SS24

La prova. Nuova faccia, contenuti da BMW: la X3 è sempre una garanzia

La BMW X3 giunge alla terza generazione con l’obiettivo di migliorare ulteriormente le doti che l’hanno resa un prodotto di grande successo, attraverso nuove forme e materiali e con l’ultima parola in fatto di tecnologia. La vettura è stata presentata alla stampa italiana presso il Dynamo Camp di San Marcello Pistoiese, una vera e propria “colonia” di terapia ricreativa dove vengono ospitati, per un periodo di vacanza, bambini e ragazzi da 6 a 17 anni con patologie gravi e croniche. Nata nel 2003 dall’idea di Vincenzo Manes, l’associazione riconosce nella gratuità e nell’inclusività i suoi principi fondamentali. Tutti i 1400 bambini che soggiornano gratuitamente nella struttura in diversi periodi dell’anno, sono in grado di partecipare alla totalità delle attività organizzate da più di mille volontari. Dei 4,5 milioni di euro necessari per coprire i costi di partecipazione annuali, la metà proviene da soggetti privati, il restante 50% da aziende. Una di queste è proprio BMW, che sostiene Dynamo Camp all’interno del suo progetto filantropico SpecialMente.
L’unicità del luogo ci ha permesso di apprezzare le doti di una vettura che ha nel dinamismo la sua caratteristica principale. Grazie ai 4,70 metri di lunghezza, agli 1,89 metri di larghezza e al passo cresciuto di 5 centimetri, la nuova X3 assume linee slanciate a tutto vantaggio di estetica e spazio a bordo. Il frontale è stato ridisegnato e il posteriore strizza l’occhio ai più sportivi concedendo spoiler e doppio terminale di scarico. I quattro allestimenti disponibili (Business Advantage, X-Line, Luxury o M-Sport), permettono di personalizzare la SAV bavarese a seconda dei propri gusti. Belli gli interni, aggiornati seguendo il family feeling delle ultime vetture del gruppo, colpiscono in particolar modo gli schermi ad alta risoluzione dell’infotainment da 10.25 pollici e del cruscotto digitale (entrambi optional).
Su strada si guida come una vera BMW anche grazie all’ausilio delle sospensioni a controllo elettronico VDC. Il3.0d, sei cilindri in linea a gasolio proposto nelle due varianti da 249 e 265 Cv, gira in totale assenza di vibrazioni, assicurando potenza e grande confort di marcia. Nessuna paura se si opta per il 2.0d, i suoi 190 Cv riescono a portare a spasso agevolmente tutti i 1800 kg di questo Suv. A completare la gamma dei motori di lancio c’è laM40i da 360 Cv.
Sfruttando i servizi BMW Connected la vettura è collegata al mondo digitale dell’utente. Attraverso l’invio di un link è addirittura possibile far conoscere a chi si desidera la propria posizione e i minuti di ritardo accumulati. Per il capitolo sicurezza l’X3 può essere equipaggiata con il Driving Assistance Plus, un pacchetto che contiene l’assistente al mantenimento di corsia, il sistema anti collisione, l’assistente agli incroci e l’ausilio nelle manovre di evasione dell’ostacolo, con intervento attivo sullo sterzo.
Per portarsi in garage una 2.0d XDrive ci vogliono 49.900 euro, 2.950 euro in più del modello precedente ma sono aumentati anche gli equipaggiamenti di serie, comprensivi di cambio automatico, cerchi in lega da 18 pollici, sensori di parcheggio anteriori e posteriori, barre sul tetto in alluminio, pacchetto luci e Active guard.
da Avvenire

Cinema. Dal Messico all'aldilà, con “Coco” la Pixar scavalca i muri (anche di Trump)

