Mistico e sognatore, iconoclasta poi nella tradizione protestante della “non rappresentazione” della realtà, al Museo Marmottan si studiano i suoi inizi e i suoi rapporti col realismo olandese
Piet Mondrian, “Mulino al tramonto” (1907-1908)
Avvenire
Secondo alcuni il “genio” degli olandesi è il loro pragmatismo. E il pragmatismo è funzionalità adeguata allo scopo col minimo costo. È efficienza, economia e ricchezza. La prima multinazionale al mondo fu olandese, la Compagnia delle Indie Orientali; con le loro navi gli olandesi governavano il commercio in gran parte del globo e fecero del Seicento un Secolo d’Oro, rispecchiandosi nei quadri dipinti dai loro pittori. Si sa anche che quella ricchezza era in parte sostenuta dalla tratta degli schiavi fra Africa e Americhe, e va nondimeno ricordato che le navi negriere degli olandesi erano le più confortevoli per gli schiavi: non per senso umanitario, ma per la ragione pratica che meglio alloggiava la mercanzia umana durante il viaggio in mare, meno ne morivano e quindi l’investimento economico era salvaguardato da perdite evitabili.
Detto questo, vedendo la mostra che il Museo Marmottan di Parigi – il Sancta Sanctorum di Monet – dedica alla pittura di Mondrian prima della svolta astratta e “neoplastica” (fino al 26 gennaio) mi sono venute in mente le immagini del Seicento olandese ma anche quelle di New York. Qui Mondrian trovò la morte nel 1944 per malattia, all’undicesimo piano di un ospedale. E qui aveva avviato una nuova fase della sua pittura di linee e zone colorate, come nel quadro NewYork City del 1942: un reticolo irregolare di linee gialle, rosse, blu, nere, su fondo bianco, e in Broadway Boogie-Woogie dipinto a cavallo tra il 1942 e il 1943, cui si aggiungono nel reticolo altri quadratini colorati.
Pensavo a New York anche se ora a Parigi non c’è, ovviamente, nessun quadro di quel periodo (o meglio, la mostra si chiude con la Composizione con grande piano rosso, giallo, nero, grigio e blu del 1921, dove già la svolta linguistica è compiuta). Qui si studiano gli anni che precedono la messa a punto del suo linguaggio canonico e di solito quando ancora un artista va cercando se stesso e la propria espressione, è lì che si possono scoprire opere che vivono di una libertà strana, mai più trovata dall’artista, perché siamo nel regno del “già e non ancora”. Per me sono due: L’albero grigio del 1911 e Composizione: alberi II del 1912-1913, dipinti dove si potrebbe dire, parafrasando un libro che ebbe qualche anno fa troppo successo per nulla, che assistiamo alla scomposizione di uno o più alberi in una orchestrata sinfonia di cinquanta sfumature di grigio. Gesto, segno, struttura, colore: c’è tutto, ancor prima che il cervello, l’occhio e la mistica visiva prendano il sopravvento nelle celebri griglie.
Disse una volta Gertrude Stein che Picasso divenne un grande colorista soltanto dopo aver affrontato una fase di pittura grigia, perché questo è il colore – o non colore – più difficile da dipingere. E sempre la Stein, in tutt’altro contesto, disse che gli americani erano i “materialisti dell’astratto”. E dove potrebbe prendere forma questa affermazione se non a New York, dove Mondrian finì i suoi giorni? Quella città-delirio che deve il suo miracolo – secondo Rem Koolhaas – alla famosa griglia ortogonale, che discende dalle centuriazioni romane, unita alla totale libertà di espandersi in altezza. Risultato? Congestione totale. Che significa da un lato sfidare il cielo (e la sua metafora: Dio), dall’altro porre davanti a tutto il denaro e la potenza. Un mito babelico e prometeico insieme.
