La mostra. Così gli ebrei trovarono cittadinanza con le sinagoghe e i cimiteri


Esposte al Museo italiano dell’ebraismo di Ferrara testimonianze dell'identità israelitica nelle architetture di alcune città italiane. Una storia che risale alle lotte per l’emancipazione

Alcune delle pagine più intense scritte sui cimiteri ebraici si devono a un polemista francese di idee anarco-socialiste, Bernard Lazare, che morì a trentotto anni nel 1903. Definito da Charles Péguy una sorta di profeta, mente tra le più lucide nella Francia dell’affaire Dreyfus, Lazare riscoprì le proprie radici ebraiche prendendo le parti del capitano francese ingiustamente accusato. In un suo saggio, Le fumier de Job, che venne pubblicato postumo nel 1928, Lazare rilegge il travaglio dell’ebreo che nella cristianità è considerato un “paria”. E rifiuta l’accusa di deicidio: «Il popolo ebraico non ha crocifisso Gesù: seguiva il fariseo errante; amava ascoltarlo, lo accompagnò, piangendo, ai piedi della croce sulla quale lo inchiodarono i romani, con un’iscrizione derisoria per gli ebrei» e arriva a dire che «Gesù è il fiore supremo dello spirito ebraico, l’emanazione più pura della coscienza di Israele».

Lazare morì dopo aver dedicato molte pagine a smontare la cultura dell’antisemitismo, ma nel Letame di Giobbe, tradotto quasi vent’anni fa con una lunga introduzione di Stefano Levi della Torre, mi colpì il sentimento poetico e tragico con cui descrive i cimiteri di Praga, Worms, Cracovia, Toledo, Lemberg, dei quali coglie l’aspetto di terra desolata: quello di Praga ha per lui un volto tetro, mentre quello di Worms gli appare allegro, dove «le lapidi si ergono in un vasto prato luminoso; stanno ritte nell’erba folta, e leggendo le vecchie iscrizioni, guardando gli antichi simboli sempre nuovi, si cammina sui morti». La pagina dopo si apre, non per caso, sull’altro caposaldo dell’identità ebraica: le sinagoghe.

Le sue pagine mi sono tornate in mente visitando a Ferrara, nelle sale del Meis, il Museo nazionale dell'ebraismo italiano e della Shoah, la mostra Case di vita, ovvero un approfondimento su “sinagoghe e cimiteri in Italia” (a cura di Andrea Morpurgo e Amedeo Spagnoletto, fino al 17 settembre), dove appunto si cerca di mettere in luce il modo di essere, lo stile di vita, degli ebrei qualche secolo prima e poi con l’emancipazione che maturò con le due rivoluzioni moderne, quella dei movimenti democratico-borghesi e quella industriale, col progredire della cultura dei diritti umani e sociali, che non bastò tuttavia ad allontanare lo spettro dell’antisemitismo, come si vide nella vicenda di Dreyfus, che dopo la sua conclusione positiva lasciò comunque strascichi di decenni, fino al periodo della persecuzione nazista che trovò in Francia molti sostenitori, si pensi a Brasillach, grande intellettuale che fece opera di delazione sui giornali denunciando tanti ebrei che si nascondevano, oppure, sebbene con diversa spietatezza, un compagno nel grande critico letterario Maurice Blanchot, i cui articoli antisemiti vennero tradotti e pubblicati anche in Italia vent’anni fa. E naturalmente non si può tacere di Céline o di Drieu La Rochelle. Qualcuno ha sostenuto che quest’odio degli ebrei trovi in Francia il suo terreno di cultura (sia pure con orizzonti diversi, non si deve dimenticare che persino in Simone Weil vi sono pagine dove manifesta in modo deciso il suo antigiudaismo).

