Da Torino al Cairo, l'archeologia egizia superstar


 Dal Cairo a Torino, nei prossimi mesi l'archeologia egiziana sarà volano di nuove soluzioni e proposte nel panorama culturale internazionale. In Egitto è attesa entro la fine dell'anno l'apertura del nuovo grande museo che ospiterà i faraonici reperti di Tutankamon mentre in Italia è previsto per ottobre del 2024 il completamento del progetto di restyling del Museo Egizio di Torino, allo stato il secondo per importanza nel mondo, che porterà all'apertura di un'ala museale alla cittadinanza in una nuova piazza.

Da presidente del consorzio europeo a cui Il Cairo ha affidato il progetto di rilancio del museo di piazza Tahrir, Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, ha appena consegnato al ministro della Cultura egiziano il masterplan di uno dei progetti previsti per il ripensamento e riallestimento delle sale in vista dell'apertura del nuovo GEM, il Grand Egyptian Museum che ospiterà i cimeli appartenenti alla tomba del faraone Tutankhamon. "Siamo davvero soddisfatti: quello che abbiamo consegnato è il frutto di un lavoro collettivo" che ha messo insieme le più importanti istituzioni museali egizie del Cairo con Londra, Berlino, Leiden, Parigi e, appunto, Torino per rilanciare quella che Greco definisce la "culla di tutti i musei". Un piano definitivo che spazia dalla "statica a come implementare la raccolta fondi, dalla digitalizzazione delle collezioni e degli archivi, alla risistemazione delle sale: un impegno a 360 gradi per onorare l'obiettivo con cui era stato pensato il museo nel 1902", quello di mettere la parola fine all'espoliazione dei reperti archeologici egiziani. Anche se una data ufficiale ancora non è stata data, l'apertura del nuovo Gem dovrebbe essere "imminente" assicura Greco che ci tiene però a ripetere: "è importante capire che la base di tutto rimane piazza Tahrir". E' lì, ci tiene a sottolineare, che resteranno, ad esempio, l'importante statua del faraone Djoser, l'unica statua che conosciamo di Cheope, quella di Chefren seduto in trono, la stauta di Kefren con il falco di horus e poi la triade di Menkaura: "parliamo di capolavori assoluti che restano nel museo " di piazza Tahrir. "Questo progetto si porta a casa per la prima volta un ecosistema diverso: i curatori egiziani hanno lavorato fianco a fianco con ognuno dei partner e ognuno di loro, per le proprie competenze, ha contribuito alla risistemazione di questo museo che è la colonna spinale" del sistema archeologico egiziano e "noi che abbiamo l'onere e l'onore di avere in Italia un'importantissima collezione abbiamo il compito di coltivare questo dialogo per un comune accrescimento". L'attualità porta inevitabilmente ad affrontare anche la questione dell'appartenenza o della restituzione delle opere e dei reperti ai paesi di origine: "Grazie la mio lavoro ho avuto la fortuna di viaggiare in tutto il mondo e ho visto che quella che si parla è una lingua museale, una lingua internazionale, che è comune. Chi lavora nell'archeologia vive di questa collaborazione e per l'egittologia non può essere altrimenti. Ci sono gli scavi e poi c'è da ricostruire il contesto. Ed anche nella restituzione il dialogo si può intendere in due modi: una restituzione fisica a volte e imprescindibile se c'è dietro una illegalità, una sottrazione di patrimonio in ambito bellico. In altri casi la restituzione deve essere frutto di confronto e dialogo culturale. Questo porta ad un accrescimento di tutti e tutti vogliamo che questo continui ad esserci". Anche rispetto a Torino, il progetto di ingrandimento del museo risponde a questa necessità di dialogo ed apertura. Il restyling è stato ideato in vista del bicentenario della fondazione del Museo Egizio che cadrà nel ad ottobre del 2024 e per quella data, assicura Greco, tutto dovrà essere completato: "i tempi sono cortissimi, noi vogliamo essere pronti per il 6 ottobre 2024 quando festeggeremo il bicentenario. Quindi ci aspettano 20 mesi di fretta".

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Le mostre del week end, da Masaccio e Tiepolo a Bill. Viola A Rovigo la pittura di Renoir, a Torino i maestri dell'ukiyo-e


Grandissimi nomi protagonisti delle mostre che aprono in questa settimana, da Masaccio a Tiepolo, da Renoir ai maestri giapponesi dell'ukiyo-e fino a Bill Viola.

ROVIGO - "Renoir: l'alba di un nuovo classicismo", curata da Paolo Bolpagni, a Palazzo Roverella dal 25 febbraio al 25 giugno, documenta la rivoluzione creativa che interessò il famoso artista dopo un viaggio in Italia nel 1881.

