranellare qualche soldo ai minatori. Nel piccolo teatro si organizzano perfino ingenui spettacoli musicali che potrebbero essere un saggio di fine scuola nel dopoguerra in un villaggio uzbeko, a base di balletti e balalaike. Oltre alle vecchie canzoni tradizionali russe. Se si vuole c’è anche un minatore che fa da guida nel villaggio. Ha la faccia da Rasputin, la casacca da Rasputin, la barba pure, ma è gentile come uno che sa cos’è il business turistico. Mentre intorno passano facce da Corazzata Potëmkin e da rivoluzione bolscevica. Strana esperienza. Qualcuno ha raccontato loro cos’è successo un quarto di secolo fa? C’è naturalmente un negozietto di souvenir. I negozi di souvenir sono dappertutto, anche in Antartide. Naturalmente articoli russi d’antan. Cappelli militari, matrioske, orologi, cannocchiali, medaglie, qualche piccolo prezioso Lenin. Un museo, il Pomor, dal nome dei coloni russi “marittimi”, condivide lo stesso edificio con il centro culturale che sembra l’oratorio di Don Camillo. Complicate, ripide scalinate di legno portano giù al mare. Perché il viaggio riprende. E si torna nel mondo normale. Si fa per dire. Si va a Nord, come se non bastasse tutto il Nord che c’è qui. Fuori dall’Isfjorden, in mare aperto, sfiorando tutta la costa in una lunga navigazione che porta la Nordstjernen a superare un’invisibile linea virtuale che si chiama 80° parallelo Nord. Ancora dieci gradi e siamo al Polo. Basta così, più avanti ci sono i ghiacci. Accontentiamoci, è tutto il Nord che possiamo avere. Si va tutti a poppa a festeggiare, si stappa una bottiglia e ci si punta sulla giacca a vento il pin che ricorda l’avvenimento.
E la navigazione continua. La Nordstjernen è affascinante. Senti di stare su una nave vera, mica quei palazzi galleggianti che sono le star da crociera, tutte spettacoli serali e discoteche sfavillanti. Le cabine sono da marinaio. Strette, letti a castello. Il salone concede qualche lusso, ma moderato e in perfetto stile. Legno che odora di legno, l’ottone che luccica ma senza esagerare, piccoli tavoli e menù tradizionale. Poi i ponti ingombri di strutture tecniche, le scialuppe piuttosto dei lettini da solarium. Fuori scorrono i profili scuri delle isole e ogni tanto si approda. A Mushamna, nel Woodfjorden, dove c’è una vecchia stazione di caccia. E vedi dal vero quel che hai visto nel museo di Longyearbyen. Una capanna di tronchi dove i cacciatori vivevano, la piccola baracca che era il gabinetto, le trappole appese all’esterno, la dispensa, cioè una specie di torre protetta dal filo spinato dove mettere il cibo fuori dalla portata degli orsi. Tutto bianco di neve, molti uccelli nel vento, l’aria tersa. Un paesaggio limpido, da manuale.
La Nordstjernen funziona come un treno locale. Tappa al Monaco Glacier, con la sua cascata di ghiaccio che scende fino al mare. Poi dentro il Bockfjord, poi a terra con i gommoni, poi una lunga, faticosa, scarpinata nella neve alta fino ad arrivare a una piccola, stupefacente cosa. Cioè una minuscola polla d’acqua calda nella roccia. È la prova dell’esistenza di un vulcano da qualche parte là sotto che sembra che non erutti da qualche migliaio di anni. La sorgente sembra più un’acquasantiera.
E gli animali? Vista dalla nave una colonia di trichechi, una specie di folla da derby calcistico, pacificamente stesi sull’isola di Moffen, che è quella che sta poco oltre la linea dell’80° parallelo. Poi una balena al largo che sbuffava. E finalmente un orso. Uno solo. Però bellissimo, candido nella neve candida, plastico nei movimenti, una figura perfetta. Era sdraiato, si è accorto della nostra presenza, si è alzato lentamente e si è messo a guardarci, il corpo in una posizione, la testa girata verso di noi. Come le statue che vendono nei negozi di souvenir. Però uno solo. Funziona così con la fauna, questione di fortuna. Da queste parti gli orsi sono come i piccioni a Venezia. Ma in fondo averne visto solo uno ha fatto diventare magico l’incontro.
Il clou del panorama di ghiacci e azzurri in tante sfumature è ilMagdalenefjord. Ci si passa alle due di “notte”, col sole alto, mentre si scende a sud per infilarsi nel Lilliehöökfjorden, un altro di quei paesaggi da manuale. Un ghiacciaio che scende fino al mare,l’acqua piatta seminata di piccoli iceberg con pacifiche foche stese sopra come fossero su soffici sofà davanti a un caminetto. Si va in giro con i gommoni. Un blocco di ghiaccio grande come un condominio si stacca e piomba in mare per la gioia delle nostre macchine fotografiche. E poi Ny-Ålesund, 200 persone d’estate, 30 d’inverno. Più o meno tutti ricercatori, di ogni nazione, compresi gli italiani della stazione artica Dirigibile Italia. Un grande chalet di legno, laboratori con gli scienziati dentro. Conducono studi di ogni genere secondo un programma del Cnr. Per loro un grande frigorifero come questo, dove tutto si è conservato perfettamente per millenni, è straordinariamente interessante. Ed è pure un termometro dello stato di salute del pianeta e dei cambiamenti climatici. C’è pure una certa vita sociale, fra tutti gli scienziati delle basi. Il più alto concentrato di buoni neuroni al mondo. Ny-Ålesund è testimone della storia leggendaria del Polo Nord. Qui c’è ancora il traliccio cui era ancorato il dirigibile Norge con cui Amundsen e Nobile partirono per la loro impresa insieme.
Volendo in sei ore di motoslitta e un buon Gps si torna a Longyearbyen, e dev’essere una magnifica avventura. Noi si torna con la Nordstjernen. Allo SvalBar sono ancora lì che bevono birra al sole. Bianco.
Il Fatto Quotidiano

