Grande racconto dei viaggi, nove secoli di esplorazione, conquista e avventura

ATTILIO BRILLI, ‘IL GRANDE RACCONTO DEI VIAGGI DI ESPLORAZIONE, DI CONQUISTA E D’AVVENTURA (IL MULINO, 562 pp., 48 euro)
   Se c’è un genere che non passa mai di moda, è quello della letteratura di viaggio. E se c’è uno studioso che di letteratura di viaggio s’intende, è l’anglista Attilio Brilli. Non c’è da stupirsi, dunque, che il suo ultimo libro, ‘Il grande racconto dei viaggi d’esplorazione, di conquista e d’avventura’, sia un’impressionante miniera di personaggi, date, luoghi geografici. Ma siccome Brilli è anche un bravo divulgatore, le oltre cinquecento pagine (riccamente illustrate) che compongono il suo saggio scorrono veloci quasi come quelle di un romanzo, accompagnando il lettore da un capo all’altro del globo, dal XII secolo fino ai primi del Novecento.
Dopo aver raccontato i viaggi di studio degli intellettuali del Grand Tour e quelli dei pellegrini alla ricerca della salvezza nei luoghi santi, l’autore torna su un altro tema a lui caro, quello delle rotte e dei percorsi tracciati dagli esploratori verso l’Asia e le Americhe, alla scoperta di nuove civiltà, ma soprattutto nuove ricchezze e nuovi mercati. 
Dietro alle mirabolanti avventure di commercianti e navigatori, dietro la sete di conoscenza e alla curiosità verso i “Nuovi Mondi” c’è infatti - spesso nemmeno tanto celata - la brama di ricchezze, sicché è impossibile disgiungere l’esplorazione dalla conquista, l’incontro con popoli stranieri dal tentativo di assoggettarli portando a pretesto una missione civilizzatrice e salvifica autoassegnata: “un lato oscuro dei viaggi - scrive Brilli - di cui l’Occidente ha piena consapevolezza, pur ostinandosi a dissimularne l’estensione e la portata”.
Resta il fatto che sulle imprese di quegli avventurieri, nel senso etimologico di “uomini che partivano alla ventura”, si è costruita la storia avvincente e controversa della nostra civiltà.
Marco Polo, Cristoforo Colombo e Vasco da Gama, certo, ma anche figure che quando va bene identifichiamo con il nome di una via o di una piazza: Filippo Sassetti, Francesco Carletti, Antonio Pigafetta, Louis-Antoine de Bougainville, Richard Burton, James Cook.
Magari non ce ne rendiamo conto, ma è a uomini come loro, alle loro mappe e ai loro racconti talvolta un po’ troppo fantasiosi che l’Occidente è stato debitore da una parte della conoscenza sempre più precisa degli altri continenti, dall’altra dei miti che ne hanno plasmato la mentalità (come quello dell’indigeno cannibale, tanto per dirne uno, anche se Brilli assicura che i racconti di antropofagia sono sempre di seconda mano). Senza contare che il desiderio di emulazione suscitato nei contemporanei dalla lettura dei resoconti di viaggio alimentò per secoli il flusso degli occidentali verso quelle terre lontane, nonostante i rischi enormi e le durissime privazioni dell’itinerario. Ci racconta l’autore, ad esempio, degli spregiudicati mercanti che si gettarono sulla scia di Sebastiano Caboto alla ricerca del mitico passaggio a Nord-Ovest, o dei giovani gesuiti che non salpavano per le missioni oltreoceano spinti dalla vocazione religiosa, ma entravano nell’ordine proprio con la speranza di essere mandati all’avventura. 
La globalizzazione ha portato con sé l’annullamento delle distanze e la perdita del senso di meraviglia di fronte alle diversità: eppure - o forse proprio per questo, il racconto di quei viaggi in capo al mondo continua a esercitare un fascino ammaliante a cui noi moderni, con le nostre Lonely Planet e i biglietti aereo low-cost in tasca, non sappiamo sottrarci.
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