Renoir infatti abbandonò la tecnica e la poetica impressionista in favore di un tratto più nitido e una maggiore attenzione alle volumetrie, nel segno di una personale forma di classicismo. Nel percorso sono esposte le opere realizzate a partire dal 1881 fino a quelle della vecchiaia.

MILANO - Riflettori su Bill Viola a Milano, con una grande mostra a lui dedicata, in programma a Palazzo Reale dal 24 febbraio al 25 giugno: a cura di Kira Perov, moglie dell'artista e direttore esecutivo del Bill Viola Studio, il progetto espositivo presenta 15 opere che coprono 30 anni di carriera.

La mostra si configura per il visitatore come un autentico viaggio interiore attraverso le profonde questioni legate alla vita, alla morte e all'ambiente che Bill Viola, riconosciuto come un genio della videoarte, esplora con immagini al rallentatore in un mix di luce, colore e suono. Dal 22 febbraio al 7 maggio il Museo Diocesano di Milano ospita la Crocifissione di Masaccio.
    L'opera, uno dei capolavori dell'artista, è oggi custodita al Museo di Capodimonte di Napoli: si tratta di una tavola un tempo cuspide del polittico realizzato nel 1426 (su commissione del notaio ser Giuliano di Colino degli Scarsi da San Giusto per la sua cappella nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Pisa), poi smembrato già alla fine del XVI secolo, nella quale Masaccio interpreta con grande umanità il dramma della Madonna, san Giovanni Battista e la Maddalena che piangono il Cristo Crocifisso.

TORINO - Una selezione di stampe dei maggiori maestri dell'ukiyo-e, quali Hokusai, Hiroshige, Utamaro, Kuniyoshi, Yoshitoshi, Sharaku, oltre ad armature di samurai, kimono, maschere teatrali, rare matrici di stampa, preziosi ornamenti femminili, sculture in pietra, stendardi: sono oltre 300 i capolavori, alcuni mai visti, che compongono la mostra "Utamaro, Hokusai, Hiroshige. Geishe, samurai e la civiltà del piacere", allestita dal 23 febbraio al 25 giugno presso la Società Promotrice delle Belle Arti di Torino. Curata da Francesco Paolo Campione, la mostra analizza l'universo giapponese attraverso un percorso tematico, suddiviso in nove sezioni.

VEROLANUOVA (BS) - La Basilica di San Lorenzo dal 25 febbraio al 4 giugno accoglie nei propri spazi i due dipinti di più ampio formato mai realizzati da Giambattista Tiepolo, appena restaurati. Esposte a pochi centimetri di distanza, le due tele monumentali, alte dieci metri per cinque di larghezza, conservate sulle pareti laterali della cappella del Santissimo Sacramento, sono state dipinte a olio intorno alla metà degli anni quaranta del Settecento su commissione della nobile famiglia Gambara e hanno come soggetto Il sacrificio di Melchisedec e La raccolta della manna.

ROMA - "Romanitas" è la personale di di Fulvio Morella a cura di Sabino Maria Frassà, dal 21 febbraio al 31 luglio al Gaggenau DesignElementi: nel percorso, pensato in occasione della XVI Giornata nazionale del braille, oltre ai quadri scultura anche una selezione di inedite opere tessili dell'artista che ha trasformato il braille in arte e stelle partendo dalla riflessione sulla Città Eterna come metafora dell'esistenza umana in bilico tra gravitas e vanitas. E' dedicata al "Vuoto" la collettiva che Cristallo Odescalchi ospita con la sua curatela fino al 4 marzo nel suo spazio "Struttura". La mostra è il secondo step di una trilogia di esposizioni che si concluderà con un quarto momento di rielaborazione digitale, per investigare le connessioni organiche presenti nella scena artistica romana contemporanea. Dal 24 febbraio, giorno in cui un anno fa iniziò la guerra tra Russia e Ucraina, prende il via il progetto dello scultore Gianfranco Meggiato con l'installazione "L'incontro. Simbolo di Pace" esposta Piazza Cavour fino al 24 marzo, a cura di Rocco Guglielmo e Alessandro Romanini. Contemporaneamente la Galleria Mucciaccia ospita la mostra "Muse Silenti", che presenta una selezione di sculture realizzate dall'artista, tra cui il modello scultoreo dell'installazione di Piazza Cavour.
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Un Kandinsky all'asta da Sotheby's

 

AGI - Un capolavoro di Kandinsky recentemente restaurato, "Murnau Mit Kirche II", sarà messo all'asta il 1 marzo da Sotheby's a Londra, insieme a un Munch e a un Kupka. Il dipinto, che misura circa un metro per un metro, è stimato 42 milioni di euro e offre una vista colorata del villaggio tedesco di Murnau.