Chiese e vie dei pellegrini, l’altro volto del turismo nel Cusio

A Gozzano risorgerà l’antico mercato medioevale. A Briga Novarese verrà restaurata la chiesa della Madonna del Motto. A Soriso sarà valorizzata la chiesa della Madonna della Gelata. Nel territorio del Basso Cusio si allestiranno percorsi culturali e turistici sulle orme e sulle vie dei pellegrini medioevali. Un progetto europeo del valore di 250 mila euro.  

CON «SCHOLE’ FUTURO»  
I tre Comuni cusiani, con l’istituto per l’ambiente e l’educazione «Scholé Futuro» e la cooperativa Vedogiovane, sono i protagonisti di «Sulle vie della storia» finanziato da Fondazione Cariplo. «E’ un progetto molto importante - dicono il sindaco di Gozzano, Carla Biscuola, e l’assessore alla Cultura, Luisa Gregori - di durata biennale, che parte dallo studio e dalla riscoperta delle vie medioevali utilizzate dai pellegrini». «In Piemonte - aggiunge Maria Teresa Ferraris, coordinatrice del progetto - ci sono 650 chilometri delle antiche vie di pellegrinaggio. Il Novarese, Cusio e Ossola posseggono testimonianze di questi reperti. L’obiettivo è di riscoprire queste testimonianze storiche, valorizzarle, farne luogo di studio ma anche di turismo. In questo modo la cultura potrà creare un ciclo economico virtuoso, offrire nuovi posti di lavoro».  

COME SAN CARLO  
È lo storico Dorino Tuniz, del comitato scientifico del progetto, a ricordare come queste vie di pellegrinaggio siano state utilizzate per molti secoli: «Nel 1584 San Carlo Borromeo andò in visita a Varallo Sesia e tornò utilizzando il sentiero della Colma per arrivare sul lago d’Orta e da qui ad Arona.Fu l’ultimo suo viaggio: il giorno successivo all’arrivo a Milano morì». Tuniz ricorda che i sentieri medioevali erano spesso infestati dalle bande di briganti, soprattutto nella zona a sud di Borgomanero».  

IL MERCATO MEDIEVALE  
Sentieri, chiese e luoghi di rifugio per pellegrini possono diventare importante attrazione turistica, culturale ed economica. Si parte da tre Comuni e tre luoghi simbolo: a Gozzano la piazza San Giuliano e tornerà, un paio di volte all’anno, il mercato medioevale ai piedi della basilica; a Briga sono già a buon punto, come ha precisato il sindaco Chiara Barbieri, i restauri della chiesa della Madonna del Motto.  

A Soriso diventerà punto di riferimento l’oratorio della Madonna della Gelata, eretto all’inizio del ‘600: le madri portavano i bambini morti davanti all’immagine della Madonna per il miracolo del «repit». Il piccolo rinasceva per il «tempo di un respiro». Attimo necessario per battezzarlo.  
lastampa.it

FOTOGRAFIA EUROPEA, NON SOLO A REGGIO EMILIA. ECCO LE INDAGINI SUL PAESAGGIO DELLO CSAC NELLA SUGGESTIVA CORNICE DELL’ABBAZIA PARMENSE DI VALSERENA

Apre domani, negli spazi dell’Abbazia cistercense dello CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università degli Studi di Parma inaugura ESPLORAZIONI DELL’ARCHIVIO. Fotografie della Via Emilia realizzato in collaborazione con Fotografia Europea e curata da Paolo Barbaro e Claudia Cavatorta.
Inserita all’interno dell’edizione 2016 della kermesse, intitolata "La via Emilia. Strade, viaggi, confini" in programma a Reggio Emilia dal 6 maggio al 10 luglio - l’esposizione omaggia il progetto Esplorazioni sulla via Emilia di trent’anni fa attraverso le monografie minime dei suoi protagonisti: Luigi Ghirri, Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Giovanni Chiaramonte, Nino Criscenti, Vittore Fossati, Omar Galliani, Guido Guidi, Mimmo Jodice, Klaus Kinold, Claude Nori, Cuchi White, Manfred Willmann.
Nella Sala delle Colonne troverà spazio un nucleo di fotografie dell’Ottocento degli studi Alinari, Brogi e Poppi, che documentano il paesaggio emiliano postunitario; un secondo nucleo di fotografie affronterà invece il Novecento attraverso gli scatti dell’Atelier Vasari di Roma e le narrazioni di viaggio scattate dal milanese Bruno Stefani a cui si aggiungono gli scatti del parmigiano Bruno Vaghi, i grandi formati di Publifoto e quelli provenienti dal fondo dell’Atelier Villani.
Nella Sala Polivalente verrà inoltre proposta l’esposizione Habitare la via Emilia. Presenze e luoghi di rifondazione insediativa, coordinata da Carlo Quintelli.
Durante il periodo della mostra, dal 21 maggio, saranno anche ospitate una serie di conferenze a carattere multidisciplinare con lezioni e talk di Giovanni Chiaramonte, Franco Guerzoni, Cristina Casero, Mario Cresci, Giulio Iacoli, Vittorio Gallese, Davide Papotti, Andrea Pinotti, Raffaella Perna, Carlo Quintelli, Tania Rossetto Roberta Valtorta(Paola Pluchino)
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