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Parigi. Monet e l’arte astratta americana


Claude Monet, “Ninfee” 1920-1926
A quattordici o quindici anni Claude Monet si guadagnava da vivere come caricaturista e aveva la ferma convinzione di diventare artista. Il padre era disperato per quel figlio che non ne voleva sapere di seguire le vie ordinarie dalla società borghese. Lo racconta lo stesso Monet ormai avanti negli anni in un breve entretien con Thiébault-Sisson, che apparve il 27 novembre 1900 su “Le Temps”: «Non ho mai potuto, nemmeno nella più piccola infanzia, piegarmi a una regola. È da me stesso che ho appreso il poco che so». Si è fatto da solo, come si dice in questi casi. Anche come pittore. Il suo apprendistato con Boudin a Le Havre dura infatti appena sei mesi e poi – come ha scritto Denis Rouart parlando delle Ninfee – decide di trasferirsi a Parigi, dove può raffinare il suo talento sorgivo. Diventerà l’occhio di Dio in terra, colui che vede fin dove non è concesso ai comuni mortali. Un prodigio della natura dirà un altro della sua razza, Picasso. In visita alla mostra di Corot al Museo Marmottan, luogo deputato di Monet e delle tele che dipinse a Giverny, dopo aver rivisto alcuni suoi capolavori che hanno per tema quel giardino e le Ninfee, medito di andare all’Orangerie dove hanno allestito la mostra “L’abstraction américaine et le dernier Monet”.
L’occasione è data dal centenario della grande decorazione delle Nymphéas che occupa le due sale ellittiche dell’Orangerie. Davanti a un video che mostra Monet nel giardino di Giverny mentre lavora a un quadro di Ninfee, mi incanto a osservare lui che gira continuamente la testa verso il giardino e subito la rigira e deposita sulla tela un tocco di colore. È un movimento rapido, quasi rapsodico, come se prendesse appunti dalla natura; oppure è la verifica tocco su tocco che il colore incarni sulla tela un brano della natura che egli ha sposato chiudendosi in quel luogo lussureggiante. Ma è invece il movimento della sua immaginazione che tiene per così dire il punto, discendendo a una ta- le profondità che la superficie del quadro non corrisponde più a una immagine dal vero ma al suo superamento sul piano della contemplazione. E quando vediamo queste opere dell’ultimo decennio che si sciolgono in composizioni sempre più informali viene da chiedersi quanto Monet volesse giocare sul linguaggio pittorico, ovvero cercasse di ricreare una natura sempre più panica, ineffabile, fermentata in un coacervo di segni, filamenti, grovigli che ci danno sempre e invariabilmente la sensazione di essere dentro un pezzo di paesaggio che ha per noi, ma ancor prima per Monet, la consistenza di un grembo primigenio nel quale si torna per curarsi dalle mille ferite e distorsioni che il mondo ci infligge.
È forse eccessivo farne una regola, e allora prendiamola soltanto come intuizione: le svolte della pittura in Monet e con Monet cadono quasi sempre nei dintorni di una guerra. Quella del Settanta, dove la Francia perse con la Prussia e fu costretta a cedere Alsazia e Lorena; la Grande Guerra, riscatto dei francesi verso i tedeschi, ma anche vero maelström che, come disse all’epoca il filosofo Henri Bergson, cambiò la scala dei valori delle cose che contano; e la Seconda guerra mondiale, dove avviene la consacrazione internazionale dell’artista. A tutte e tre Monet non partecipò: nell’intervista con Thiébault-Sisson disse che si era appena sposato quando scoppiò la guerra del 1870 e non aveva nessuna voglia di farsi ammazzare, quindi espatriò a Londra e, come recita il luogo comune, scoprì una delle verità dell’impressionismo: anche le ombre sono colorate e cambiano sotto i riflessi del cielo e delle cose. La scoperta avvenne osservando i paesaggi innevati (ma l’aveva già notato Courbet dieci anni prima e lo scrisse in una delle sue lettere). Monet mancò anche la guerra del 1915-1918, perché ormai era troppo vecchio per combattere, e alla fine per celebrare la vittoria della Francia donò allo Stato due opere del ciclo dei salici piangenti e delle ninfee. Mancò, ovviamente, anche la Seconda guerra mondiale perché era già morto e qui il suo nome tiene banco per la riscoperta che la critica americana ne fece dopo il 1945. L’ultimo periodo pittorico incentrato sulle Ninfee sembra infatti anticipare di due decenni l’informale post bellico.
La mostra che è in corso all’Orangerie di Parigi indaga quest’ultimo passaggio. “Una storia franco-americana”, come recita il titolo della presentazione in catalogo di Laurence des Cars e Cécile Debray. Fatto curioso, questo destino internazionale è lo stesso che l’America garantirà dalla metà degli anni Cinquanta a un altro francese, Marcel Duchamp, a lungo misconosciuto in Francia, almeno fino alla grande mostra del 1977. Monet, dopo la morte, avrà una fase ventennale di oblio, identificato con lo spontaneismo impressionista che, scrivono i due curatori, contrasta col ritorno all’ordine dei realismi ideologici e con l’astrazione geometrica e costruttivista. Si potrebbe dire che in entrambi i casi si manifesti un peccato di razionalismo, argomento tipico dei francesi. Sarà l’interesse della pittura americana per l’ultimo Monet, grazie anche all’opera di promozione nel mondo condotta dalla gallerista parigina Katia Granoff, a riaprire il discorso vedendo nel pittore francese il precursore dell’informale, che in Europa ha una forte valenza esistenziale e nichilista, mentre oltre Oceano Monet viene esaltato per l’analogia – colta da William Seitz nel 1955 – col panteismo naturalista di Emerson e Thoreau. Clement Greenberg aveva in un primo momento rilanciato per Monet la critica di Cezanne agli impressionisti, ovvero la mancanza di “struttura tridimensionale”.
Ma il giudizio cambia quando afferra tutta la novità prodotta dal crogiolo pittorico di Giverny: «Come Debussy presenta spesso la semplice texture del suono come forma forma della musica, così l’ultimo Monet offre la semplice texture del colore come forma adeguata della pittura ». Così nel 1954 Greenberg pone Monet di fronte a Clifford Still e Barnett Newman; e alle ninfee guarda anche la linea dell’“impressionismo astratto'” di Philip Guston, Sam Francis, Riopelle. Sarà Leo Steinberg nel 1956 a dettare il confine della piena consacrazione di Monet in America scrivendo che è «più vicino a Mondrian che a Corot». Un bel salto mentale, non c’è che dire. L’anno dopo Greenberg concluse che «le ninfee di Monet ci ricordano che i nostri canoni di eccellenza sono provvisori ». Da Guston a Tobey, da Rothko a Pollock, da Joan Mitchell a De Kooning, la mostra dell’Orangerie celebra una idea che ormai è entrata da decenni nei pensieri comuni della critica: Monet precursore dell’informale e dell’espressionismo astratto americano, antico maestro europeo di una pittura che vuole ritessere il legame originario con la cultura di cui si sente una continuazione e variazione. Questa mostra non sarà un modo per ipervalorizzare Monet (che è un genio indiscusso del suo tempo), una debolezza tipica dei francesi quando arrivano in ritardo, oppure è la visione acritica di un fenomeno che, dopo aver ristabilito l’assetto delle cose, andrebbe rivisto criticamente?
Penso che Monet abbia battuto negli ultimi dieci anni di vita una strada solitaria, nuova, ma anche molto personale, che non aveva come prima intenzione una rivoluzione del linguaggio ma una risposta al limite esistenziale cui la sua pittura poteva tendere e Greenberg, quando era ancora critico verso Monet, lo intuì chiaramente e scrisse che egli aveva «l’ambizione di notare, registrare e rendere permanenti gli aspetti più transitori della natura», ambizione, dice, extraestetica «che ha a che fare più con la scienza che con la pittura». Ma sbaglia mira: quel “minimalismo” praticato attraverso la materialità del colore, punto per punto, che si comprende vedendo il breve film di Monet mentre dipinge a Giverny, è la sua confessione di aver raggiunto il “momento giapponese” dove pittura e natura sono u cosmo solo. E dunque l’unica scienza che si manifesta è quella sapienziale che reintegra l’uomo nel dinamismo vitale dell’universo. Ma questo è assai meno americano e più nell’ordine spirituale dell’Oriente.