Mondrian era cresciuto in una cultura calvinista, ma in un primo momento tende a separarse, per poi affermarla una volta raggiunta la completa sintesi della “non rappresentazione” (un tema che dura fin dall’iconoclasmo protestante, che ha a sua volta radici nelle dispute, anche sanguinose, dei cristiani del primo millennio). Il capitalismo è il pragmatismo economico aggiornato ai nostri tempi ma in definitiva perfettamente conciliabile con la mentalità olandese di ieri e di oggi (vedi i dibattiti delle associazioni olandesi pro-eutanasia come soluzione economica e pragmatica ovvero come distillato finale della mentalità capitalista di fronte ai costi di u- na popolazione sempre più anziana). La congestione, a un dato momento, trova anche le sue regole per la sopravvivenza. Perché penso a questo mentre a Parigi vogliono mostrare da dove Mondrian sia partito per arrivare all’astrazione e alla purezza della pittura?
Intanto si deve dire che questa esposizione è stata possibile perché il Museo francese ha trovato il consenso del Kunstmuseun Den Haag a prestare un gruppo cospicuo di opere della sua collezione, nata dall’iniziativa di Salomon B. Slijper. Come si capisce dal nome, Slijper era di origini ebraiche e negli anni divenne il più importante collezionista di Mondrian. Si deve dire, e lo stesso Mondrian lo ricorda a Slijper nelle sue lettere, che il pittore ebbe alcuni anni di vita grama, e per sbarcare il lunario andava al Rijksmuseum a dipingere copie dei quadri tipici del Secolo d’Oro.
Alcuni dipinti esposti datano dal 1891 (una Natura morta con lepre morta) al 1913, ma gli anni in cui Mondrian lotta per sopravvivere sono quelli fra il 1915 e il 1920, quando già è un pittore dotato di una tecnica molto solida e raffinata. Slijper lo aiuta e gli compra le opere “figurative”. Ma mentre lui si fa suo mecenate, Mondrian non ha riguardo a rivolgersi all’amico manifestando i propri pregiudizi antisemiti. Wietse Coppes e Leo Jansen ricordano nel catalogo della mostra che il padre di Piet era un seguace del pastore protestante e politico Abraham Kuyper, che scrisse pagine di profondo antisemitismo. Alla fine dell’Ottocento, quando il giovane Mondrian si forma, l’antisemitismo, pur senza la veemenza di altri paesi europei, era molto diffuso in Olanda, come una sorta di ossessione contradittoria «fondata su angosce a carattere religioso, sociale, economico o politico». Angosce che certamente Mondrian doveva ancora vincere dentro di sé, come si percepisce dello sguardo con cui si ritrae nel 1908 ripetutamente e, in quello stesso anno, nei ritratti di giovani donne che ci guardano con una fissità inquietante presa dentro colori dalla trasparenza di crisalidi.
Le prime opere di Mondrian sono nel solco del realismo lirico postimpressionista; ritratti e paesaggi dove già la pennellata si mette in luce per una propria forza strutturale e una ritmicità (come in Pascolo con vacche del 1902-1905 e Giovenca bianca e marrone nella campagna, 19041905). Il colore e la pennellata infatti hanno sempre in lui una prevalenza sul fattore emotivo, come nella bella tela del Bosco di salici sul fiume Gein del 1902-1904. La forza quasi informale dei questa pittura dice proprio una sorta di contemptus per la realtà nella sua apparenza: tutto deve trasfigurarsi in colore, luce, struttura, come La stazione Geinrust nella nebbia del 19061907, portando sulla tela il riverbero interiore dell’artista che vuole dissolvere le forme reali per riportarle a una manifestazione più vera, strutturale, profonda.
Dal 1909 in poi i quadri di Mondrian diventano sempre più squillanti di colori; la scomposizione abbraccia anche la tecnica puntinista, come nelle tele di chiese, fari, mulini, alcuni eseguiti nel soggiorno zelandese, ma è soltanto quando arriva a Parigi e frequenta il mondo delle avanguardie che capisce che se vuole raggiungere il punto più remoto della propria interiorità (una sorta di “origine”) deve rinunciare a tutto ciò che il mondo gli offre. Ormai la figurazione è soltanto il riflesso, il doppio insignificante della realtà. In Stazione a Duivendrecht del 1916, gli alberi e l’edificio specchiandosi sulle acque del fiume creano una continuità sulla tela con pause e ritmi ripartiti fra le due metà verticali del quadro che, a vedere bene, è già un progetto di scomposizione che aspetta solo di essere iconoclasticamente purificato nel segno.
da Avvenire
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