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Kazakistan balla la tarantella


Quando arriviamo ad Aktau, città che si affaccia sul Mar Caspio tristemente nota per essere stata durante, il periodo della Guerra Fredda, un’area dove i geologi sovietici avevano realizzato un grande giacimento d’uranio finalizzato alla produzione di armi atomiche, è notte piena. Poche ore di riposo e la luce già inonda la stanza dell’albergo. La mattina abbiamo l’incontro con i musicisti dell’Akhzarma, l’orchestra popolare della regione del Mangystau. È con loro che dividiamo il concerto dell’indomani. Vogliamo suonare insieme la nostra e la loro musica, “mescolare” tarantelle a melodie e ritmi di danza asiatici. 

Su nostra richiesta Livio Manzardo, un tecnico veneto che è tra gli organizzatori del concerto, al termine delle prove ci accompagna a vedere una funzione nella chiesa cattolica di Aktau. La chiesa è nell’appartamento del sacerdote situato al secondo piano di una casa tipica di un quartiere popolare. Bussiamo al campanello e ci accolgono una ventina di persone che si stanno preparando per celebrare la messa. La cappella è piccola ma la gioia dei canti in russo, l’ambiente così semplice ma intenso, la forza di una liturgia così intimamente partecipata ci riportano la mente fuori dal tempo quasi fossimo negli anni delle origini del Cristianesimo. Al termine si crea con tutti i presenti un momento di simpatia e conversazione, in particolare con padre Alessandro il quale ci racconta che a breve costruirà una chiesa grande. Sono anni che aspetta i permessi. Ci dice che la popolazione del Kazakistan è prevalentemente musulmana, molti sono i cristiani ortodossi di origine russa o di altri paesi slavi. I cattolici, invece, sono pochi. 

Al mattino dopo ci investe un forte vento portando con sé dal mare odori nauseanti. Tutta l’aria intorno ne è inondata. Ci infiliamo nella grande sala del concerto dove abbiamo una nuova sorpresa. I componenti dell’orchestra sono aumentati. Si sono aggiunti cantanti, ballerini e tutti vestono luminosi e sgargianti abiti tradizionali kazaki. Hanno l’immagine antica del popolo nomade. Spicca nell’orchestra il tipico tamburo sciamanico suonato dal loro direttore. Il concerto è accolto con entusiasmo travolgente dal pubblico che al termine ci riempie di applausi. Non riusciamo a uscire dal teatro perché tutti vogliono farsi fotografare con noi. Molti giovani ci chiedono notizie sui nostri strumenti e sull’Italia. 

L’ambasciatore italiano, che è venuto ad accoglierci, è molto contento del nostro tour che prosegue il giorno dopo ad Astana, la capitale. La mattina, ancora frastornati dal viaggio, la nostra guida ci porta all’Università delle Arti dove abbiamo una prova con un gruppo di giovani coristi con cui condivideremo una parte del concerto. Sentirli cantare le nostre tammurriate con quelle voci così timbrate ci colpisce. Alla sera il concerto nella sala della Filarmonica è accolto con grande affetto da un pubblico numeroso composto prevalentemente da giovani studenti universitari. 

Di Astana riusciamo a vedere poco ma a prima vista ci risulta una città strana, senza vita, con quei grattacieli svettanti e irregolari circondati dalla steppa. Alla vecchia città di tipo sovietico il presidente Nazarbaev, che comanda ininterrottamente il Paese sin dalla sua costituzione autonoma, ne ha affiancato una nuova dove non c’è un “centro” ma un asse sul quale sono dislocati i simboli di un popolo che è passato in poco più di quarant’anni dalla yurta (la tenda dei nomadi della steppa) a un’altra civiltà che unisce segni del potere sovietico a simboli della società consumistica post-moderna. 