Non è certo la prima volta che la Disney Pixar affronta temi assai complessi, insoliti per il pubblico dei più piccoli. Basti pensare a capolavori come Up, che affronta la vecchiaia e l’elaborazione del lutto, o Inside Out, che dà volto, corpo e voce alle emozioni di una bambina.
Nel nuovo film, Coco, nelle nostre sale il 28 dicembre, è invece di scena il mondo dei morti, che i messicani celebrano in un giorno speciale, “el Dia de los Muertos”, e che diventa il teatro delle avventure del piccolo Miguel, figlio di calzolai e aspirante cantante, al quale però è proibito suonare a causa delle malefatte di un antenato musicista. Quando però, proprio durante il Giorno dei Morti, il bambino si ritrova a suonare la chitarra del defunto Ernesto de la Cruz, gloria nazionale, viene magicamente catapultato nell’aldilà e costretto a risolvere antichi e mai sopiti problemi di famiglia, accompagnato dal cane Dante, tra colpi di scena (e omaggi a Tim Burton) che spingono il racconto su un terreno mai esplorato prima.
Gli spunti di riflessione proposti da questo film struggente e poetico, il più visto di sempre in Messico (dove è uscito il 27 ottobre), sono tanti: dall’importanza dei legami familiari che uniscono più generazioni alla lotta per inseguire i propri sogni, dalle menzogne e le insidie della celebrità alla memoria dei defunti, capace di tenere in vita chi non c’è più.
Un film di anime, cuori e scheletri, fiori e altari, dai colori accesi e un clima carnevalesco, dove la morte non fa paura, dove c’è spazio per l’allegria e dove un ponte meraviglioso unisce «due mondi separati solo da un petalo di fiore», come dice Michele Bravi, che canta il brano sui titoli di coda, mentre Matilda De Angelis presta la sua voce a Tía Victoria, Valentina Lodovini è la madre del piccolo protagonista e Mara Maionchi recita un commovente monologo affidato alla trisavola che dà il nome al film.
E oggi che il tormentato confine tra Usa e Messico è oggetto di feroci battaglie elettorali, la decisione di ambientare la storia del film nel paese latinoamericano è letto come un atto politico in polemica con la presidenza Trump. «In realtà abbiamo cominciato a lavorare a Coco sei anni fa – ha raccontato il regista Lee Unkrich, venuto a Roma a presentare il film insieme alla produttrice Darla K. Anderson – e il mondo allora era molto diverso. Sin dall’inizio l’intenzione era realizzare un film che fosse prova del nostro profondo amore e rispetto per la cultura messicana, che aiutasse a mostrarne la bellezza e a dissolvere pregiudizi e barriere. Speriamo quindi di poter contribuire a costruire un ponte e non un muro».
«Coco è un film sull’importanza delle radici, sui sogni, sulla vita e sulla morte – sintetizza la Lodovini –, ma anche sul fascino del potere», mentre la De Angelis aggiunge: «È bello che i bambini riflettano su un tema doloroso come la morte, dal quale li si tiene spesso lontani per proteggerli». «La storia di Miguel racconta il sacrificio che c’è dietro la creatività, quando bisogna stabilire un ordine di priorità della vita » dice Bravi e a proposito della forza dei legami familiari Mara Maionchi commenta: «Ho un forte senso d’appartenenza alla famiglia, è un ricordo dolce, mai doloroso. Parlo dei miei parenti rievocando momenti divertenti, come se fossero ancora vivi. E finché sarò viva io, racconterò di loro alle mie figlie e ai nipoti, che non conoscono chi non c’è più»
da Avvenire

Donne, la discriminazione inizia sui sussidiari delle elementari


Poco rappresentate, confinate ai ruoli domestici, sottomesse. Così nei libri scolastici delle elementari si calpesta la parità di genere. In un libro la ricerca choc della pedagogista Irene Biemmi
Le parole sono pietre, scriveva Carlo Levi. Alla realtà corrispondono, o dovrebbero. La realtà caricano del peso enorme che è il significato. Qualche settimana fa, nel dibattito sui diritti dei migranti, è finito sotto i riflettori della cronaca il passaggio di un sussidiario della casa editrice Il Capitello presente sulle scrivanie di qualche migliaio di bambini delle quarte e quinte elementari. Il testo definisce i profughi come «clandestini», che vivono nelle nostre città «in condizioni precarie, senza un lavoro e una casa dignitosi». Motivo per cui, proseguiva il libro di testo, la loro «integrazione è spesso così difficile». Il passaggio è stato oggetto di pubblica condanna, come giusto (immaginiamo l’esito di simile equivalenza sui più piccoli), l’editore ha promesso un intervento più o meno immediato di rettifica.