Parigi, Orangerie
L’ABSTRACTION AMÉRICAINE ET LE DERNIER MONET
Fino al 20 agosto
fonte: Avvenire

Da Perugia a Modica, viaggi al gusto di cioccolato

iStock. VIAGGIART © Ansa

PERUGIA - Dal cioccolato di Modica a quello piemontese alcuni luoghi d'Italia sono un inno goloso a questa delizia. Ma se vogliamo trovare una città del cioccolato forse dobbiamo andare a Perugia, sede della Perugina che produce il famoso Bacio e dove, ogni anno, si svolge il super goloso Eurochocolate. Qui c'è la Casa del cioccolato con un mueso che raccoglie immagini, curiosità, rarità, aneddoti e filmati.
Come dicevamo molto più a Sud, a Modica in Sicilia, c'è uno dei cioccolati più indimenticabili e antichi in Italia a cui la città ha dedicato un Museo del Cioccolato nel Palazzo della Cultura. La sua produzione risale al XVI secolo con la dominazione spagnola che insegnò ai siciliani i segreti degli atzechi. 
Ma sono tantissime le dolci tappe al cioccolato della Penisola: si parte dal torinese Guido Gobino alla bolognese Majani, dal toscano Amedei a Napoli con Gay Odin.
Insomma buona giornata mondiale del cioccolato a tutti i golosi 
in ANSA VIAGGIART

