Il titolo della mostra alle Gallerie dell’Accademia nella sua didascalica semplicità – Il giovane Tintoretto – non lascia trapelare molto di ciò che si agita sotto. Questa prima sezione si completa a Palazzo Ducale (fino al 6 gennaio) con quella che, unendo le opere presenti sul posto a un’ampia antologica con altre provenienti da importanti istituzioni, diventa, come si dice nei comunicati stampa, la più completa allestita a Venezia dopo quella tenutasi nel 1937 sotto la cura di Nino Barbantini. E l’occasione per questo impegno espositivo è data dai cinque secoli dalla nascita di Tintoretto, che cadranno l’anno prossimo.
Roberto Longhi, quasi un decennio dopo, nel 1946, dà alle stampe il celebre Viatico per cinque secoli di pittura veneziana dove stilla tutta la sua antipatia per il grande pittore: «È più probabile che, specialmente da noi, si ammirasse nel Tintoretto più la bravura che la fantasia; che è sempre un buon pretesto per far passare l’accademia sotto specie di furia. Mi rammento che, dopo l’altra guerra, quando, nel distendere i teloni di San Rocco, si trovarono ripiegati sui bordi, non so che pezzi di frutta e foglie, non si mancò di clamare alla natura morta e a Cézanne. Si provò a fotografarli quei pezzi e le frutta andarono a male». È una delle stroncature celebri di Longhi (Canova, Fattori, De Chirico eccetera), ma che non vanno prese come giudizi critici, piuttosto come idiosincrasie. Volerne spiegare la ragione è come pretendere di svelare le cause inconsce di certi comportamenti umani: se si è fortunati tutt’al più si troverà qualche traccia rimossa di traumi infantili, ma non è detto che aiuti a vincere l’ostacolo. E l’infanzia di Longhi certamente fu piena di segreti interiori. Però ecco che da quelle perfide incomprensioni, che non impedivano a Longhi di ammettere le qualità straordinarie del pittore, venne qualche anno dopo anche la risposta di Rodolfo Pallucchini con un memorabile saggio, La giovinezza del Tintoretto, dove scioglieva l’odio di Longhi in ampie dosi di balsami e unguenti critici. Una lettura che oggi viene, in certo senso, ripresa e sviluppata dalla mostra dell’Accademia, propedeutica all’altra sezione sul Tintoretto maturo a Palazzo Ducale. Un duplice omaggio, cui sovraintende Gabriella Belli, che mette in luce soprattutto l’autonomia mentale e visiva di Tintoretto: si affaccia al mondo della pittura immerso nella realtà veneta, dove Tiziano domina per la virtuosa naturalezza del colore che dissimula sottopelle classicità e orgogliosa abilità esecutiva; poi, assimilando Vasari, media con la tradizione toscana del disegno senza soccombere, anzi come se pagasse volontariamente pedaggio per dimostrare a tutti che poteva anche farne a meno (ma gli fu assai utile per sciogliersi dal giogo tizianesco).
L’antipatia di Longhi sembra nascere da questa commistione fiorentina e veneziana del Tintoretto giovane che il critico probabilmente giudicava kitsch: la chimera Michelangelo- Tiziano, per capirci, che ingessava il naturalismo del colore veneziano rendendolo simile a un manichino. In fondo il punto in questione, che si può verificare sulle opere degli anni di formazione, quelli tra i Trenta e i Quaranta del secolo, è come Tintoretto assimili e si emancipi dai toscani (Schiavone, Sustris, Francesco Salviati, Vasari) spiccando il volo verso la sua misura. Una mente imma- ginifica come la sua, che fin dall’Autoritratto giovanile esposto a Palazzo Ducale e proveniente da Philadelphia, lascia intuire l’enorme determinazione e la forza con cui osservava il mondo (non fosse lui, si potrebbe considerarlo quasi un ritratto caravaggesco), era lecito pensare che tentasse il dritto per dritto nella direzione che aveva intuito come fuga verso la libertà e della grandezza espressiva. Ed è alla fine degli anni Quaranta che imbocca la strada che ne fa uno dei pittori rinascimentali che più hanno squarciato l’orizzonte della modernità. Una giovinezza, quella di Jacopo Robusti – per dirla con le parole di Longhi – «colma in principio di idee bellissime per favole drammatiche da svolgersi entro la scenografia di luci e ombre rapidamente viranti». Perché solo “in principio” e non et nunc, et semper, et in saecula saeculorum? Amen. Perché a questo in effetti Tintoretto aspira e ci promette. La ricerca di un movimento che non è solo interno alla forma, ma totale, senza distinzioni fra dentro e fuori; come nello strepitoso quadro Susanna e i vecchioni del Kunsthistorisches di Vienna, che ogni volta che lo guardo mi pare il distillato ante litteram di tutte le idee di spazio dina- mico – terza quarta quinta dimensione –, dei secoli moderni. E si rafforza in me la convinzione che Tintoretto fosse molto molto avanti sui tempi: che in lui si trovino i germi di Caravaggio e Rembrandt, di Serodine e Ribera, ma anche Géricault, Courbet e Manet, per non dire, se stiamo alla questione spazio-temporale, del Picasso post cubista nelle sue addizioni primitiviste e plastiche fra le due guerre. Un azzardo critico? Può darsi, ma non così tanto poi. Basti pensare, per esempio, al Cristo che nella Cena di Emmaus (1543) conservata a Budapest, stringe in pugno il pane da spezzare come fosse il cranio su cui Shakespeare fa confessare ad Amleto il suo dubbio.
