Osservatore Romano
Si è appena chiusa la “mostra dell’anno”: Raffaello 1520-1483 alle Scuderie del Quirinale. Un anno “Sanzio” bisestile e funesto nel quale abbiamo vissuto e continuiamo a vedere cose e situazioni inimmaginabili, impensabili anche nei film di fantascienza più avveniristici.
La mostra delle Scuderie su Raffaello è stata “la” mostra di questo anno e mi piace sottolineare i tanti lati positivi di questa iniziativa. Emblema di come si è saputo, incredibilmente e con tenacia, affrontare la pandemia, la chiusura, la riapertura contingentata e “a tempo” (5 minuti per ogni sala) ed essere un successo comunque, nonostante tutto. Oltre 150 mila presenze — forse meno visitatori di quanti auspicati in fase di organizzazione, ma uno strepitoso risultato considerata la situazione — negli ultimi giorni apertura 24 ore su 24, senza chiusura, a gruppi di dieci persone ogni 5 minuti fino alle 22.30 del 30 agosto scorso.
Ho avuto il privilegio di essere invitata all’ultima visita (in qualità di ente prestatore e di membro del Comitato scientifico) e ripercorrere le sale del sobrio, elegante ed efficace allestimento. Mario De Simoni e Matteo Lanfranconi mi hanno voluto accanto a loro a chiudere questa mostra fantastica insieme a tutto l’operoso staff delle Scuderie del Quirinale. In quell’occasione ho capito ancora meglio lo sforzo e la passione messi da parte di tutto il gruppo, l’abnegazione e la volontà di andare avanti, che rappresenta lo specchio dell’attitudine che tutti noi che operiamo nel mondo dell’arte e dei musei (e non solo la nostra categoria) abbiamo in questo momento così anomalo per tutto il pianeta.
Una mostra che in tanti non hanno voluto perdere proprio perché emblema di tale caparbia attitudine. La mostra ha avuto il merito di presentare il “divino” Raffaello, l’artista universale nella formula au rebour (a ritroso), partendo dal mito e dalla morte per arrivare alle fasi giovanili e alla formazione. Un’idea geniale e pratica che è risultata vincente per il grande pubblico. Una esposizione che ha condiviso tanti capolavori, ma anche la visione globale di Raffaello.
Con essa è stato possibile ricordare, ribadire e rendere ben evidente a questa nostra generazione, dai più giovani ai visitatori di ogni età che in numerosi l’hanno visitata, che Raffaello è un artista universale: ottimo universale, come appunto descritto da una felice espressione vasariana e come è stato ribadito da Silvia Ferino Pagden, coordinatrice dell’iniziativa.
Raffaello maestro impeccabile, raffinato ritrattista di figure vive e penetranti, dedito al suo lavoro e modello di organizzazione delle attività collettive nel rispetto delle singole personalità; simbolo della nostra nazione italiana, così creativa e geniale, ma anche figura sovranazionale e unica per la complessità del suo essere. Le opere in mostra, provenienti da tante collezioni sparse nel mondo, ne sono una ulteriore e tangibile testimonianza.
Come è stato ricordato da Papa Francesco nel gennaio di quest’anno, rivolgendosi agli ambasciatori di tutto il mondo accreditati presso la Santa Sede, il divino di Urbino deve essere un modello da guardare, da emulare e diffondere perché figlio di quel Rinascimento che è stato un’epoca non priva di difficoltà ma animata da fiducia e speranza, e attraverso di lui riscoprire lo stesso spirito di apertura che ha reso tutto più bello in storia, arte e cultura.
Quindi Raffaello come “modello”, figura da emulare non solo per la sua personalità, per il suo genio creativo e artistico, ma anche e soprattutto per quei valori fondamentali che in tutta la sua vita e professione ha portato avanti: primo fra tutti quello della tutela, attenzione che ancora di più ha sviluppato nel 1515 a seguito dell’incarico di Commissario alle Antichità che Leone x gli chiese di svolgere e, dal 1519, con la redazione della celebre lettera a quattro mani con Baldassarre Castiglione allo stesso pontefice Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico.
Questo aspetto fondamentale del genio raffaellesco, che era stato così ben evidenziato nelle prime sale della mostra delle Scuderie del Quirinale, è ribadito, con una volontà di condivisione e divulgazione, in una piccola ma significativa mostra romana, curata dalla valente Ilaria Sgarbozza, che si è aperta il 17 settembre scorso: «La lezione di Raffaello. Le antichità romane».
Non è un caso che l’iniziativa è stata valutata degna del patrocinio ministeriale delle importanti celebrazioni raffaellesche dal Comitato Nazionale di Raffaello. Ad indirizzare la decisione del Comitato — presieduto da Antonio Paolucci — è stata anche la scelta di averla nel complesso di Capo di Bove sulla Via Appia Antica, luogo preposto dalla Soprintendenza italiana e dall’Ente Parco dell’Appia Antica a sede dell’Archivio e delle memorie di Antonio Cederna, figura che ha portato avanti battaglie su quei valori di attenzione, salvaguardia e tutela che avevano origine proprio dalla Lettera di Raffaello e Castiglione e da quel felicissimo momento storico vissuto prima della sua morte.
La raffinata iniziativa della Sgarbozza, e del comitato organizzatore, ruota tutta intorno a Raffaello quale “modello” da seguire, non solo per il suo estro, ma anche e soprattutto per l’attenzione seria e approfondita che aveva verso “l’Antico” e intorno al valore, alla percezione e alla divulgazione nei secoli della Lettera a Leone x.
Su queste pagine avevo scritto, in occasione dell’anniversario del 6 aprile scorso, che per conoscere Raffaello bisognava visitare la mostra “ammiraglia” organizzata dall’Italia e venire in Vaticano. Questa cosa la penso ancora, e le preziose raccolte murarie e le collezioni mobili vaticane, imprescindibili per una piena comprensione dell’Urbinate, sono ancora qui, custodite nelle mura vaticane e ancora più accessibili grazie alle tante novità, di restauri e di allestimenti, presentate in questo anno di celebrazioni.
Ormai chiusa la mostra delle Scuderie del Quirinale in questi prossimi mesi del 2020, per comprendere Raffaello bisognerà, quindi, venire in Vaticano ma anche fare una bellissima passeggiata sulla Via Appia Antica, fino al complesso di Capo di Bove.
di Barbara Jatta
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