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Viaggio al Santuario di La Salette

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Difficile capire quando un viaggio ha inizio. Il desiderio di muoversi sorge da lontano, in terre misteriose e a volte molto tempo prima. Per lo più qualcosa o qualcuno lo stimola.

Il viaggio in Alta Provenza al Santuario di La Salette – intrapreso con un’amica nell’agosto del 2017 – ebbe origine da un mio sguardo incuriosito su una vetrata di una piccola chiesa parrocchiale in provincia di Varese. Lì, anni fa, fui invitata ad un matrimonio di parenti celebrato proprio dove, nel 1955, si era sposata mia suocera, che non ho mai potuto incontrare in quanto prematuramente scomparsa. La chiesa è quella di Peveranza di Cairate, dedicata a Santa Maria Assunta.

All’interno, in una lunetta sulla parete alta del lato sinistro prossimo al presbiterio, l’occhio andò ad una vetrata rappresentante una figura femminile posta in piedi tra due ragazzini, in uno scenario naturale tra sassi e prati di una verde conca contornata da alti monti. A una zia domandai spiegazione del soggetto ed ella mi parlò della “Madonna di La Salette”, del santuario francese che portava quel nome e che era spiritualmente gemellato con la loro comunità.

Non conoscevo né l’evento né il santuario francese, ma subito pensai che su quella immagine di devozione mariana si fossero posati anni prima gli occhi e il cuore di una sposa che sarebbe diventata madre di mio marito. La ricordai nelle immagini del suo album di nozze. Fotografie lucide in bianco e nero. Lei era una giovane donna, felice e fiera, minuta, in abito bianchissimo e con breve velo di tulle sul capo.

Da donna a donna

Alcuni anni dopo mi ritornò in mente quella vetrata e decisi di informarmi. Fu un’altra donna, Giuditta, che mi fornì del materiale. Appresi che la vetrata era stata posta il 15 agosto 1938 – il giorno dell’Assunta – dal parroco don Giovanni Croce e in memoria di una signora che l’aveva commissionata.

Scoprii così la storia dell’apparizione mariana del 1846 quando il 19 settembre Maria apparve a due giovani pastorelli: Mélanie di 15 anni e Maximin di 11, entrambi a servizio presso agricoltori della zona e accomunati da povertà e mancanza di istruzione, anche religiosa. Era sabato, la vigilia della festa di Santa Maria Addolorata, e i due ragazzini, che si erano casualmente conosciuti pochi giorni prima, portavano le mucche al pascolo. Improvvisamente videro una grande luce e, al centro, una Signora seduta tra le rocce che piangeva silenziosamente. Quando ella si alzò e per rassicurarli andò verso di loro visibilmente spaventati, apparve di alta statura e di aspetto maestoso e materno.

Così è infatti ritratta nella “mia” vetrata. Il disegnatore riporta l’abbigliamento della donna proprio come descritto dai due veggenti per cui dovette certamente aver letto qualche resoconto e visionato qualche immagine ricorrente: la cuffia che copre il capo, i capelli che la incorniciano, un largo grembiale sopra l’abito. Le spalle ricoperte da un breve scialle incrociato sul petto dove appare una croce trattenuta da una catenina. Piccole rose compaiono in più punti della figura, anche ai piedi, su calzari aggraziati.

Il messaggio della Signora fu molto scarno, semplice e concreto. Diceva la sua sofferenza, anche di madre, di fronte all’indifferenza religiosa, all’abitudine a lavorare anche la domenica, alla bestemmia (“imprecare mescolando il nome di mio Figlio”) attribuendo a Dio la causa del cattivo raccolto. Predisse una carestia di patate, di grano, di uva e di noci.

Era la vigilia del 1848, anno di intensi tumulti in Francia e in Europa, dovuti anche a una grave crisi economica. Quindi comunicò a ciascuno dei due ragazzini un segreto chiedendo loro di non rivelarlo a nessuno. Parlò loro in francese e in dialetto locale, invitando tutti a pregare e a cambiar vita. Usò queste parole: “Se si convertiranno, le pietre e le rocce si tramuteranno in mucchi di grano e le patate si troveranno seminate da loro stesse”.

Il viaggio intrapreso per visitare il santuario fu per me importante. La zona dell’Alta Provenza e soprattutto il territorio in cui sorge l’edificio a cui tutt’oggi accorrono migliaia di fedeli è primitivo e naturalisticamente affascinante. Mi facevano compagnia alcune letture, fra cui la storia della vita di quei ragazzi, profondamente segnata dall’apparizione. Furono a lungo interrogati, costretti a narrare ripetutamente quell’evento. Gli uditori unanimemente colsero il contrasto tra la rozzezza e la rusticità dei pastorelli e la serietà, la dignità e il profondo rispetto con cui essi raccontavano la visione.

Ricordo la riflessione di importanti esponenti della cultura francese come Raissa Maritain che, di fronte alle lacrime della Signora, si chiese il perché della sofferenza celeste (“Peut-on souffrir en Paradise?”) e rispose che il nostro Dio, essendo crocifisso, non può essere privo di gemito e di sentimenti abbandonici. E poi le considerazioni di Paul Claudel, di François Mauriac e di Jacques Maritain, citate dal card. Carlo Maria Martini nel discorso in occasione della sua visita al santuario nel 1989.

Rileggo oggi i messaggi della Vergine, alla viglia della Festa dell’Apparizione a La Salette celebrata in molte località in cui sorgono chiese, cappelle, edicole dedicate. Ne colgo la dimensione squisitamente femminile: l’attenzione alle “cose” corporee (i cibi da mangiare, il raccolto, la bestemmia. La parola è corpo anch’essa: sa colpire e ferire), la cura del suo portamento e abbigliamento; i riferimenti alla maternità. Avverto la forza del pianto che ella non frenò valorizzando le emozioni e gli affetti.

Mi accorgo che diverse presenze femminili mi avevano accompagnato in quel viaggio verso uno spazio verde, aspro e ruvido, vicino al cielo. Promisi a persone e amiche care che le avrei portate dentro di me in quel breve viaggio da tempo desiderato. Soprattutto avevo sentito al mio fianco Amelia, una giovane sposa, la cui storia si sarebbe intrecciata con la mia.

Così fanno i rami delle rose. Fiori non senza spine di cui la bella Signora era ornata.