La tappa successiva è Karaganda, un po’ più a sud, che raggiungiamo in treno. La regione, tristemente nota per i gulag e le deportazioni durante la seconda guerra mondiale, è stata la culla di un cattolicesimo che fu costretto al silenzio. Al nostro arrivo ci accoglie con gioia Adelio Dell’Oro, attuale vescovo di Karaganda, con tutta la comunità dei religiosi, provenienti da varie parti della diocesi. È la prima volta che nella nuova cattedrale si tiene un concerto di musica sacra popolare italiana. L’evento, sostenuto da Antonio Mastrolia, “glorioso” capo scout nella Gaeta degli anni Sessanta e attualmente armatore e amministratore della Caspian Ocean, rappresenta per la comunità locale e nazionale un evento di grande rilievo. 

Il vescovo ha preparato un libretto di sala con tutti i testi dei canti e con la traduzione in russo. Con lui abbiamo avuto modo di fare un po’ di conversazione al pranzo offerto dalla comunità parrocchiale. Cibo semplice, la pasta, che gradiamo moltissimo, dopo tante pietanze locali speziate e a base di carne di cavallo. Mentre sorseggiamo il caffè ascoltiamo storie di testimonianze di fede profonda legate al periodo stalinista, quando tutto il Kazakistan era una specie di sconfinato “arcipelago gulag” e Karaganda uno dei centri. Fra i deportati vi erano migliaia di cattolici di nazionalità polacca, ucraina, tedesca, lituani e bielorussi. Molti sacerdoti deportati favorirono il sorgere di una Chiesa clandestina: fra questi padre Alexius Saritski, beatificato da papa Giovanni Paolo II nel 2001. 

Nel 1941 sul luogo dove furono deportati e abbandonati nel gelo dell’inverno, che in questa regione ha temperature che raggiungono anche 40 gradi sotto zero, i tedeschi della zona del Volga si scavarono delle buche sotto terra dove hanno vissuto a lungo fino a quando non sono stati in grado di costruirsi delle casupole. In chiesa, non appena entrati, siamo accolti da un applauso fragoroso. La gente è stipata in ogni angolo della bella cattedrale. Il pubblico è molto eterogeneo. Ci sono tante facce che rappresentano le diverse etnie che caratterizzano la popolazione di questa regione. 

Cantiamo i nostri antichi canti popolari sacri in un clima di profonda attenzione e partecipazione. Sono anni che giriamo con l’Orchestra Popolare Italiana in tante parti del mondo ma mai abbiamo avuto questo tipo di emozione. Il nostro messaggio di incontro è arrivato al cuore del pubblico che al termine dell’esibizione ci manifesta grandi segni di ringraziamento. L’indomani mattina all’alba partiamo per Almaty, l’antica capitale dello Stato durante il regime sovietico. In aeroporto a quell’ora non c’è nessuno e mentre ci avviamo per i controlli gli addetti alla sicurezza ci fermano. Ci hanno visto in televisione al concerto trasmesso dalla cattedrale. Ci hanno chiamato “musicisti cristiani”. Siamo sorpresi, è la prima volta in tanti anni che qualcuno mi definisce in questo modo. Ad Almaty ci tratteniamo poco perché siamo diretti in Kirghizistan dove arriviamo nella capitale Biškek dopo un rocambolesco viaggio che ripercorre a tratti l’antica via della seta. Qui si conclude il nostro tour. L’indomani siamo ospiti della stagione concertistica della Filarmonica nazionale che ha sede in una grande sala costruita sulle tipiche strutture architettoniche di stampo sovietico. La notte ripartiamo. Non c’è un volo diretto e dobbiamo fare scalo a Mosca. Sull’aereo che ci riporta finalmente in Italia a un tratto mi pare di sentire il canto sussurrato di una voce femminile. Provo a girarmi ma mi accorgo che attorno a me dormono tutti.

È una melodia che ho già sentito ma non riesco a ricordare dove l’ho ascoltata. Quando stiamo per atterrare finalmente la riconosco: è il canto alla Vergine eseguito dalla voce delle donne nella piccola chiesa di Aktau. Quella melodia, quella preghiera, mi è entrata nel profondo del cuore. E mi accorgo che quel canto di cui non capisco le parole costituisce ormai per me un valore speciale, un ricordo dolce, profondo, che mi auguro possa a lungo continuare ad accompagnarmi.
Avvenire