Lo studio sulle case editrici 

Niente di tutto ciò avviene, invece, per le donne. Che – mentre il Paese si arrovella su come fermare l’ondata di stupri, femminicidi, molestie – a partire dai libri di scuola sono ignorate, e persino discriminate o addirittura calpestate. Senza che nessuno se ne accorga, e senza rettifiche . «Ma come, scusi, io questi libri non li ho mai visti...», esordisce sempre qualche insegnante durante i corsi di formazione tenuti da Irene Biemmi, pedagogista, ricercatrice e docente di Pedagogia sociale presso il Dipartimento di Scienze della formazione e psicologia dell’Università di Firenze. Biemmi è autrice di uno studio dirompente, realizzato nel 2010 e pubblicato nel libro Educazione sessista. Stereotipi di genere nei libri delle elementari di Rosenberg & Sellier (una riedizione sta per essere affidata alle stampe con la prefazione di Dacia Maraini) condotto su un campione di dieci libri di lettura della classe quarta elementare di alcune delle maggiori case editrici italiane: De Agostini, Nicola Milano, Piccoli, Giunti, Elmedi, La Scuola, Piemme, Raffaello e infine proprio Il Capitello. Tutti intrisi di stereotipi sessisti, appunto. Testi cambiati, dal 2010 ad oggi? Tutt’altro, visto che una seconda ricerca condotta appena due anni fa sulla falsariga della prima, stavolta dall’Università di Catania (Corsini e Scerri gli autori), ha riscontrato che la situazione non solo non è cambiata, ma è addirittura peggiorata.

Principesse e mamme (soltanto)

Cosa raccontano, delle donne, i libri di testo su cui studiano le giovani generazioni? Che sono in minoranza quantitativa innanzitutto: è un mondo di uomini (o di bambini) quello dei sussidiari, dove dati alla mano i protagonisti delle storie sono per quasi il 60% maschili contro il 37% di femmine. «Significa che mediamente per 10 donne rappresentate compaiono 16 uomini, con picchi del doppio o addirittura più del doppio nei libri di alcune case editrici». Il caso più clamoroso? Quello di Raffaello, in cui il rapporto tra i due sessi è pari addirittura a 3,3: per ogni femmina, cioè, sono raffigurati tre maschi. Altro che “quote rosa”. E in un mondo quantitativamente abitato da maschi (pensare che nella realtà le cose stanno esattamente al rovescio) il passaggio al giudizio qualitativo è brevissimo: perché non si parla, delle donne? «“Forse perché non c’è molto da dire”, rispondono a volte i bambini, ridendo, nei laboratori che teniamo sulla parità di genere. Ed è significativo», continua Biemmi. La sua ricerca, d’altronde, mette in luce un altro elemento sconfortante: mentre agli uomini, nei libri di testo, vengono attribuite ben 80 professioni diverse (tra i mestieri maschili più ricorrenti: cavaliere, re, capitano, medico, pittore, poeta, esploratore, scienziato, marinaio, sindaco) alle donne ne toccano appena 23 (esauriti in larga parte da mamma e maestra, e poi da strega, fata, principessa, commessa e cameriera).
Ancora peggio quando si entra nel merito dell’aggettivazione attribuita ai due generi: gli uomini sono (e i termini, si badi bene, sono attribuiti esclusivamente ai maschi in tutti i libri presi in esame dalla ricerca) audaci, valorosi, coraggiosi, seri, ambiziosi, autoritari, duri, bruti, impudenti. Le femmine? In ordine di percentuale più rappresentata: antipatiche, pettegole, invidiose, vanitose, smorfiose, affettuose, apprensive, premurose, buone, pazienti servizievoli, docili, carine. Come dire (e come insegnare): il mondo maschile è forte, persino violento, quello femminile debole e superficiale. «Non serve un esperto per capire che impatto possono avere questi stereotipi, spesso presentati in modo del tutto acritico, sui nostri bambini – spiega Biemmi –. E non mi riferisco solo alle femmine, fin dalla tenera età incasellate nei pochi ruoli e atteggiamenti che per altro nulla c’entrano con quelli presenti nella realtà che le circonda, dove le donne (e le mamme anche) lavorano e non cucinano soltanto. Immaginiamo il peso di siffatto modello sui maschi, costretti a corrispondere alle aspettative di un mondo che li esige protagonisti perfetti e brutali, se necessario». Frustrazione, ansia, incapacità di relazionarsi con donne diverse da quelle che esistono nella loro mente: drammaticamente, si tratta dell’identikit dei troppi (e sempre più giovani) uomini violenti.

Le direttive europee e il “bollino di parità”

Pensare che dal 1998 anche in Italia esiste “Polite”, un progetto europeo di autoregolamentazione per l’editoria scolastica nato sulla scia della Conferenza mondiale sulle donne di Pechino del 1995, con l’obiettivo di promuovere la parità di genere nei libri di testo. A sottoscriverlo è stata l’Associazione italiana editori (Aie) e il rispetto delle norme in esso contenute prevede l’applicazione di un “bollino di qualità” alle pubblicazioni. «La beffa è che nonostante la parità di genere non sia nemmeno garantita dal punto di vista quantitativo nei libri di testo – osserva Biemmi –, molti di quelli presi in esame dalla mia ricerca e da quella più recente di Catania di quel bollino fanno bella mostra». Il motivo? Il bollino ce lo si autoassegna, visto che nel nostro Paese – a differenza di quello che avviene in Francia, per esempio – non esiste alcun controllo o supervisione da parte di un ente terzo (il ministero dell’Istruzione o un Osservatorio dedicato) sui libri di testo. Di più: del “Polite” non c’è traccia istituzionale online, nei domini italiani, tranne che in una breve sottosezione del sito dell’Aie. Risultato: il sessismo continua a imperare indisturbato coi suoi stereotipi là dove è più in grado di esercitare il suo potere culturale. Sui bambini. E mentre la riforma della “Buona scuola” si preoccupa di formare gli insegnanti a una (non meglio specificata) «cultura di genere», nessuno pensa alla formazione degli editori e degli autori dei libri di testo sulla parità fra i generi.
«La grande sfida dei prossimi anni è allora questa: che anche un solo, grande editore per la scolastica – auspica Biemmi – cominci a investire sistematicamente su questo tema». Basterebbe guardare alla letteratura d’infanzia (0-6 anni), che per assurdo nel nostro Paese – e per una volta al passo col resto d’Europa – sulle pari opportunità delle future generazioni sta compiendo passi da gigante, capofila i progetti innovativi di Settenove e di Giralangolo con la collana “Sottosopra”, ma anche alcuni esperimenti di San Paolo e Giunti. Leggere per credere.
da Avvenire

Idee. Daniel Lord Smail: «È tempo di esplorare la storia profonda»

Quando si parla di “storia” come ponte per meglio comprendere il presente, non si può prescindere dal minimizzare la moltitudine di sfaccettature possibili celate dentro la stessa parola “storia”. Ancor più se, nella selezione del punto di osservazione con cui confrontarsi, si prende in considerazione il «lasso di tempo » precedente i manuali scolastici, smontando quindi lo schema narrativo più familiare a favore di un tuffo in ciò che c’era prima che l’uomo divenisse «cultura ». La diramazione di strade possibili è tortuosa, oltre a presentare tutta una serie di criticità – anche interdisciplinari –, ma Daniel Lord Smail, docente di storia ad Harvard, in Storia profonda (Bollati Boringhieri, pagine 214, euro 24), argomenta la «coevoluzione di natura e cultura», provando a illustrare i percorsi su cui questi due concetti hanno proliferato, fino al presente.
La molteplicità della storia e l’adeguatezza della formazione scolastica, sono solo alcuni dei temi discussi, insieme alla volontà di cucire assieme alla storia, cultura e biologia, in un abito complesso, quindi un nuovo approccio atto a superare un atteggiamento di fondo spesso figlio di pregiudizi. Dove inizia la storia? Lo storico ha il dovere di porsi questa domanda, senza soprassedere sulle conseguenze della risposta. Solo così si può creare un grande racconto che guarda al futuro con completezza.
Come mai ci sono voluti dieci anni prima che il libro fosse pubblicato in Italia?
«Quando il libro è stato pubblicato negli Stati Uniti ha attirato molti lettori. Diversi colleghi mi hanno detto che il mio lavoro era troppo particolare per guadagnarsi l’attenzione dei lettori europei. Il libro è stato pubblicato precendetemente alla prima ondata di nuove borse di studio in diversi campi, quando la storia delle emozioni stava cominciando a decollare e campi come il nuovo materialismo, approcci come l’epigenetica, stavano cominciando a emergere e attirare l’attenzione. Ora, molti lettori in Europa e negli Stati Uniti sono sempre più interessati a questi nuovi approcci».
Con questo lavoro si è superata parte della ritrosia verso il concetto di “storia profonda”?
«È importante distinguere lo studio del passato profondo dal concetto di storia profonda. Lo studio del passato profondo è svolto ovunque da archeologi, antropologi, paleontologi, paleoantropologi, genetisti e studiosi in diversi altri campi. Negli ultimi trent’anni in questi campi ci sono state trasformazioni rivoluzionarie che hanno reso più semplice raccontare la storia del profondo passato dell’umanità. Studiosi italiani come Luigi Luca Cavalli-Sforza, uno dei miei eroi intellettuali, sono stati pionieri in questo sforzo. Il concetto di “storia profonda” si riferisce alla necessità di riformare la nostra comprensione dei confini cronologici della storia. In generale, il problema è più acuto negli Stati Uniti che in Europa. Ai bambini viene insegnata una storia relativamente poco profonda, che copre solo gli ultimi millenni, e nel caso degli Stati Uniti, appena tre o quattro secoli. Quando gli studenti vengono all’università, quindi, spesso devono annullare questa storia per cogliere una storia profonda che si estende su tutta la storia della specie o del genere».
È possibile conciliare questa nuova interpretazione con quella più radicata culturalmente?
«A un certo livello, la risposta è no, in parte per le ragioni descritte nella mia risposta precedente. La storia profonda non è molto compatibile con un concetto di storia incorniciato, sia implicitamente che esplicitamente, dalla temporalità. Inoltre, la storia profonda propone che se vogliamo comprendere certe cose sul presente e sul futuro, la storia del passato molto recente, che non copre più di pochi millenni, è insufficiente. Detto ciò, ritengo che la storia sia fiorita quando ci sono molti approcci diversi nel passato umano e dove nessuno di essi ne esclude un altro. Non ogni storia deve essere una storia profonda».
Quanto è importante che la storia di questo libro cominci in Africa? Soprattutto in questo momento storico, anche in riferimento a quell’accenno al razzismo di cui si parla nel libro.
«È estremamente importante, oltre che essere parte critica del libro. Sì, siamo tutti africani. Naturalmente, i paleoantropologi lo hanno detto per generazioni. È tempo che lo dicano anche gli storici. A questo proposito, la storia profonda è anche una delle storie che devono essere raccontate da e per i popoli indigeni in tutto il mondo. Ho avuto molte affascinanti conversazioni con studiosi delle Americhe e dell’Australia circa i collegamenti tra la storia profonda e la storia indigena. È importante rispettare il fatto che i popoli indigeni non necessitano necessariamente di una storia profonda, soprattutto perché il concetto occidentale della storia stessa può essere antitetica alla propria cosmologia».
La storia sacra ha inciso davvero così tanto sugli sviluppi dello studio della storia? Oppure rientra in quel genere di inerzia cui si accenna riguardo lo studio della storia stessa?
«Nel tardo diciannovesimo secolo e all’inizio del Novecento gli storici erano preoccupati di violare i principi della cronologia breve. Come ho sostenuto, la storia sacra era “tradotta” in un diverso quadro cronologico. Tale quadro, per inerzia, ha continuato ad un certo grado fino ad oggi».
È possibile formare una nuova coscienza storica?
«Posso solo parlare per me stesso, ma sì, è possibile formare una nuova coscienza storica usando il concetto di storia profonda. Il libro stesso non sarà sufficiente. Bisogna essere disposti e desiderosi di tenersi aggiornati con i recenti risultati che emergono dall’archeologia, dalla paleoantropologia e dalla genetica. Non vorrei tuttavia dire che la nuova coscienza storica sia in procinto di emergere».
Riprendendo il concetto di imprevisto del libro, ad esempio parlando di Internet, cosa può insegnare questo spostamento del punto di osservazione nello studio della storia?
«Adesso usiamo Internet in modi che erano completamente imprevisti quando è stato creato; in altre parole, l’esistenza stessa di Internet ha permesso di modificare il modo in cui ci troviamo in relazione a Internet. In sintesi, ciò significa che tutti gli elementi del nostro ambiente vissuto che abbiamo creato o alterato sono attori nella creazione della storia».
Dopo questo lavoro si può dire che scienza e storia siano più vicine?
«Questo libro potrebbe contribuire a creare un maggiore dialogo tra scienza e storia. Infatti ci sono un numero crescente di applicazioni scientifiche alla storia, che maturano da campi quali l’archeologia scientifica e la genetica. Non c’è dubbio che gli storici interessati ai tipi di domande indotti dal concetto di storia profonda dovranno imparare a collaborare con gli scienziati in quei settori».
da Avvenire