La mostra di Ferrara testimonia proprio questo cammino di emancipazione e di costruzione sociale di una identità delle comunità ebraiche attraverso la fondazione e il riconoscimento dei cimiteri e delle sinagoghe. L’architettura e l’arte che la decora sono come una marcatura del territorio attraverso cui ottenere una cittadinanza come diritto a far parte e a contribuire alla vita dei luoghi in cui gli ebrei si sono insediati, dapprima tollerati (a volte guardati con risentimento, per la solita accusa di essere usurai, cioè prestatori di denaro, attività che il Terzo concilio Lateranense nel 1179 aveva condannato); oltre a subire per secoli l’accusa di deicidio. Come scrive Morpurgo nel catalogo (Sagep) le architetture che caratterizzano sinagoghe e cimiteri «sono importanti perché hanno storie da raccontare», quelle di chi le ha usate, quelle dei fatti di cui furono teatro, quelle della loro funzione identitaria nello sviluppo delle città. Tra i protagonisti l’architetto vercellese Marco Treves, figura chiave dell’ebraismo postunitario, di cui in mostra è esposto il ritratto dipinto da Ercole Olivetti, che ristrutturò la sinagoga di Pisa e costruì quella di Firenze (in mostra c’è il modello ligneo eseguito da un intagliatore intorno al 1880), progettò sempre nel capoluogo toscano il cimitero israelitico. Altra figura chiave fu Elia Levi Deveali, ritratto da Francesco Mensi, che finanzio il Tempio di Alessandria e varie altre opere di pubblica utilità, esponente di una famiglia di dotti e rabbini da varie generazioni.


Le architetture, non avendo un chiaro stile ebraico da esibire, pescano di volta in volta da motivi arabo-moreschi, come a Vercelli, oppure dalla tradizione egizia, siriana, persino assira. Nel disegno acquerellato della Sinagoga vecchia di Livorno, si scoprono la ricchezza decorativa che fonde il passato con le nuove teorie settecentesche dell’architettura; stesso interesse desta la litografia a colori di Heronymus Hess, viaggiatore che ritrae una delle cinque “schole” romane. Schola era il nome con cui si definiva la sinagoga, che non era soltanto un luogo di culto, ma anche di formazione e identità politica. All’interno, il centro del culto andava all’Arca lignea, l’Aron ha-Qodesh, dove venivano custoditi i rotoli del Pentateuco. In mostra quella particolarmente pregevole della Sinagoga di Vercelli. Treves aveva partecipato anche alla commissione per la realizzazione del Tempio torinese, che non avendo portato a un esito fattivo vide affidata la commissione del progetto ad Alessandro Antonelli, il quale avviò i lavori ma per mancanza di fondi dovette sospenderli finché il comune di Torino non acquistò l’edificio portandolo a termine. Numerosi altri sono i disegni di progetto per i templi a Milano (di Luca Beltrami), Roma, Trieste, Genova, Bologna, per Correggio e Reggio Emilia, Gorizia, Livorno. Ogni progetto risente delle qualità estetiche della tradizione artistica italiana, e viene anche in parte smontata l’idea che l’ebraismo conosca soltanto modelli astratti. Un esempio palmare di ciò sono i bozzeti molto belli di Emanuele Luzzati per le vetrate della Sinagoga di Geno.

Le testimonianze sui cimiteri segnano la seconda parte della mostra, a cominciare dal dipinto di Magnasco su un funerale ebraico. Di grande interesse l’acquaforte di Antonio Verico che riproduce a volo d’uccello il Cimitero nuovo di Livorno, smantellato a metà Ottocento perché troppo vicino alla città. Tra i documenti suggestivi esposti la lapide funeraria ebraica proveniente da Trieste, la Colonna in marmo rosa di Mantova, entrambe settecentesche, i disegni per i cimiteri di Milano, Roma, Napoli, Trieste, Firenze, il bellissimo seggio rabbinico per l’Edicola di Pisa di Mario Quadrelli del 1896. In questo spazio, quello funebre, tutto è più austero e più triste. E una questione interna alla psicologia dell’ebreo. Ancora Lazare scrive che «l’ebreo teme l’unico castigo che esista per lui: la cessazione della vita, che egli ama; non ci sarà mai in lui quell’anelito cristiano alla morte che nasce dall’orrore per la vita…». In realtà, sappiamo bene che Cristo è venuto a promettere la resurrezione della carne. E la carne è il centro della paura dell’ebreo che pensa la morte come negazione della vita e non spera nella resurrezione.

avvenire.it

Nessun commento: