La mostra di Robert Breer alla Fondazione Antonio Dalle Nogare, Bolzano - Fondazione Antonio Dalle Nogare
Sembrano versioni in miniatura del “panettone” di Enzo Mari ma i Floats di Robert Breer sono esattamente l’opposto del paracarro di cemento (creato dal designer dieci anni dopo). Come piccoli animaletti queste sculture si muovono seguendo orbite imprevedibili, urtandosi e riprendendo il loro cammino. Nella sua versione gigante l’Osaka, creato per una installazione nel padiglione americano all’Expo del 1970, è un oggetto ingombrante, misterioso e impacciato, una specie di ordigno alieno da B-movie. L’elemento ludico ricorre nei lavori dell’artista americano, considerato tra i pionieri delle tecniche di animazione cinematografica, a cui la Fondazione Dalle Nogare a Bolzano dedica la prima retrospettiva in una istituzione italiana.
La mostra, a cura di Vincenzo de Bellis e Micola Brambilla e aperta fino al 5 gennaio, raccoglie un’ampia selezione di dipinti, film sperimentali e sculture realizzati dai primi anni 50 fino al 2011, anno della scomparsa. Figlio di un importante ingegnere della Chrysler, Breer si accosta alla pittura astratta per poi dedicarsi all’animazione, sviluppando presto una tecnica di montaggio serratissimo che bombarda lo spettatore di immagini. Presto, all’inizio con l’aiuto di Jean Tinguely, avvia la produzione di oggetti dotati di meccanismi, prima messi in moto dallo spettatore e poi autonomi: questi ultimi possono assumere molte forme, dal “porcospino” al ”tamburo, dalla colonna di Borne ai "panettoni".
Le forme sempre più essenziali che assumono queste sculture sembrano far rientrare Breer nel gruppo minimalista. In realtà la parentela dada e Fluxus è molto più forte – il che spiega perché Donald Judd si sia espresso in modo piuttosto netto su Breer. Anche il volume più semplice ha sempre in sé un patina di imprecisione, una sorta di inquietante tenerezza (le sculture di Breer rientrano nella grande categoria della cultura americana che è il freak), una tecnologia low-fi lontanissime dall’oggettività e dalla massa dei minimalisti.
Per comprendere davvero il lavoro di Breer bisogna però passare per la produzione video. A colpire è soprattutto la qualità “musicale” dei film, costruiti come una partitura visiva, secondo i principi della nuova musica. Non a caso Fistfight (1964) – dove per la prima volta l’artista adotta un montaggio al limite del subliminale – scorre in parallelo alla performance di Originale di Stockhausen, alla cui prima newyorkese Breer aveva partecipato come cameraman all’interno di un cast che vedeva tra gli altri Allan Kaprow, Nam June Paik, Charlotte Moorman e Allen Ginsberg.
Proprio Stockhausen, che appare nel fotogramma di apertura, aveva parlato per la partitura di «momenti autosufficienti legati in base al loro grado di intensità, alla loro durata, densità, quoziente di rinnovamento, sfera di influenza, attività, simultaneità, sequenza». È il modo con cui Breer imposta le sue sequenze, pausate da momenti di nero/ silenzio. Del tutto assente una narrazione, anche non lineare. Anche le sue sculture mobili allestiscono delle coreografie basate sull’impredicabilità propria dell’estetica di John Cage, dove è il caso il principio che determina le direzioni della composizione. Performance lentissime (altra caratteristica cageana), esattamente all’opposto dei film: ma in entrambi i casi l’esito è portare il tempo al limite della percezione.
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