Antico e moderno accostati per sondare la loro reciprocità. Una mostra intrigante a Palazzo Fortuny
Thomas Hirschhorn, «Beyond ruins», 2018
Nella penombra della grande sala di ingresso i faretti sono puntati a terra per illuminare quella che appare come la ricostruzione in miniatura di una antica città in rovina che fuoriesce dall’acqua. Forse vuole essere ciò che rimane di una città ideale, come la Repubblica di Platone, l’Utopia di Thomas More, La Città del sole di Tommaso Campanella e la Nuova Atlantide di Bacone. È innanzitutto una metafora, una Ars memoriae come ne hanno sognato tanti utopisti e poeti. Memoria generatrice e genetica, che per esistere ha bisogno del suo opposto, l’oblio. Una memoria senza oblio, che conservasse tutto, sarebbe un’ipotetica immagine infernale. L’impegnativa e complessa opera di cui parliamo ha per titoloCostruction IV (19751978) ed è stata realizzata da Anne et Patrick Poirier. A essa è stato affidato il compito di introdurre la mostra Futuruins allestita a Venezia, nelle stanze di Palazzo Fortuny, a cura di Daniela Ferretti, Dimitri Ozerkov con la collaborazione di Dario Dalla Lana. L’ampia esposizione nasce dalla collaborazione tra la Fondazione Musei Civici di Venezia e l’Ermitage di San Pietroburgo da cui provengono 80 delle oltre 250 opere selezionate per affrontare i temi del senso e dell’estetica delle rovine. Ricorrendo a reperti e manufatti risalenti all’antichità fino a giungere ai lavori più recenti di artisti contemporanei, la mostra intende cioè riflettere su quella che è l’allegoria dell’inesorabile scorrere del tempo, sempre incerta e mutevole, contesa com’è tra passato e futuro, vita e morte, distruzione e creazione. La rovina simboleggia la presenza del passato, ma contemporaneamente contiene in sé la potenzialità del frammento: un lacerto che ci arriva da tempi remoti, ricoperto dalla patina degli anni, per i suoi risvolti culturali e simbolici diventa anche valida 'pietra di fondazione' per costruire il futuro. Il reperto ci ricorda anche la forza simbolica della pietra, insita nella sua durezza e peso, tanto più in contrapposizione alla fragilità e alla debolezza del corpo umano che tuttavia anch’esso, alla fine, diventerà, con lo scheletro, una 'rovina'. Le opere sono state selezionate con l’intento di soffermarsi sui molteplici significati assunti dalle rovine attraverso i secoli, dai resti scultorei delle civiltà greco-romana, egizia, assiro-babilonese e siriana, all’arte di oggi che guarda alle rovine fisiche e morali della società attuale. Rovine delle sue architetture, di città e periferie, ma anche di uomini e idee, a causa del tempo, dell’incuria, della degenerazione, di tragedie naturali o politiche, come guerre e terrorismo. Immenso è dunque il serbatoio di opere, reperti, materiali da cui la mostra attinge. Lo fa con totale libertà e con eclettica disinvoltura (in mostra sono esposte anche foto dell’Ufficio Tecnico del Comune di Venezia) contaminandosi con la già ricchissima dotazione di lavori di Palazzo Fortuny. È come se il passato perdesse ogni spessore, non apparendoci più come una stratificazione a diversi livelli di profondità e di lontananza, ma si presentandosi tutto in superficie come la sequenza di un film. Le immagini si collocano una dopo l’altra, una accanto all’altra, come sabbia di clessidra che alternativamente dà corpo al passato e al futuro. Ciò che pare di avvertire transitando tra queste opere è essenzialmente la tensione di un presente che assorbe energia da un tempo policentrico. Ciascuna opera è un’anamnesi, memoria di una condizione anteriore che il desiderio traspone al presente come modello di una possibilità futura; l’opera perciò 'turba il passato' e si dà a sua volta come oggetto 'perturbante' in quanto ci parla di cose che oscuramente sentiamo come familiari, ma ce le restituisce in una forma inattesa, in qualche misura straniata e straniante. Dunque accanto a numerosi reperti archeologici si incrociano le opere di alcuni maestri del passato quali Jacopo e Francesco Bassano, Parmigianino, Veronese e degli autori classici del genere rovinistico, da Pannini a Piranesi, dagli Alinari a Monsù Desiderio, da Caspar David Friedrich a Ippolito Caffi fino ai capolavori di de Chirico e Savinio per arrivare a quelli di Burri, Rotella, Dubuffet, Ghirri. Grande attenzione è riservata alla ricerca italiana più recente e agli artisti che costituiscono i suoi punti di forza rappresentati da Paola De Pietri, Fabrizio Prevedello, Elisa Sighicelli, Ludovica Carbotta per i quali le forme del passato sembrano esercitare un particolare fascino. La necessità della memoria è uno degli aspetti caratterizzanti la loro riflessione creativa che si presenta come una vastissima regione solcata da una quantità di percorsi che non segnano una via, ma vogliono tenacemente percorrere. Sono viandanti che mettono in luce come le rovine possono essere un’eredità gravosa, un monito paralizzante, un memento mori che ci ricorda che tutto è vanità; così come, al contrario, la loro presenza può essere uno stimolo a riscoprirne il messaggio, rinnovando la loro capacità di generare senso
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