All’interno di quasi tutte le chiese cattoliche ci sono le stazioni della Via Crucis appese ai muri. Spostandoci da una stazione all’altra, accompagniamo Gesù nel suo rapido cammino dal palazzo di Ponzio Pilato a Gerusalemme, dove era stato condannato a morte, fino alla croce e poi al sepolcro. Questo breve e tortuoso itinerario si svolse duemila anni fa in una calda e polverosa città del Medio Oriente. Che senso ha, oggi, ripercorrerlo in una chiesa dell’Alaska o di Città del Capo? Qual è la sua ragione d’essere? Questa antica devozione è il frutto di due tradizioni che si trovano in un rapporto di feconda tensione reciproca.
Da una parte, Dio è ovunque; non è necessario andare in qualche luogo speciale per incontrare il divino. Dio si trova ugualmente a Johannesburg come a Giakarta o a Gerusalemme. D’altra parte, Dio si è incarnato in un unico essere umano, che visse in una remota provincia dell’Impero romano (divenuta per noi, quindi, la Terra Santa). L’attrito fra due tradizioni in contrasto sprigiona intuizioni interessanti! I cristiani del I secolo credevano fortemente nell’onnipresenza di Dio. Non abbiamo bisogno di luoghi sacri per essere in contatto con Dio. Gesù disse alla Samaritana presso il pozzo: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre» (Gv 4,21).
Stefano, il primo martire, viene arrestato perché «non fa che parlare contro questo luogo santo» (At 6,13), il tempio. L’espansione del cristianesimo tutto intorno al Mediterraneo e la distruzione del tempio nel 70 d.C. rappresentarono la conferma del fatto che la nuova fede non aveva legami con alcun luogo sacro. Si può essere cristiani dappertutto. La globalizzazione è presente nel Dna del cristianesimo fin dalle origini.
Nel IV secolo, Gregorio di Nissa dichiarava che un cambiamento di luogo non porta più vicino a Dio, «ma là dove sei, Dio ti verrà incontro». Martin Lutero disprezzava i cristiani che veneravano i luoghi santi: «E riguardo alla tomba dove il Signore giacque, e che ora è posseduta dai saraceni, Dio la stima quanto un pascolo per le vacche in Svizzera». Fin dall’inizio, tuttavia, questa tradizione si trovò in tensione con un’altra che rispondeva all’universale desiderio religioso di compiere pellegrinaggi. Il cristianesimo continuò ad alimentare l’amore ebraico per Gerusalemme e per il tempio. «Il Signore ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe» (Sal 87,2). Qualcuno sostiene che la narrazione della Passione nel Vangelo secondo Marco si basa sulla versione più antica della Via Crucis, quando i pellegrini a Gerusalemme seguivano il percorso delle ultime ore di Gesù (cfr. Rowan Williams, Meeting God in Mark). L’angelo dice alle donne: «Ecco il luogo dove l’avevano posto» (Mc 16,6). Fin dall’inizio la gente andava letteralmente a vedere. Il culto dei martiri trovava espressione nei pellegrinaggi alle loro tombe.
A partire dal IV secolo, la Terra Santa divenne la meta archetipa di schiere di pellegrini. La madre di Costantino, Elena, dichiarò di avervi trovato la vera croce e il vero sepolcro di Gesù. I pellegrini andavano a contemplare i luoghi in cui Gesù aveva vissuto ed era morto. San Girolamo scriveva alla discepola santa Marcella che ogni volta che entriamo nel sepolcro, vedia- mo il Salvatore che giace avvolto nel lenzuolo. Se ci fermiamo per un momento, possiamo ancora vedere l’angelo seduto ai suoi piedi e il telo ripiegato vicino alla sua testa. Molti cristiani dell’Europa occidentale, però, non potevano recarsi fino a Gerusalemme.
Era un viaggio troppo lungo, costoso ed estremamente pericoloso, specialmente in tempi di conflitto tra cristianesimo e islam. La Via Crucis si sviluppò, di conseguenza, come un mezzo per compiere quel pellegrinaggio restando a casa propria. Bastava andare nella chiesa più vicina. Si trattava di una brillante conciliazione tra due convinzioni in tensione tra loro, ciascuna delle quali coglie una verità della nostra fede: Dio è dappertutto, e – meraviglia! – ha condiviso le nostre vite in un luogo e in un tempo particolari. Dovunque nel mondo, da Chicago a Tokyo, puoi camminare con Gesù, puoi vederlo mentre abbraccia sua madre e incontra le figlie di Gerusalemme, muore sulla croce e viene deposto nel sepolcro. È una bella espressione del contenuto centrale della nostra fede che Gesù ha abbracciato i drammi di ogni vita umana, le nostre vittorie e sconfitte, le nostre gioie e sofferenze.
Ripercorrendo la Via Crucis ricordiamo che il Signore è con noi, specialmente quando ci sembra di esserci impantanati, di avere smarrito la strada, di non riuscire più ad andare avanti. Egli cammina con noi, inciampa con noi quando cadiamo e ci aiuta a rimetterci in piedi. Tutto comincia con la sua condanna a morte. È allora che Gesù entra nella Passione. Non è quando comincia a soffrire: questo era già cominciato molto tempo prima. Passione letteralmente significa che Gesù subisce delle azioni che vengono compiute su di lui. È trattato come un oggetto. Viene condannato e caricato della croce. È sopraffatto dallo sfinimento.
Viene inchiodato, trafitto, ucciso e sepolto. È con noi ogni volta che avvertiamo che la nostra vita non è nelle nostre mani, quando ci sentiamo spinti di qua e di là, umi-liati, tormentati e strumentalizzati, e nell’incapacità di reagire veniamo condotti alla morte. Ciascuna stazione ricorda un momento in cui Gesù si è fermato. Stazione significa semplicemente luogo di sosta, come quello dei treni che si fermano alle stazioni ferroviarie. Gesù si ferma a parlare con le persone che piangono per lui; si ferma quando cade a terra sfinito, incapace di andare avanti; si ferma sul Golgota, che è il punto finale del suo cammino.
Gesù ci è vicino quando anche noi ci fermiamo e ci chiediamo se è ancora possibile vivere. Forse ci ha bloccati una malattia, un fallimento, un dolore, la disperazione. Ma Gesù va avanti, compiendo lentamente la sua strada verso la croce e la risurrezione, e ci porta con sé nella speranza. Mettiamoci in cammino.
Nessun commento:
Posta un commento