Quest'opera del 1910 è stata a lungo nella sala da pranzo di Johanna Margarete e Siegbert Stern, fondatori di una prospera azienda tessile e membri della vita culturale berlinese degli anni Venti. Circa dieci anni fa il dipinto era stato rintracciato in un museo di Eindhoven (Paesi Bassi), dove era rimasto dal 1951. Poi l'anno scorso  è stato restituito agli eredi di Stern, che si divideranno il ricavato.

All'asta lo stesso giorno verrà battuto anche un dipinto di Edward Munch lungo quattro metri, "Danza sulla spiaggia" (1906), tenuto al sicuro dai nazisti in un fienile in una foresta norvegese e oggetto di un accordo di restituzione.

La stima è di 13-23 milioni di euro. La prossima settimana si terranno altre aste a Londra: verranno messi in vendita delle opere di Cézanne, Magritte e Picasso per un valore stimato di diversi milioni di euro.

Italiani in ricerca. A spasso con Ötzi il tatuato: un'indagine sulla preistoria


 Perché gli uomini preistorici si tatuavano? E quali strumenti usavano? Una ricerca prova a fare ipotesi a partire dalla mummia di Similaun

I tatuaggi adornano i corpi umani fin dalla preistoria. La mummia di Similaun, Ötzi, tra i più antichi ritrovamenti di homo sapiens in Europa, ne è l’esempio archeologico più conosciuto. I suoi resti, risalenti all’età del Rame (intorno al 3.250 a.C.) ma perfettamente conservati dalla densa coltre di ghiaccio che ricopriva le Alpi del Tirolo meridionale – dove furono rinvenuti nel 1991 – presentano, infatti, le tracce di una sessantina di incisioni composte da gruppi di brevi linee e da piccole croci. Si tratta dei più remoti tatuaggi fino ad oggi conosciuti. Sebbene nel mondo contemporaneo siano considerati per lo più un gesto artistico e di affermazione di sé, fin dalle origini i «tattoos» sono stati parte dei processi comunicativi di una cultura: ciò rende assai complesso il lavoro degli archeologi per stabilirne la funzione.

Circa lo scopo dei segni riscontrati su Ötzi, per esempio, non esistono conclusioni precise – ancora non si sa stabilire con esattezza se fossero praticati per esigenze terapeutiche o estetiche o, ancora, magiche – né è privo di dubbi il loro significato formale; a suscitare la curiosità degli studiosi sono tuttavia le modalità e gli strumenti con cui sono stati realizzati. Che tipo di oggetti usavano? Che forma avevano? Come funzionavano?

Una risposta ad alcuni di questi interrogativi potrebbe arrivare dallo studio sperimentale di un gruppo di manufatti scoperti in Italia, in Gran Bretagna e sulle Alpi che un archeologo di Novara, Stefano Viola, sta portando avanti dal 2021 insieme con la School of History, Classics and Archaeology della Newcastle University (il cui coordinatore, Andrea Dolfini, ha di recente sviluppato un innovativo metodo di analisi funzionale dei reperti metallici preistorici) e nell’ambito del programma europeo Horizon 2020.

Attraverso l’esame funzionale di una nutrita gamma di oggetti, soprattutto metallici e a forma di punteruolo chiamati lesine, risalenti ad un periodo compreso tra il 5.000 a.C. e il 1.500 a.C., dalle dimensioni variabili e muniti, talvolta, di veri e propri aghi più o meno lunghi e spessi, Viola punta a chiarirne il ruolo in relazione alle tecniche di ornamento corporale.

Non trattandosi di uno studio solo teorico-speculativo limitato ad un’unica disciplina ma ad un lavoro articolato e pionieristico che punta a comprendere se e quali tipi di lesine metalliche sono state impiegate nelle pratiche dei tatuatori antichi, il team di ricerca combina approcci e metodi diversi, arrivando a coinvolgere professionisti di questa antica pratica come il pluripremiato Andrea Afferni, considerato tra i dieci migliori tatuatori al mondo.

