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Mobilità pulita, più spostamenti a emissioni zero



A piedi, in bici, in bus elettrici o con treni urbani, gli italiani preferiscono - quando possibile - gli spostamenti a zero emissioni: ci si muove sempre più smart, connessi e multimodali. Milano da tempo applica politiche di sostenibilità e si piazza al primo posto fra i 104 capoluoghi esaminati con oltre il 52% dei trasferimenti "puliti". Lo indica Legambiente nel primo rapporto sulla mobilità a emissioni zero in Italia dal titolo 'Le città elettriche' realizzato con MotusE (associazione per la mobilità elettrica) e presentato a ExpoMove, la fiera sul settore a Firenze. 

A fronte di una persistente mobilità inquinata, congestionata e poco sostenibile, lo studio offre una prima mappatura sull'offerta di trasporti a zero emissioni evidenziando il calo quasi ovunque del tasso di motorizzazione (Milano in 20 anni ha perso 100mila auto) e, ad esempio, la crescita esponenziale delle colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici: da febbraio 2018 a gennaio 2019 i punti di ricarica per le bici in Italia sono passati da 1.885 a 2.684 (+40%), mentre quelli per le auto sono passati da 2.368 a 5.507 (+130%). Anche qui emerge un'Italia a due velocità: in Lombardia le colonnine per le auto elettriche sono più che raddoppiate (da 519 a 1.134), la Toscana si piazza al primo posto per le infrastrutture dedicate alle due ruote con 699 prese (sono 524 quelle per le auto) mentre Basilicata e Molise chiudono la classifica: la prima con 27 prese per auto e 7 per le due ruote, la seconda con 8 e 5. 

Lo studio di Legambiente riesce a stimare l'accessibilità da parte dei cittadini a servizi non inquinanti, come la quota degli spostamenti con il mezzo pubblico o con servizi di sharing mobility. A Milano l'accessibilità a trasporto pubblico (Tpl), sharing e bici raggiunge il 64% e gli spostamenti a zero emissioni (elettrici, bici, a piedi) rappresentano il 52%; passando al sud, Napoli ha una buona performance soprattutto negli spostamenti green al 50% e l'accessibilità al 34%. A Bologna l'offerta raggiunge il 40% e gli spostamenti a zero emissioni rappresentano il 39%; a Torino l'offerta è del 27% e gli spostamenti sono al 40%; a Genova il 39% dei trasferimenti è a zero emissioni (accessibilità 36%), a Firenze sono rispettivamente il 17% e il 26% e a Roma il 20% degli spostamenti è a zero emissioni e l'accessibilità è al 27%. 

La mobilità a emissioni zero, sottolinea Legambiente "è capace di ridurre lo smog e affrontare la sfida imposta dai cambiamenti climatici" e dunque "l'uscita dalla mobilità inquinante è già in atto, ma servono politiche nazionali e di sistema, a partire dall'abbandono delle fonti fossili". 

Legambiente ricorda che i piani del traffico delle città sono condizionati, per legge, ai piani di mobilità sostenibile (Pums) che sono di transizione alla mobilità a zero emissioni. Per il piano di Milano, ad esempio, "lo spazio pubblico è bene comune", non parcheggio di mezzi privati, quindi ad uso dei cittadini. (ANSA).

Il declino globale della fauna selvatica favorisce schiavitù, guerre e criminalità organizzata