Pro orantibus. La Giornata per la clausura: le voci di chi si dona pregando

Era il 1953 quando papa Pio XII volle la Giornata pro orantibus. È la giornata dedicata alle comunità di clausurasparse in tutto il mondo, un’occasione per sostenere quanti hanno abbracciato la vita contemplativa e hanno fatto della preghiera la propria missione. L’appuntamento si celebra oggi, memoria liturgica della Presentazione di Maria al Tempio, perché nell’offerta radicale della Vergine al Signore si riconosce pienamente l’ideale della vita consacrata.

Suor Brigida, dall'Indonesia a Napoli

«Sono felice di essere tutta di Dio», esclama radiosa suor Brigida della Sacra Famiglia, 31 anni, che da poco ha fatto la professione perpetua nel monastero delle Passioniste di Napoli. «Con il cuore colmo di gioia – racconta –, elevo il mio inno di ringraziamento alla Santissima Trinità, che mi ha dato questo dono meraviglioso della vocazione. Il Signore mi ha amata per primo e mi ha chiamata a vivere più intimamente con Lui nella vita di preghiera e di contemplazione del suo amore immenso per il mondo e per gli uomini. Sono felice di seguire passo dopo passo Gesù, mio maestro e mio sposo. Sono cosciente della mia debolezza, ma confido nella fortezza della sua misericordia. Credo che la sua misericordia è più grande dei miei peccati e che Lui mi ha scelta non per la mia bravura ma solo per la sua misericordia».
Suor Brigida è un fiore trapiantato in Italia dall’Indonesia, sua terra natia. Studentessa brillante, durante gli anni del liceo conosce la comunità passionista di Maumere, nell’isola di Flores. A vent’anni entra in monastero. I genitori avrebbero preferito l’ingresso in una congregazione di suore di vita attiva, per avere maggiori possibilità di continuare a frequentare la loro unica figlia, ma lei sente con forza il fascino del carisma passionista e sceglie la clausura. Dopo un periodo passato nel monastero indonesiano, suor Brigida accetta di venire in Italia. Mentre vive la sua consacrazione nel convento di Napoli, esplodono i sintomi di una grave patologia renale, ma questo non spegne il sorriso della giovane religiosa che affronta con coraggio una lunga degenza all’ospedale Cardarelli, assistita dalle consorelle e dall’équipe medica. La malattia ha i suoi alti e bassi, ma il giorno della professione perpetua è senza nubi.
«Sì, mi sono accorta che il mio cammino è lungo – commenta suor Brigida – ma sono certa che il Signore è con me tutti i giorni della mia vita. Mi incantano le parole della Scrittura, tratte dal libro del profeta Isaia: “Tu sei preziosa ai miei occhi e io ti amo”. Il Signore non mi lascerà mai, perché sono preziosa ai suoi occhi, e mi ama veramente. Mi ama con amore misericordioso. E alla sua misericordia affido tutta la mia esistenza. Desidero essere come un parafulmine per il mondo tramite l’orazione continua e voglio ricambiare con tutto il cuore l’amore ardente di Gesù Crocifisso. Nella preghiera ricordo i miei genitori e i parenti che sono lontani, in Indonesia, e che mi hanno donata alla congregazione; prego per tutta la mia famiglia passionista, con tanta gratitudine per il bene e la luce che mi ha dato per farmi crescere nella virtù e nell’amore di Dio e del prossimo; prego per tutti coloro che mi sono stati vicini durante il mio ricovero all’ospedale, per il mio padrino e la mia madrina italiani che mi hanno aiutata e mi hanno accolta come una figlia. In particolare ricordo al Signore le giovani che si sentono chiamate alla vita religiosa. A ciascuna di loro vorrei dire: non temere di darti al Signore, non perdere tempo con gli indugi, perché nulla è più dolce dell’amore di Gesù».