Prendendo come punto di partenza le tracce decorative presenti sul corpo della mummia del Similaun e appoggiandosi a studi archeologici, archeometrici, etnografici e antropologici, la ricerca sperimentale di Stefano Viola e dell’università inglese di Newcastle upon Tyne si articola nella riproduzione di alcuni dei possibili strumenti ad ago in metallo, in pietra e in materiali organici come l’osso, usati da chi eseguiva i tatuaggi in epoca preistorica e in un dato contesto geografico e culturale; nella loro verifica da parte di Afferni su oggetti di pelle sintetica e di maiale (supporto molto simile alla pelle umana) e sulla successiva analisi al microscopio per identificare le tracce di utilizzo e rilevare l’eventuale presenza di tinture come la fuliggine, i sali colorati, i succhi vegetali. Lo studio prevede anche la comparazione delle tracce ottenute da Afferni con quelle presenti su analoghi strumenti preistorici. «Oggi attribuiamo diversi significati ai tatuaggi ma ci sfuggono ancora molti aspetti della loro storia: questa ricerca potrebbe finalmente decifrare il senso che veniva loro attribuito nella preistoria e le modalità con cui venivano realizzati. Inoltre, potrebbe riconnettere una classe della cultura materiale del passato con il presente, valorizzando le cosiddette “living practices”».

Già collaboratore scientifico dell’università di Ginevra, dove nel 2016 ha conseguito il dottorato di ricerca, componente del Laboratorio di Preistoria, Protostoria ed Ecologia Preistorica (PrEcLab) della Statale di Milano, per il quale ha coordinato una serie di scavi nel nord Italia e approfondito il significato storico-sociale-culturale di specifici reperti ornamentali preistorici, l’archeologo entrato nel team di ricerca della Newcastle University grazie ad una prestigiosa borsa di studio Marie Skłodowska-Curie ci racconta come si è avvicinato allo studio dell’origine dei tatuaggi e, più in particolare, del possibile impiego di strumenti metallici nella creazione dei tatuaggi nella tarda preistoria.

«È un progetto a cui sono approdato studiando gli oggetti di ornamento in pietra (collane, bracciali etc.) del Neolitico, vale a dire i microvaghi, la loro composizione, la loro realizzazione e la loro relazione con le trasformazioni della società del Rame e del Bronzo, soprattutto in ambito alpino e dell’Italia settentrionale. In pratica, mentre studiavo i microvaghi in pietra o in altri materiali organici mi sono imbattuto nelle lesine metalliche in lega di rame e di dimensioni molto diverse: proprio quando ero impegnato a comprenderne il tipo di utilizzo, ecco che la scoperta, in alcune di esse, di aghi molto lunghi, mi ha fatto nascere domande scientifiche del tutto nuove». «La ricerca sui metalli preistorici presenta molte complicazioni», afferma Viola, «perché il metallo è un elemento soggetto ad alterazione e le patine che si formano (e che variano in base alle caratteristiche di un luogo di sepoltura rispetto a un altro) vanno a mutare le caratteristiche del reperto rendendone assai difficoltosa la lettura».

Imparare a leggere le tracce del passato non è un esercizio di stile: è, invece, un’operazione fondamentale per capire chi siamo e che cosa abbiamo fatto. Per questo il lavoro degli archeologi è così prezioso. «In pratica, aiutiamo a sviluppare una sensibilità sociale verso alcuni temi e contribuiamo a dare delle risposte. L’archeologia ci insegna che non si può prescindere dall’imparare dagli errori del passato, ci educa a coltivare le intuizioni e ad interpretare quelle problematiche che continuano a riproporsi chiedendoci, ogni volta, risposte differenti, originali: penso, ad esempio, alle crisi ambientali», continua. «Nondimeno, l’archeologia ci cambia nel profondo: pensiamo a ciò che può fare l’osservazione di un qualsiasi oggetto antico con finalità scientifica, anche di un semplice ornamento prodotto da una cultura estinta. L’antichità ci costringe ad osservare l’oggetto, penso ad un vaso, non come siamo abituati a fare ma in un modo inedito. Questo processo, applicato alla lettura dei fenomeni reali, economici, sociali, politici, culturali, ci porta inevitabilmente a vivere un importante cambiamento personale». Se ci sono Paesi in Europa dove l’archeologia viene compresa nella sua potenza e all’archeologo viene riconosciuto un ruolo importante nella società, in Italia – dove si registra il maggior numero di siti Unesco Patrimonio dell’Umanità al mondo – non si è ancora trovata una soluzione ad emergenze come quelle dei siti abbandonati, della carenza e della poca organizzazione dei musei, della mancanza di risorse e di personale nei luoghi di cultura e negli enti che la sopraintendono, delle opere d’arte rubate e dei manufatti trafficati illegalmente. «In Italia si fatica persino a considerarlo un lavoro, quello dell’archeologo», conclude con amarezza lo studioso, «e il volontariato continua a rivestire un ruolo essenziale in diversi ambiti della cura e valorizzazione delle ricchezze storico-artistiche. Siamo tutti responsabili del nostro immenso patrimonio culturale e trovo poco coerente per un Paese così ricco di tracce del passato lasciare chi dovrebbe operare con esso in uno stato precario, sottopagato e, soprattutto, in un perenne senso di incertezza per il proprio futuro».

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