di Umberto Mazzantini  - greenreport

Se la politica sapesse ancora fare delle buone analisi e sapesse mediare tra gli economisti e gli scienziati, capirebbe molto meglio perché questo modello di sviluppo è arrivato al limite e qual è la reale crisi in corso. Di certo non più finanziaria, visto che Wall Strett è ai massimi e pure la nostra borsa non se la cava male, mentre è ancora sociale – posti di lavoro ridotti al lumicino e disoccupazione in inesorabile avanzata – e soprattutto ambientale. Non solo, proprio la cattiva gestione delle “risorse scarse” alias materie prime causa i peggiori guai mondiali. E non lo dice il wwf o Legambiente, ma – ecco il perché della nota polemica iniziale – il numero speciale “Vanishing fauna” di Science che ospita lo studio “Wildlife decline and social conflict” nel quale un team di ricercatori statunitensi delle università di Berkly e Santa Barbara e della Wildlife Conservation Society dicono che «Il declino globale delle popolazioni di fauna selvatica sta provocando l’aumento di conflitti violenti, della criminalità organizzata e del lavoro minorile in tutto il mondo». I ricercatori partono dalla recente istituzione da parte del Presidente Usa Barack Obama di una task force inter-agenzie sul traffico di fauna selvatica e scrivono che «Riflette la crescente consapevolezza politica dei legami tra conservazione della fauna selvatica e sicurezza nazionale. Tuttavia questa ed analoghe iniziative in Europa ed Asia che promuovono la “guerra ai bracconieri” aprono solo una finestra sulla complessità ecologica, sociale ed economica dei conflitti collegati alla fauna selvatica. E’ essenziale l’input di diverse discipline per formulare politiche che affrontino i drivers del declino della fauna selvatica ed i contesti dai quali si infiammano i conflitti associati infiammano. Gli autori chiedono ai biologi di unire le loro forze con esperti come economisti, politologi, criminologi, funzionari della sanità pubblica e specialisti dello sviluppo internazionale per affrontare insieme questa sfida complessa. Il documento appena pubblicato su Science, mette in evidenza come il calo del cibo e dell’occupazione provenienti dalla caccia alla fauna selvatica stia causando sia l’aumento del traffico di esseri umani e di altri reati che favorendo l’instabilità politica. Secondo il principale autore, Justin Brashares del Department of environmental science, policy, and management dell’università di California Berkeley, «Questa pubblicazione riconosce il declino della fauna selvatica come fonte di conflitto sociale piuttosto che sintomo. Miliardi di persone si affidano direttamente e indirettamente a fonti di carne selvatiche di carne per il loro reddito e sostentamento e questa risorsa è in declino. Non è sorprendente che la perdita di questo pezzo essenziale dei mezzi di sussistenza dell’uomo abbia enormi conseguenze sociali. Eppure, sia la conservazione e la scienza politica hanno generalmente trascurato queste fondamentali connessioni». Meno animali da cacciare e meno pesci da pescare richiedono uno sforzo sempre maggiore sforzo per catturarli. I lavoratori necessari, molti dei quali sono bambini, sono spesso venduti ai pescherecci e costretti a lavorare in mare, per anni senza paga, 18-20 ore al giorno. Brashares spiega il primitivo meccanismo capitalistico che sta dietro questa tragedia umana ed ambientale: «Le famiglie impoverite contano su queste risorse per il proprio sostentamento, per cui non possiamo applicare modelli economici che prescrivono aumenti dei prezzi o di riduzione della domanda, dato che le forniture stanno diventando scarse. Invece, dato che è necessario più lavoro per catturare animali selvatici e pesci scarsi, i cacciatori e i pescatori usano i bambini come fonte di manodopera a basso costo. Centinaia di migliaia di famiglie povere vendono i loro figli per mandarli a lavorare in condizioni difficili». Nel caso in cui un governo non ha la volontà o la capacità di proteggere le risorse naturali, possono sorgere dei movimenti di vigilantes. Gli autori collegano l’aumento della pirateria marittima e della violenza in Somalia alle battaglie sulla difesa dei diritti di pesca esclusivi e sottolineano che quello che era iniziato come un tentativo di respingere le imbarcazioni straniere della pesca a strascico illegale nelle acque somale si è trasformato in “hijacking fishing”, e quindi in non-pesca, co il dirottamento delle navi a scopo di estorsione. Brashares aggiunge che «Sorprendentemente poche persone riconoscono che la competizione per gli stock ittici ha portato alla nascita della pirateria somala. Per i pescatori somali, e per centinaia di milioni di altri, i pesci e la fauna selvatica sono la loro unica fonte di sostentamento, così quando sono stati minacciati dalle flotte di pesca internazionali, hanno preso misure drastiche». Gli autori hanno anche confrontato la fauna selvatica bracconaggio con il commercio di droga, notando che enormi profitti dal traffico merci di lusso prodotte con la fauna selvatica, come le zanne di elefante ed i corni di rinoceronte, hanno attirato gruppi di guerriglieri ed organizzazioni criminali di tutto il mondo. E fanno notare che alcuni dei gruppi armati più noti dell’Africa, come la Lord’s Resistance Army che opera tra Congo Rdc, Uganda e Repubblica Centrafricana, al-Shabab in Somalia, i Janjaweed in Sudan/Darfur e Boko Haram in Nigeria, sono noti per utilizzare il bracconaggio per finanziare attacchi terroristici. Meredith Gore, che insegna conservation criminology alla Michigan State University, non ha partecipato allo studio dice che «Questo documento inizia a toccare la punta di un iceberg di problemi sul declino della fauna selvatica e, in tal modo, gli autori offrono una prospettiva provocatoria e completamente necessaria circa la natura olistica delle cause e delle conseguenze del declino della fauna selvatica» Come potenziali modelli di questo approccio integrato, gli autori indicano le organizzazioni e le iniziative nel campo del cambiamento climatico, come l’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) e l’United for wildlife collaboration, ma lo studio sottolinea che «Questi sforzi globali devono essere accompagnati da approcci più fronti che affrontino il declino della fauna selvatica a livello locale e regionale». La Gore crede che «La parte più importante da questo articolo, è che abbiamo bisogno di capire meglio da una prospettiva locale i fattori che sono alla base dei cali di pesce e della fauna selvatica e che gli approcci interdisciplinari sono probabilmente la migliore opzione per facilitare questa comprensione». Chris Golden, direttore dei programmi della Wildlife Conservation Society fas notare che «L’Insostenibile sfruttamento antropico delle popolazioni di fauna selvatica non ha solo singoli effetti sull’integrità ecologica, ma ha conseguenze di ampia portata che portano all’instabilità per la nostra salute, per i mezzi di sussistenza e la sicurezza nazionale». I ricercatori fanno anche esempi di governi locali che hanno superato momenti di tensione sociale con iniziative mirate, come il caso della concessione di diritti esclusivi per caccia e pesca alle comunità locali nelle Figi ed il controllo delle management zones in Namibia per ridurre il bracconaggio e migliorare le condizioni di vita delle popolazioni locali. Uno degli autori, Douglas McCauley, del Department of ecology, evolution, and marine biology dell’università di California Santa Barbara, conclude: «Questo rende becessaria una revisione del perché dovremmo conservare la fauna selvatica ed aiuta a rendere più chiaro quale sia la posta in gioco in questo gioco. Essenzialmente, le perdite di fauna selvatica tirano via il tappeto da sotto le società che dipendono da queste risorse. Non stiamo solo perdendo specie. Stiamo perdendo figli, frantumando le comunità e favorendo la criminalità. Questo rende la salvaguardia della fauna selvatica un lavoro più importante di quanto non sia mai stato».