Suor Luisa: «Anche la malattia è amore»

Suor Luisa Odifreddi, visitandina di Pinerolo, è come la candela dell’altare: arde perennemente, e più si consuma più dona luce. Ha 79 anni ed è segnata da una dura malattia. In ogni incontro condivide con l’interlocutore ciò che ha nel cuore: la sua passione per Dio, un amore imparato fin da bambina, sulle ginocchia della mamma. Il morbo di Sjogren che l’ha colpita nel 2000 non ha incrinato la sua fede. Suor Luisa è ben cosciente della prognosi del suo male (una sindrome che danneggia il sistema immunitario): prima di entrare in monastero, è stata per diversi anni religiosa fra le Suore di Carità di Santa Giovanna Antida, dove divenne capoinfermiera e guida delle infermiere in formazione.
Suor Luisa, che cosa pensa del mistero della sofferenza?
Penso che tutto è amore. Proprio questi anni di malattia mi hanno portata ad avere la certezza che Dio è amore e che ogni prova è un dono dell’immenso amore con cui Dio mi ha creata, dell’amore con cui mi ha chiamata e del crescendo di amore con cui mi accompagna ogni giorno. Mi sostengono la Parola di Dio, l’Eucarestia quotidiana e alcuni sprazzi di luce che Dio mi dona, come l’esempio di un giovane sacerdote, rimasto totalmente paralizzato e che poteva comunicare solo con la punta di un dito. Le sue ultime parola alla mamma furono: «Quando guardo il Crocifisso e leggo la scritta Inri, penso: “Io non ritorno indietro”». E anch’io, con l’aiuto della grazia di Dio, ripeto: «Io non ritorno indietro ». Perché sono felice di abbandonarmi alla volontà del Padre.
Quale sarà lo sviluppo della malattia?
È una malattia di cui tanti aspetti restano ignoti. Mi metto davanti al mio Crocifisso, penso alle sofferenze di Gesù e gli dico che voglio stargli vicina, anche sul Calvario. Maria è stata vicina a Gesù in croce ed è vicina con infinita tenerezza ad ogni sofferente. Mi piace pregare il Rosario, dirlo più volte ogni giorno. La Madonna è mamma! Ricordo con tanta riconoscenza mia mamma, mi sento risuonare nel cuore le sue parole. Penso di avere questa pace nel cuore, grazie all’intercessione materna di Maria e all’amore di mia mamma che mi ha cresciuta per Dio e ora certo prega per me dal cielo.
E la morte?
La morte è entrare nella vita, è abbandonarsi all’amore, fra le braccia di Dio. Ciò che separa le persone è solo la mancanza di amore. Eppure, anche quando ci sono delle sofferenze morali, quale grande grazia ci viene data. Allora, con l’aiuto di Dio, è il momento di pregare, soffrire, togliere la “s” alla parola “soffrire' e vivere la parola “offrire”. E perdonare, pregando per chi ci ferisce. È Dio che ci mette nel cuore questo fuoco d’amore e ci fa capire che tutto è grazia.
da Avvenire

Stati Uniti. Per un'ora l'amore scavalca il muro con il Messico


L'amore supera i muri. Un cittadino statunitense e una cittadina messicana si sono sposati alla frontiera lungo i loro due Paesi, in una cerimonia dalla portata simbolica in un momento in cui il presidente Usa Donald Trump vuole costruire un muro per bloccare i flussi migratori provenienti da sud.

"Per due amanti questo muro non esiste. L'amore non conosce le frontiere", ha dichiarato la sposa, Evelia Reyes, in abito bianco. I due sposi hanno detto il loro sì in presenza di un giudice messicano alla "Porta della speranza", il varco nella barriera che separa dei due paesi a Payas de Tijuana e che è stata aperta per un'ora dalle guardie di frontiera Usa appositamente per la cerimonia.
Le nozze sono state organizzate dai "Border Angels", una Ong di difesa dei diritti dei migranti. Si è svolta proprio alla frontiera, sotto l'occhio attento delle guardie di frontiera e in presenza di alcuni parenti.
La sposa è originaria dello Stato di Guerrero, nel sud del Messico, ha spiegato alla stampa. Ha incontrato il marito, Brian Houston, tre anni fa a Tijuana. Non avendo i documenti richiesti, non si è potuta recare negli Usa,problema che viene ora risolto dal matrimonioSecondo il giornale San Diego Tribune, Brian Houston non poteva per conto suo recarsi a Tijuana per il matrimonio per ragioni non precisate.
da Avvenire