Un gioco da bambini "Prendimi!", in sala film ispirato a una storia vera

Video / Cinema: 'Humanism', dall'anteprima londinese al 'Flaiano Film Festival' Il regista Della Sciucca, grazie a Flaiano mio avvicinamento alla satira

Siti nuragici come attrattori turistici Da luglio ad ottobre spettacoli in luoghi identitari

Vasca Sacra del villaggio Santuario Nuragico di Romanzesu, Bitti - Foto della Cooperativa Istelai © ANSA

Due complessi nuragici da valorizzare e un ricco calendario di spettacoli. Dal 6 luglio al 4 ottobre i siti archeologici di Serra Orrios, nell'altopiano di Gollai a Dorgali, e il complesso di Romanzesu di Bitti, entrambi nel nuorese, ma anche teatri e musei accolgono "Identità Nuragiche", 13 spettacoli con nomi come Fabrizio Bosso e Luciano Biondini, Antonello Salis e Sandro Satta, Gavino Murgia e i Tenores di Bitti, Mauro Palmas, Simonetta Soro, il Cuncordu e Tenore di Orosei. Ma anche il fascino del flamenco con la ballerina di Cordoba Yolanda Osuna. Da qui alle suggestioni del teatro con "La vedova scalza" dal romanzo di Niffoi, diretta da Maria Virginia Siriu, "Antigone on Antigone" di e con Siriu, Medeassolo con Valentina Banci e altro ancora (programma completo su www.identitànuragiche.com).
    Tutto in luoghi fortemente identitari. Ideato e organizzato da Forma e Poesia nel Jazz in collaborazione con Theandric, la rassegna ha lo scopo di far rivivere il patrimonio archeologico e rendere sempre più attrattori turistici due siti nuragici di straordinario interesse tra spettacoli e laboratori.
    In anteprima sarà presentato dal 25 agosto al 4 ottobre lo spettacolo interattivo e sensoriale "Shardana", condotto e ideato dalla regista cagliaritana Maria Virginia Siriu. Il progetto è finanziato attraverso il bando Cultur Lab promosso dalla Regione. "La valorizzazione del nostro patrimonio archeologico passa anche attraverso il sito innovativo e 'immersivo' www.identitànuragiche.com, dove fra video con voce narrante e foto ci si potrà immergere nelle atmosfere dei luoghi - spiega Nicola Spiga, direttore artistico di Forma e Poesia nel Jazz - le informazioni saranno disponibili anche attraverso il linguaggio dei segni". In primo piano anche l'agroalimentare e enogastronomia a km0. (ANSA).

Estate, ecco le città più amate dagli stranieri nel 2018 Roma regina, Sardegna e Campania star, Palermo la meno cara

Positano © Ansa

 Gli stranieri amano l'Italia ma quali saranno le città preferite quest'estate. Un'idea ce la dà un'indagine di momondo.it che l'ANSA pubblica in anteprima.
Roma si conferma “regina d’Italia”, Sardegna e Campania le regioni preferite - Sebbene il podio delle mete italiane veda protagoniste come è facile aspettarsi le città d’arte per eccellenza - con Roma, Venezia e Firenze a guidare la classifica - l’interesse dei viaggiatori per il Bel Paese appare particolarmente variegato e incorona Sardegna e Campania regioni preferite da visitare, entrambe con ben due mete nella top 10: rispettivamente Alghero e Cagliari (5° e 8°) e Napoli e Positano (7° e 9°), nonostante rispetto al 2017 tutte queste mete abbiano registrato un aumento dei prezzi medi di hotel.
Positano, quanto mi costi! Palermo è la più economica - Positano rappresenta la scelta più costosa di questa speciale top 10 estiva di momondo.it, con una tariffa media a notte di ben 307 €, seguita da Alghero (169 €). Al contrario, Palermo guadagna quest’anno lo scettro di città più economica in termini di soggiorno in hotel - con soli 66 € per notte, seguita da Rimini (69 €), Milano (93€) e Roma (99€). Decisamente una buona ragione in più per concedersi una vacanza tutta italiana, ideale sia per chi ama il mare e il relax, ma anche per chi vuole avvicinarsi alla storia e cultura del Bel Paese.
                                               Prezzo medio di un hotel             Variazione % prezzo
                                                          2018                                          (2018 vs. 2017)
1 Roma                                              99 €                                                          -10%
 2 Venezia                                          156 €                                                          8%
3 Firenze                                            156 €                                                           8%
4 Milano                                             93 €                                                           15%
5 Alghero                                           169 €                                                          41%
6 Palermo                                          66 €                                                            -20%
7 Napoli                                             102 €                                                           21%
8 Cagliari                                           126 €                                                           24%
9 Positano                                          307 €                                                           26%
10 Rimini                                           69 €                                                            -32%
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