"Underland. Un viaggio nel tempo profondo" di Robert Macfarlane

 

Ci sono voluti quasi dieci anni allo scrittore, critico letterario, insegnante all’Emmanuel College di Cambridge, padre e viaggiatore Robert Macfarlane (Oxford, 1976) per scrivere il suo ultimo "Underland. Un viaggio nel tempo profondo" (Torino, Einaudi 2020, traduzione di Duccio Sacchi). Dieci anni per addentrarsi nel ventre della terra, alla ricerca degli incontri tra natura e passaggio umano. Dieci anni di domande e ricerche per indagare quel che c’è sotto un mondo che preferisce guardare in alto — perché sopra stanno i forti, i vincenti, e sotto gli sconfitti — con una prosa che a tratti si fa poesia; con una luce che a tratti si fa veramente flebile, specie quando il lettore viene fatto scivolare in una presa quasi claustrofobica. Introdotto anche questa volta dal maestro delle copertine Stanley Donwood (e i Radiohead potrebbero esserne la degna colonna sonora), il libro di Macfarlane srotola un viaggio che pone domande radicali. Affidandosi a guide che sono tanto operatori e studiosi, quanto letterati e poeti (così preziosi i libri con gli indici analitici); tra antichi miti e turismo di oggi; tra i fiumi sotterranei scavati nel calcare dell’altopiano del Carso, le viscere di Parigi e i rifiuti nucleari sepolti in Finlandia in un nascondiglio dai troppi significati, il viaggio — tripartito tra vedere, nascondere e infestare— è l’occasione per riflettere sull’instabilità del tempo e dello spazio, sulla relazione tra l’uomo e la natura. Su quel che pare eterno, ma invece è spesso così fragile. Un libro fitto come la pioggerella impalpabile che finisce per bagnarci tutti, quasi invisibile eppure capace di arrivare al profondo di ciò che siamo. Che siamo stati e che potremmo, in futuro, essere.

di Giulia Galeotti

Osservatore Romano

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