A New York riapre il Four Seasons Per il ristorante dei vip chef giovanissimi e un ex Casa Bianca

The Bar Room at the new Four Seasons ( Credit Nicole Craine for The New York Times) © Ansa

A due anni dalla chiusura il leggendario Four Seasons riapre a tre isolati di distanza dalla vecchia sede del Seagram Building. La targa di ottone con il logo dei quattro alberi che apparteneva al ristorante più amato da Henry Kissinger torna a segnalare l'ingresso ai nuovi locali in un palazzo per uffici su Park e 49/a strada. Restano, nella nuova impresa di Julian Niccolini e Alex von Bidder, alcunipezzi forti dello storico menu come l'anatra arrosto. "Vecchi clienti sono già passati per assicurarsi il tavolo", ha detto Niccolini al New York Times in vista dell'apertura. Ma se il primo Four Seasons aveva chiuso perché giudicato non più all'altezza dei tempi, la sua reincarnazione proverà a rinnovarsi cominciando delle cucine.
    A dirigere i cuochi l'italiano Niccolini e lo svizzero von Bidder hanno chiamato il messicano Diego Garcia, 30 anni, con esperienze a Le Bernardini e al piccolo Gloria di Hell's Kitchen specializzato in pesce. Il suo numero due, Brandon Lajes, ha solo 26 anni. Per i dolci un veterano della Casa Bianca: Bill Yosses che ha lavorato per George W. Bush e Barack Obama dal 2007 al 2014. I locali sono firmati dall'architetto brasiliano Isay Weinfeld. A indicarlo ai proprietari come epigono di Philip Johnson è stato il critico Paul Goldberger: "Una sfida enorme.  Non volevano il solito architetto di New York, ma neanche un perfetto sconosciuto. Isay capisce la tradizione del modernismo, ma è capace di portarla al passo coi tempi".
    Clientela in media ultrasessantacinquenne all'epoca della chiusura, nel 1959, quando aprì i battenti, il Four Seasons inventò il power lunch. Per i suoi locali passarono tutti i presidenti americani tranne Richard Nixon, Jackie Onassis aveva un tavolo fisso così come la matriarca della New York bene Brooke Astor che, ormai centenaria, dimenticava di aver prenotato, ma per lei un posto c'era sempre vicino a Donald Trump, Martha Stewart, Warren Buffett.
    Il 16 luglio 2016 i ristorante aveva servito l'ultima cena ed era stata la fine di un'era. Il primo Four Seasons era costato 4,6 milioni di dollari, la sua reincarnazione da 110 coperti, 50 in meno dell'originale, viaggia sull'ordine dei 30.
Alla chiusura un'asta ne aveva disperso gli arredi storici: dalle sedie sui cui si erano accomodati gli ospiti per il 45/o compleanno di JFK alle pentole, alle stoviglie e alle posate disegnate appositamente da Ada Louise Huxtable, riprodotte adesso per l'edizione 2.0. Niccolini e von Bidder avevano ricevuto lo sfratto dal proprietario del palazzo Aby Rosen, convinto che fosse arrivata l'ora di svecchiare. Oggi meditano la rivincita.
   
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Viaggio a Treviso, Urbs Picta

Treviso Urbs Picta © ANSA
TRIESTE - Passeggiare tra i vicoli acciottolati, o sotto i portici, è un'esperienza commovente che la bellezza del Palazzo dei Trecento con l'elegante Loggia Dei Cavalieri rafforza. Un'emozione che il serpeggiare silenzioso delle acque del Sile e del Cagnan vivifica. Convogliate in canali, le acque scompaiono dietro il cortile di una villa antica, riappaiono da una bocca nella parete di una casa. Treviso splendida. C'è un inedito itinerario per visitarla, è tratteggiato dalle facciate affrescate della città. Con una specifica: dal XIII al XXI secolo.
    Tra le cancellature del tempo, l'usura del passaggio di mani e carri, la sferza di freddo, pioggia, caldo, il lavoro certosino che hanno fatto nell'arco di sei anni di studi l'architetta Rossella Riscica e la storica dell'arte Chiara Voltarel nel voluminoso "TREVISO URBS PICTA" (FONDAZIONE BENETTON; 206 PAG.; 33 EURO) somiglia a una colta caccia al tesoro cadenzata da occhiate e illuminazioni, da scorci e volte. Dapprima attraverso l'osservazione, hanno dovuto individuare uno spigolo di affresco che affiorava, scolorito, tra una parete scalcinata e un impiantito rotto di finestra; un putto acrobata che volteggiava a dieci metri di altezza, sotto una tettoia. Successivamente, catalogati i 475 edifici affrescati esistenti nel centro storico al 2017 di questa piccola ma ricca città veneta di 85 mila abitanti, hanno dovuto interpretarli, dunque ricomporli virtualmente attribuendone paternità e significato. Una sorta di gigantesco puzzle. 475 tessere per disegnare una figura che era la Treviso di un tempo.
    Una ricostruzione che considera anche quanto distrutto dall'indimenticato bombardamento del 7 aprile 1944.
    E non si tratta soltanto di opere del Duomo o del polo museale di Santa Caterina dei Servi di Maria, ma di decorazioni e pitture che abbellivano case di notabili, impreziosivano palazzi di famiglie in vista: un corredo iconografico che simile a un merletto fila di edificio in edificio, di volta in volta nel centro e oltre, in tutta la Marca e nelle grandi città vicine in un immaginario intarsio che è lo stile della Grande città madre, Venezia. Così, città dipinte del circondario sono Padova, Verona, Oderzo, Pordenone, solo per fare alcuni nomi.
    Il volume, elegantissimo, vero libro d'arte, pubblica decine e decine di foto di particolari, di luoghi d'epoca e piazze attuali e compone una nuova mappa topografica (sincronica e diacronica) della città affrescata, in una prospettiva che tiene conto delle diverse fasi storiche, fino alla condizione attuale e alle sue diverse emergenze, oltre che al futuro, con proposte concrete di salvaguardia del patrimonio, attraverso i temi del restauro e della valorizzazione. Esso ha infatti portato alla creazione di una banca dati (trevisourbspicta.fbsr.it) che conserva informazioni sulle testimonianze pittoriche all'interno della cerchia muraria di Treviso.
    Rossella Riscica parla di "decorazioni importanti, varie, complesse e di dipinti murali" che costituiscono il "tratto peculiare di Treviso", che "potrebbe apparire il vanto del tempo passato", mentre "la sfida è lanciata proprio oggi: la conservazione".
   
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Neorealismo e fotografia a New York

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Gli anni bui del fascismo, la povertà del dopoguerra, la speranza di una nazione distrutta ma desiderosa di rinascere a nuova vita, la dignità di un popolo che non vuole arrendersi alla miseria: è la grande mostra "NeoRealismo: The New Image in Italy, 1932-1960" che dal 6 settembre all'8 dicembre occuperà i grandi spazi espositivi della Grey Art Gallery, il museo delle belle arti della New York University nel cuore di Manhattan, per raccontare con la fotografia il coraggio e la bellezza dell'Italia di metà '900.
    Al centro del percorso c'è la realtà di un Paese intero, catturata e interpretata attraverso il linguaggio dell'immagine e filtrata dallo sguardo di grandi autori: un Neorealismo non letterario né cinematografico, ma fotografico, per delineare i mutamenti dell'Italia nel periodo che va dal fascismo al boom economico. Sono 180 gli scatti presentati al pubblico newyorchese, opere suggestive e intense nel loro linguaggio scarno ed essenziale, firmate da 60 artisti italiani, tra cui Mario De Biasi, Franco Pinna, Arturo Zavattini, Tullio Farabola, Enrico Pasquali, Chiara Samugheo, Ando Gilardi, Enzo Sellerio, Nino Migliori, Gianni Berengo Gardin, Cecilia Mangini. A cura di Enrica Viganò e organizzata da Admira di Milano, la mostra offre anche l'occasione per riflettere sul ruolo che nel movimento neorealista ebbe il medium fotografico, documentandone l'evoluzione. Il Neorealismo viene raccontato attraverso 5 sezioni: "Realismo in epoca fascista", in cui la fotografia viene usata per la propaganda del regime ma anche da alcuni autori impegnati che di nascosto documentavano l'arretratezza del Paese, "Miseria e ricostruzione", che racconta il periodo successivo la fine della seconda guerra mondiale con l'Italia devastata ma percorsa da un fremito di rinascita, "Indagine etnografica", in cui si rivela quanto la fotografia sia stata essenziale per ricreare un'identità collettiva del dopoguerra, "Fotogiornalismo e rotocalchi", con i lunghi reportage pubblicati su numerose testate a testimonianza dell'uso sempre più frequente delle immagini sulla carta stampata, e infine "Tra arte e documento", dedicata ai dibattiti sul valore creativo della fotografia. A corredo della mostra anche pubblicazioni originali di rotocalchi, libri fotografici, cataloghi, poster, accanto a spezzoni tratti da film diretti da alcuni dei registi più significativi del Neorealismo, tra cui Vittorio De Sica, Roberto Rossellini e Luchino Visconti. Oltre alla Grey Art Gallery, anche il Metropolitan Museum of Art e la Galleria Howard Greenberg partecipano a questo omaggio americano all'Italia neorealista: il primo proporrà dal 18 settembre a 15 gennaio una selezione delle opere dei fotografi del dopoguerra italiano, recentemente acquisite per la collezione permanente, la seconda allestirà la collettiva (con molti degli stessi autori in mostra alla Grey Art Gallery) intitolata "The New Beginning for Italian Photography, 1945-1965", dal 13 settembre al 10 novembre.
   
