Direttori di musei, giuristi, economisti, docenti universitari, imprenditori, archivisti fanno il punto su una questione salita alla ribalta nei mesi scorsi
Il Tondo Dono di Michelangelo nel Museo degli Uffizi - Foto di Juli Kosolapova su Unsplash
Quando un anno fa a Firenze si tenne il Convegno “Le immagini del patrimonio culturale. Un’eredità condivisa?” l’Italia stava viaggiando verso una direzione precisa, concretizzata nel “Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale”, le cui “Linee guida” aprivano alla piena liberalizzazione e alla gratuità per gli usi editoriali, in sintonia con le dinamiche di una realtà culturale, creativa ed economica irreversibilmente integrata nell’ecosistema digitale. Tempo dodici mesi e quella “visione strategica” è stata soppiantata da un approccio che fa dell’immagine del bene culturale una fonte di lucro. La pubblicazione degli Atti del convegno (Pacini editore, pagine 192, euro 23,00) non appare come operazione fuori tempo ma anzi in tempismo perfetto, per capire quali sono i reali termini in questione. A cura di Daniele Manacorda, archeologo di fama, già docente a Siena e Roma Tre, e Mirco Modolo, archivista e studioso del rapporto tra riproduzione digitale, patrimonio culturale e società contemporanea, il volume si segnala per la capacità di contenere al suo interno punti di vista differenti e posizioni diversamente articolate. I contributi toccano da una parte la questione giuridica sollevata dalla visione proprietaria di opere in pubblico dominio, con il contributo di Giorgio Resta, docente di Diritto privato comparato a Roma Tre, ma anche le prospettive sul problema da parte di università, editoria, mondo economico, associazionismo e del Ministero stesso, con l’architetto Laura Moro, direttore generale dell’Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale, la quale osservava che «certamente il patrimonio culturale digitale esiste solo nell'accesso e nella condivisione, e questo è il pensiero cardine che sottende tutto il Piano». Il tratto in larga parte comune a questi interventi è l’obsolescenza (innanzitutto pratica) dell’art. 108 del Codice dei Beni culturali, in particolare per quanto riguarda la reale applicabilità rispetto all’attuale ecosistema tecnologico. Nella seconda parte si mettono poi a confronto le esperienze tra pubblico e privato attorno alla questione dell’immagine del patrimonio pubblico. Martina Bagnoli, direttrice delle Gallerie Estensi, sottolinea come «invitare al riuso è diventato uno degli obiettivi principali di molte istituzioni culturali» in quanto oltre a facilitare lo sviluppo delle industrie creative e l’innovazione «ha una ricaduta importante sulla partecipazione culturale della popolazione e sulla crescita di identità condivise sia a livello nazionale che internazionale». Se sono i musei a gestire la diffusione, si riesce a mantenere «il legame di senso o di nesso» delle immagini «con l’opera che riproducono e le istituzioni che le conserva». Ma restano fondamentali, per completezza e profondità, i testi di apertura dei due curatori. Modolo ricostruisce la storia, tutt’altro che lineare, della concessione sulle riproduzioni di beni culturali pubblici, dal 1892 a oggi, osservando come il pagamento è stato lungi da essere la norma e come le prime proposte di legge in merito furono cancellate per obiezioni simili a quelle attuali: “Oltre ad essere di inceppamento allo sviluppo dell’industria fotografica, non può tornare di grande giovamento alla pubblica finanza”, sosteneva nel 1892 il sottosegretario al Ministero dell’agricoltura, industria e commercio Antonino Paternò-Castello. Manacorda propone invece “dieci argomenti per una piena liberalizzazione dell’uso delle immagini del patrimonio culturale pubblico”, enunciati osservando il tema dalla posizione «dei cittadini e dei fondamentali diritti costituzionali». L’archeologo porta all’evidenza tutte le aporie dell’approccio del Codice e delle sue interpretazioni (a partire dalla confusione tra bene materiale e la componente immateriale costituita dalle immagini). Una «selva di contraddizioni » che investe ogni sfera, esistente da tempo e che l’innovazione tecnologica ha reso solo più evidente. Non a tutti. avvenire.it
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