A Palazzo Ducale sono esposti alcuni disegni di nudo provenienti dalla Courtauld Gallery di Londra e dal Museo Boijmans Can Beuningen di Rotterdam nella cui sprezzatura grafica, la segmentazione del tratto, lo spasmo che comunicano come l’impulso elettrico nel corpo dell’anguilla cui si sia recisa la testa, si avverte una verità esistenziale che ce li rende contemporanei, aderenti al nostro sentire. E va ricordata l’altra notazione di Longhi, quando scrive che Tintoretto predisponeva un teatro di manichini col quale metteva alla prova i suoi «canovacci luministici». Non siamo già alla camera oscura del Caravaggio? Saranno vent’anni e più da una mostra ferrarese ideata da Andrea Emiliani all’insegna del “parlar disgiunto” di Torquato Tasso in contrappunto pittorico con Tiziano. E se la mostra celebrava la Trasfigurazione proveniente dalla veneziana chiesa di San Salvador, tutta l’energia nello spazio espositivo si staccava da Tiziano per confluire nell’Ultima cena del Tintoretto, che aveva l’ampiezza e la terribilità di un sisma dentro il ventre dell’universo, un bouleversement totalche annunciava l’apocalisse. L’impostazione della grande tela, conservata a Venezia nella chiesa di San Giorgio Maggiore, stravolge tutte le tradizionali composizioni del tema: la lunga tavolata a cui siedono gli apostoli attorniati da altri servitori alacremente all’opera, corre in diagonale per tutto il dipinto, e Cristo non è in primo piano ben visibile allo spettatore, ma in fondo all’estremo opposto, a braccia aperte come punto cardine di tutte le forze che muovono i “manichini” umani in attesa della fine dei tempi. Tintoretto sembra dirci che l’Ultima cena precede il Golgota nell’orologio che segna il tempo della fine. Bisogna notare, a proposito di anticipazioni, gli angeli che sembrano procombere sulla scena, come poi accadrà in Caravaggio (per esempio, Le sette opere di misericordia o il Martirio di san Matteo).
Una rivoluzione annunciata già nella grande tela San Marco libera lo schiavo dal supplizio della tortura (1548) che rappresenta il punto di non ritorno dalle esperienze di formazione e inaugura il cammino travolgente del Tintoretto ormai sicuro dei propri mezzi e del proprio orizzonte, che eccelle in tutti i generi: nel ritratto, nelle scene sacre e mitologiche, nei quadri che celebrano i potenti di Venezia (i numerosi affreschi di Palazzo Ducale e il celebre, vastissimo, Paradiso che è un’allegoria sacra ma anche del governo regale e temporale), e persino nei dettagli di “cose” e “animali” che dispone nello spazio. Un innovatore nella ritrattistica, i cui fondi scuri illuminarono certo Caravaggio quando passò da Venezia. Dalle proprie effigie che ci consentono di misurare la cognizione di sé che il pittore aveva col trascorrere degli anni (fino a quel dipinto del 1588, pochi anni prima della morte, dove ha ormai l’aspetto di un vecchio saggio sul cui volto si è impressa, filo di barba su filo di barba, una vita febbrile e combattiva, da sciamano del visibile), ai numerosi ritratti di signori, potenti e nobildonne, fra i quali è difficile dimenticare il Ritratto di una vedova proveniente da Dresda.
da Avvenire