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Via del Sale, tra pedalate in quota e panorami mozzafiato

La via del Sale © ANSA

È un itinerario che regala emozioni fortissime: pedalare in quota, nel silenzio della montagna, ammirando paesaggi a 360 gradi che spaziano dai ghiacciai del Monte Rosa al Mar Ligure. Nelle giornate di cielo terso lo sguardo può spingersi fino a scorgere all’orizzonte il profilo della Corsica. In questo lembo di terra, compreso fra Alpi Marittime, Alpi Liguri e Tirreno, al confine tra Italia e Francia, Piemonte e Liguria, la geografia si mostra sotto forma di panorami mozzafiato. Puro godimento estetico, che evoca le suggestioni della “sindrome di Stendhal”.
È qui che nel corso dei secoli la tenacia dei pescatori liguri ha sviluppato una rete di sentieri e di mulattiere , che si inerpicano sulle montagne, in un sistema orografico assai complesso, per poi svalicare nella pianura e portare come merce di scambio innanzi tutto il sale, un bene all’epoca preziosissimo, ma anche acciughe e altri prodotti del mare. Al di là dei monti quella merce entrava nelle cucine, dove veniva trasformata, tra l’altro, in bagna càuda, piatto tipico della tradizione piemontese.
Questo reticolo di vie comunicazione ha preso il nome di Via del Sale, anche se sarebbe più corretto parlare al plurale di Vie del Sale. Tante , infatti, sono le varianti che dalla costa ligure portano oltre i monti.
Strade commerciali, dunque. Ma anche strade percorse nei secoli dai pellegrini in cammino verso Santiago de Compostela o verso Roma. Un’infrastruttura di base che poi, tra l’Ottocento e il Novecento, è stata ampliata per costruire strade militari al servizio delle fortificazioni di confine tra Francia e Regno Sabaudo e poi Regno d’Italia. La Via del Sale di oggi (anche detta “Alta Via del Sale”) sfrutta le antiche carrarecce realizzate negli ultimi due secoli: un vero capolavoro di ingegneria militare. Molte le fortezze e le caserme che si incontrano lungo la strada. Facevano parte del Vallo Alpino Occidentale: anche queste testimonianza interessantissima del genio militare del XIX e XX secolo.

Il punto di partenza è Limone Piemonte, in provincia di Cuneo. Da lì si sale al Col di Tenda a oltre 2.200 metri di altezza. L’arrivo è a Ventimiglia (Imperia) o – secondo le varianti - a Sanremo. Sono circa 125 chilometri di strade sterrate a tornanti, in parte ben mantenute, in parte meno. Comunque tutte percorribili non solo in mountain bike, ma anche in jeep. La strada è aperta, secondo le condizioni meteo, indicativamente da fine giugno a inizio a ottobre. Per cinque giorni alla settimana, dal mercoledì alla domenica, è accessibile anche ai veicoli a motore (fuoristrada e moto), sia pure in misura contingentata e a pedaggio. Per i ciclisti la quiete è assicurata il lunedì e il martedì. In bici il percorso è abbastanza impegnativo e richiede due giorni con pernottamento in rifugio a metà strada. Malgrado si parta dalla montagna per scendere verso il mare, non è tutta discesa. Al contrario. È un continuo saliscendi. Bisogna mettere in conto circa 2.500 metri di dislivello in salita. Ma la fatica è senz’altro ripagata. Il percorso offre una straordinaria varietà di paesaggi e di biotopi: nella prima parte marmotte, stambecchi, aquile, larici ed abeti; al traguardo gabbiani, ulivi e palme. Arrivati a Ventimiglia il premio finale: un rigenerante bagno in mare.
Fra le tante varianti di questo itinerario i ciclisti più esperti sono attratti da un passaggio molto tecnico di una decina di chilometri lungo il fianco Nord del monte Toraggio. A tratti non è pedalabile. È molto esposto su un precipizio; quindi anche pericoloso. Decisamente sconsigliato per chi non abbia un’ottima bici e una perfetta tecnica di guida. Il cicloviaggio può essere affrontato con le proprie forze a condizione che si abbia buona esperienza di montagna e di cartografia e che si disponga di un’attrezzatura e di un allenamento adeguati. Chi, invece, voglia godersi questo itinerario in tutta tranquillità può rivolgersi a un tour operator. Tra questi ConiTours di Cuneo, che offre l’assistenza di guide di mountain bike altamente professionali. Per i meno allenati, infine, c’è sempre l’opzione validissima e sempre più diffusa della bici a pedalata assistita.
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