L'aeromante era un antico indovino che prediceva il futuro attraverso il vento: lanciava in aria dei semi e interpretava i loro movimenti come un linguaggio. Nick Hunt, ecologista trentasettenne di Bristol appassionato di viaggi a piedi preferibilmente su sentieri non tracciati, con una parafrasi definisce se stesso un aere-amante: ha deciso di camminare lungo le rotte di alcuni venti europei per farsi travolgere dal loro impetuoso abbraccio, approfittandone per conoscere luoghi a lui sconosciuti, per incontrare scrutatori di cieli, per collegare diverse culture con richiami non solo geografici ma storici, scientifici, artistici.
Da questi viaggi stravaganti, compiuti con francescana semplicità di mezzi, è nato un libro sorprendente e incantevole: Dove soffiano i venti selvaggi (Neri Pozza, pagine 297, euro 17,00), suddiviso in quattro capitoli dedicati rispettivamente a Helm, Bora, Föhn e Mistral, che nel racconto diventano personaggi pieni di vita, non per nulla è dalla parola greca per vento, cioè ànemos, che deriva il termine “anima”, così come lo “spirito” deriva dal verbo “spirare”, che è il respiro del vento. Non per nulla Hunt ha iniziato il suo percorso da Atene, visitando la Torre dei venti, costruita duemila anni fa dall’astronomo Andronico di Cirro.
È andato a cercare le più antiche raffigurazioni dei venti?
«Per gli antichi i venti erano dèi, e avevano un nome proprio. Nella Torre sono raffigurati come uomini alati con oggetti simbolici che evocano il loro potere, ma nello stesso tempo la rosa dei venti era uno strumento scientifico, che rappresentava le varie direzioni dei venti, utilizzato nella navigazione. È stato il mio punto di partenza perché volevo che anche il mio libro riunisse i vari aspetti che riguardano i venti, dalle caratteristiche scientifiche e geografiche alle interpretazioni artistiche, ai ricordi storici».
Munito di uno zaino, una tenda, un sacco a pelo, una bussola, un pezzo di lana da usare come manica a vento, un abbigliamento essenziale e uno smartphone, ha iniziato il viaggio dal suo paese, l’Inghilterra, mettendosi sulle tracce dello Helm, un vento che infuria sulla dorsale dei Monti Pennini imbottigliandosi
sulla cima più alta, il Cross Fell, per precipitare giù dai pendii occidentali con forza tale da scoperchiare le case e sollevare le pecore.
«Prima di salire su quelle cime impervie aspettavo di vedere il segnale rivelatore dello Helm, una nuvola che sotto è piatta e somiglia a un elmo, da cui il nome del vento. Però non compariva, e per avere pronostici oltre che ai pareri dei meteorologi locali mi affidavo a quelli di Teofrasto, allievo di Aristotele, che nel suo trattato Meteorologica prediceva l’arrivo di un vento forte dal rotolarsi dei cani per terra e dalle uscite tappate delle tane dei porcospini. Ma fu inutile: Helm non si presentò e scrissi il primo capitolo del mio libro ammettendo il fallimento. Per fortuna, appena prima di andare in stampa, fui avvertito che la fatidica nuvola si era presentata: feci in tempo a recarmi all’appuntamento e ad aggiungere un epilogo al mio libro, in cui ho raccontato di essere stato preso a cannonate dallo Helm.»
La seconda tappa l’ha portato prima in Italia, a Trieste, e poi in Slovenia e Croazia.
«È stato il viaggio più ricco di contrasti, sia paesaggistici, perché si passa rapidamente dal languore del mare all’asprezza delle montagne, sia per la diversità delle persone incontrate. A Trieste si percepisce un’atmosfera malinconica, sognante, lacerata dalla forza della Bora, e la gente mi sembrava trovare un equilibrio nel barcamenarsi tra l’una e l’altra. La Bora ispirò a Joyce, e non stupisce perché “spirare” e “ispirare” hanno la stessa radice, un abbozzo di preghiera: “O Vago Qualcosa che sei dietro tutte le cose!”. Nelle Alpi Dinariche, in Croazia, ho vissuto l’esperienza più terrificante: mi sono perso in un bosco innevato, senza sentieri, mentre la montagna ruggiva come un mare in tempesta. Sono stato salvato quando ormai disperavo, da un montanaro che mi ha scortato fino a un rifugio dove poi bevemmo troppa rakija, il letale liquore locale.»
Se come poeta della Bora ha citato Joyce, chi citerebbe come poeta del vento successivo, il Föhn?
«Sicuramente Hermann Hesse, che nel suo romanzo di formazione Peter Camenzind dedica molte pagine alla descrizione del Föhn, “quel ribelle eternamente giovane, quell’insolente e pugnace apportatore di primavera”. Il Föhn ha avuto un ruolo nella storia svizzera, al tempo del leggendario eroe Guglielmo Tell che era stato arrestato e incatenato su un battello sul lago di Uri per essere portato in prigione. Durante la traversata si mise a imperversare il Föhn, la barca rischiava di rovesciarsi e allora liberarono Tell perché era un esperto navigatore. Lui portò in salvo il battello ma poi si gettò nel lago arrivando a riva a nuoto. C’è un affresco che illustra l’episodio nella chiesa di Burglen. Tutto il Paese vive del mito dell’eroe dell’indipendenza svizzera, c’è anche un gigantesco carillon che suona l’ouverture del Guglielmo Tell di Gioacchino Rossini.»
L’ultima tappa del viaggio l’ha portata nella valle del Rodano: cercando il Mistral ha seguito in parte il cammino verso San Giacomo di Compostela?
«Sì, me ne accorgevo dagli adesivi azzurri con la conchiglia gialla disseminati sul percorso, ma la mia meta era la misteriosa desertica steppa della Crau, chiamata “Casa dei venti” e descritta del più noto poeta locale, Frédéric Mistral, vincitore del Nobel nel 1904, che voleva riportare in auge la Lingua d’Oc, come “nuda, desolata, l’accidentata di pietre, l’antica, la sterminata”. Lì, più che in qualunque altro posto, si rivelava lo scopo del mio viaggio. Avevo colto il vento all’aperto, dove nessuno dei due poteva nascondersi. Rimasi là abbastanza a lungo da abituarmi al suo rumore nelle orecchie, al suo fresco attrito sulla pelle, finchè mi sembrò il modo in cui il mio corpo si era sempre sentito».
da Avvenire
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