Era il 13 febbraio 1919 quando gli italo-albanesi d’Italia, residenti in Calabria e Basilicata, si videro per la prima volta raccolti nella giurisdizione ordinaria di un vescovo cattolico della propria tradizione ecclesiale. Era nata, così, l’Eparchia di Lungro, che riuniva “comunità disperse in varie diocesi tradizionali sotto un unico coordinamento che avesse competenza in ambito linguistico e liturgico”, come ricorda il prof. Gaetano Passarelli, già docente di Spiritualità orientale all’Istituto Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum e di Liturgia bizantina al Pontificio Istituto Orientale e autore per Graphe.it di “La visita di Giovanni Mele ai paesi arbëreshë di Calabria e Lucania nel 1918”.
La figura di Giovanni Mele
Molto si deve alla figura di questo sacerdote in cui la Santa Sede, a partire da Papa Benedetto XV, riponeva grandissima fiducia: spiritualmente e culturalmente preparato, fu inviato in quelle terre per redigere una relazione sulle condizioni sociali e religiose in cui vivevano quelle comunità, arrivate nel sud Italia ben 350 anni prima. L’intento della missione era ovviamente ecumenico: “Mele farà da collante alle comunità arbëreshë – sottolinea Passarelli – di ogni paese descriverà la situazione geografica e sociale, evidenziando particolari sacche di analfabetismo nella popolazione e addirittura i libri liturgici usati dai sacerdoti, per dimostrare agli ortodossi che in Italia i cattolici bizantini potevano mantenere la propria identità”.
La decisione di erigere una nuova diocesi: nasce l’Eparchia di Lungro
Lungro già da tempo aveva iniziato a essere una tappa importante del cammino ecumenico che univa Roma a Costantinopoli, così fu abbastanza naturale istituire lì un coordinamento diretto delle comunità disperse, che si occupasse primariamente della formazione del clero. “Gli albanesi erano stati inizialmente accolti dalle comunità locali – ricorda il prof. Passarelli – ma in un secondo momento ci fuorono difficoltà per quegli ‘strani riti’ officiati. Poi ci si metteva anche la lingua diversa a creare incomprensioni e la concorrenza nella attività di pastorizia cui erano dedite entrambe le comunità…”.
vaticannews
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