A Palermo con Calaciura e l'inferno degli esclusi


 Diceva Cristina Campo che accusare di frivolezza i favolisti francesi perché adornano le fate di piume di struzzo significa possedere la vista, non la percezione. E solo la percezione sa riconoscere ciò che ha valore e che esiste veramente. Ora, "accusare" Giosuè Calaciura di essere uno scrittore barocco perché curva la parola oltre il suo grado di flessibilità (senza che, peraltro, si avverta uno scricchiolio) significa possedere l'udito ma non l'orecchio.
BORGO VECCHIO  (SELLERIO, PP. 134, 14 EURO) conferma, per lo stile che ancora una volta sorprende al pari dei contenuti, che questo autore è un caso a sé nel panorama letterario, come finalmente si comincia a sospettare, almeno fuori dall'Italia: i francesi hanno cominciato a tradurre i suoi romanzi a partire da "Malacarne" del '97; lo stesso sta accadendo in Germania.
    Chi ha vissuto a Palermo negli ultimi venticinque anni sa quanto sia difficile raccontare la città: è come andare dallo psicanalista accompagnati dai genitori, tanto è invasiva la presenza delle cosiddette istituzioni che pretendono di dare l'interpretazione autentica dei processi sociali e culturali, spalleggiate dalla "società civile", evidentemente ignara del fatto che una volta operata la frattura scompare il concetto stesso di società.
    Borgo Vecchio, che dà il titolo al libro, è un quartiere reale dove accade ancora oggi che uomini e pecore dividano lo stesso giaciglio, come documentava sessant'anni fa Danilo Dolci in un'altra zona di Palermo, Cortile Cascino. Bisogna voler male alle parole per dire che la città è molto cambiata rispetto a quel tempo, come capita di leggere e di sentire. Borgo Vecchio è a ridosso del porto e non dà nell'occhio quanto a degrado apparente - in certi scorci, anzi, la vista ne può trarre conforto, ma la percezione produce esiti ben diversi. Lì vivono i compagni di scuola Mimmo e Cristoforo, la prostituta Carmela e sua figlia Celeste. Lì vive Totò, che non aveva "intelligenza di commercio ma solo di rapina", lesto di grilletto e di gambe, che sfreccia per i vicoli ("a misurare la distanza dal mondo") sfiorando appena le basole con le suole lisce delle sue scarpe, come se l'attrito fosse una forza irrilevante. Borgo Vecchio è il luogo che "la città del privilegio" ha adottato come porto franco dell'illegalità comoda e leggera: lì si andava (e si va a ancora) a fare la spesa di notte, perché in barba alle regole dell'annona, i negozi allungavano l'orario a piacimento; in passato si andava il mercoledì pomeriggio - nei tempi in cui lo Stato pensava di vigilare sui commerci - muovendosi dalla città bene, cento metri più a ovest, dov'era vietata la panificazione; lo era anche al Borgo Vecchio, beninteso, ma nessuno, neanche il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, riuscì a far rispettare la legge ai panettieri.
    A proposito di legge, Calaciura sembra porre una questione non di poco conto: che cos'è la norma in una realtà dove non funziona niente? La risposta potrebbe arrivare per sottrazione: non è un deterrente (si continua a delinquere); non è una punizione (nei termini in cui è descritto il quartiere, il carcere potrebbe persino proteggere dalla violenza del contesto). La categoria che più si avvicina alla legge è il caso. Totò il rapinatore è sì un delinquente, ma è principalmente la cavia della legge, che dà l'illusione alla società (civile?) di vivere nel migliore dei mondi possibili, di confinare l'impresentabile nell'enclave del Borgo. Nel quartiere vivono la loro clandestinità uomini, donne, cavalli, oggetti: la pistola di Totò, custodita nella calza che fa da fondina, è una co-protagonista del romanzo e contende il suo primato al coltello. Mostrando l'arma Totò spiega ai suoi amici che "fa più paura del coltello, non promette colluttazioni né discussioni, se c'è la pistola non c'è altro da aggiungere". Tutto tende all'irreparabile, come sembra predire il ritratto della Madonna del Manto, una sorta di Tiresia, indifferente agli "anticipi di paradiso" offerti dalla prostituta ai propri clienti. (ANSA).

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