Il paladino più appassionato della pittura di Pierre Bonnard, oggi, è certamente Jean Clair. Difficile dargli torto, dopo essere usciti dalla straordinaria retrospettiva che il Museo d’Orsay dedica al pittore francese, a cura di Guy Cogeval e Isabelle Kahn. Sì, si può fare come alcuni critici che accusarono Jean Clair di aver usato Bonnard per ribadire la sua idiosincrasia verso le avanguardie. Il saggio, non lunghissimo, che scrisse nel 1975, ripubblicato nel 2006 e poi ancora nel 2008 all’interno di una raccolta di interventi critici, era un primo frutto di quella “critica della modernità”, che Clair stava elaborando, poi riassunta in un fortunatissimo pamphlet che tenne banco all’inizio degli anni Ottanta quando si cominciò a parlare del “ritorno alla pittura” che coincise con la moda del postmoderno.
Si dice che la pittura sia un’arte che torna in auge quando si fa sul serio, e quando il mercato riprende quota. È un lusso che diventa barometro della salute economica, insomma. Ora, Bonnard è certamente un pittore del lusso. Ma non quello borghese, ché anzi dalla sua pittura traspare una certa antipatia verso questo mondo. Il lusso di Bonnard è di segno metafisico, è quello del colore che riporta la natura a una condizione dove l’ombra è quasi imprendibile e rende a sua volta i corpi e le cose un riflesso nello specchio che, con la finestra, come notava Clair, è un tema importante per Bonnard. Nel catalogo della mostra, Nicholas-Henry Zmelty scrive che Bonnard e Matisse reinventarono il motivo classico della finestra, e si potrebbe aggiungere che la finestra (e lo specchio) sono il “diaframma” tramite il quale la natura torna a essere il giardino dell’inizio, vista come il «primo mattino del mondo» scriveva Clair, cogliendo un riferimento allo sguardo di Dio che ricrea il mondo in ogni istante mentre lo guarda.
Sempre i critici avversi, insinuarono che Clair volesse usare Bonnard come arma contro Matisse. Difficile avere la meglio, questo è certo. Perché Bonnard è sicuramente un pittore puro, pur senza essere un astratto antifigurativo. La mostra si apre con un Paravento a tre ante del 1889: il fondo completamente rosso, canne di bambù e felci, uccelli di varie specie: la certezza che quest’opera raffinatissima deve moltissimo alla stampa giapponese è pari a quella su quanto il primo Matisse debba a Bonnard.
Pare che non datasse mai la sua corrispondenza, Bonnard; invece, annotava giorno per giorno con meticolosa precisione nei suoi carnets le minime variazioni meteorologiche. Era tipico di un temperamento melanconico. Matisse lo fu forse di meno? Non disse instancabilmente, per tutta la vita, che la pittura doveva suscitare la gioia di vivere, essere un’oasi per l’uomo oppresso dalle infinite brutture di questo mondo? Sempre nella prima stanza della mostra, vengono esposte alcune strepitose tempere su carta, con figure femminili in giardino (e una con una donna in vestaglia che si confonde con la natura al punto tale da essere quasi indistinguibile da essa) dove valore di superficie e valore tattile del colore si scambiano continuamente i ruoli, in un sublime artificio decorativo.
Siamo 1890 e ’91, lo japonisme domina la scena parigina dopo le esposizioni universali che hanno fatto conoscere l’arte orientale e quella dei primitivi africani e oceanici; l’impressionismo è all’apice; ma Degas aveva sorpreso tutti e scandalizzato i benpensanti nel 1886 con sette pastelli dove donne della più umile condizione sociale vengono mostrate mentre fanno il bagno, si asciugano, si pettinano. Un affondo di strepitosa bellezza. Ed è ai pastelli e all’immaginario poetico di Degas, che Bonnard s’ispira in dipinti come La siesta (1900), Donna addormentata sul letto(1899), ma soprattutto negli anni che ruotano attorno alla Grande guerra, con Nudo inginocchiato nella tinozza del 1918 (che cita esplicitamente Le tub di Degas), Grande nudo blu del 1924, e ancora nel Nudo di schiena alla toilette del 1934.
Una cosa è chiara: Bonnard si è scelto i suoi compagni di viaggio: tre, in particolare: Degas, Matisse e Redon. Ecco l’altro profeta del mondo “surnaturel” e libero da ogni preconcetto modernista. Chi ha potuto vedere la grande retrospettiva che Parigi ha dedicato a Redon nel 2011 ed è entrato in quella stanza allestita coi dipinti che realizzò nel 1911 per l’abbazia di Fontfroid (acquistata dal pittore Gustave Fayet, suo amico), si è reso conto di quale poesia del colore furono capaci alcuni artisti francesi nei primi decenni del Novecento, oltre lo stesso impressionismo, anzi negando all’impressionismo quel verbo prospettico che lo stesso Matisse smantellerà nella sua pittura fauve e poi nelle composizioni successive dalla Danza del 1909, con gli interni arabescati degli anni Dieci, fino al culmine, dopo la metà del secolo nei papiers découpés.
Fra Bonnard e Redon la sintonia è anche nella tavolozza: certi gialli e azzurri, gli arancioni e i turchese tendenti al violetto. E il viola è il colore dove il cromatismo di Bonnard scatta con una intensità che tiene insieme bellezza e malinconia, come nel dipinto, sul quale tornerà più volte nell’arco di quasi vent’anni, La terrazza a Vernon (1920-1939). Vernon, che dista pochi chilometri da Giverny, dove Monet si è ritirato per dipingere la sua “natura naturata” del giardino che ha creato per essere una macchina dell’immaginazione; poco distante, dunque, Bonnard dipinge la sua natura “edenica”. Fénéon lo aveva definitivo un Nabis «molto giapponese»: in realtà, nei Nabis Bonnard ci stava stretto, la sua pittura era “profetica” ma non simbolica come l’intese il cenacolo raccolto da Paul Sérusier. Bonnard cercava il colore-vita, il colore-sguardo, era, per certi aspetti, un neobizantino. Ne testimoniano quadri come La danza del 1912, ma anche Il Paradiso terrestre e Sinfonia pastorale, dipinti tra il 1916 e il ’20.
Col tempo Bonnard sembra voler riscuotere il suo credito col primo Matisse, e in un dipinto come Tavolo da lavoro (1926-37) ritrova quella composizione quasi bidimensionale che Matisse pensava come architettura astratta di colore, soprattutto negli interni domestici. Per giganti della pittura come questi, le analogie e le citazioni non sono mai veri furti, si tratta di stimoli amicali, di affinità elettive, di un sentire comune che rappresenta, oltre gli schematismi critici, un sentimento del colore, una visione, che li unisce come la linea di un arabesco e da Bonnard, può giungere, forse anche inaspettatamente, fino a Rothko e Barnett Newman.
Parigi, Museo d’Orsay
Bonnard
Peindre l’arcadie
Fino al 19 luglio
avvenire
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