GIUSEPPE MATARAZZO Avvenire
«Ogni due minuti vengono realizzate più foto di quante abbia prodotto tutto l’Ottocento. Diventa necessario chiedersi: la fotografia come l’abbiamo conosciuta è ancora fotografia?». La domanda che pone Denis Curti nel suo ultimo, poderoso libro, Capire la fotografia contemporanea (Marsilio, pagine 368, euro 18,00), è di difficile risposta. Cerca di farlo l’autore curatore, direttore artistico della Casa dei Tre Oci a Venezia, fondatore dello spazio Still di Milano, ex direttore del mensile Il fotografo, con un passato fra Sotheby’s e Contrasto affrontando l’argomento da tutti i punti di vista: il senso e il valore della fotografia, come storytelling e forma di comunicazione, ma anche arte e collezionismo, fino alla prova del digitale. Un viaggio attraverso tutto il mondo della fotografia contemporanea, incontrando e ripercorrendo i lavori di illustri maestri, da Erwitt a Cartier-Bresson, da Salgado a Newton. Pagine dense di una fotografia che sembra appartenere a un’altra epoca. Eppure non è così. «Per me – scrive Curti – il fotografo era un fedele registratore della realtà. Ben presto, ho imparato a prendere le distanze da questa impostazione, una volta capito che la fotografia era una faccenda molto più sottile e complessa della pura trascrizione meccanica del reale, e che mi trovavo di fronte, piuttosto, a un 'linguaggio ambiguo'». A prescindere dagli stili e dalla tecnologia. Nell’era della postfotografia, per Curti è il momento di andare a fondo per capire un’arte che più di tutte ha dovuto fare i conti con la rivoluzione digitale. Pagandone il conto per certi versi, acquisendo straordinari vantaggi per altri. Tempo fa, Ferdinando Scianna, proprio da queste colonne, espresse il suo paradosso: «La fotografia? Sta morendo per eccesso di successo». È davvero così? O è solo un’altra cosa?
Curti propone un prezioso vademecum per orientarsi nel «vasto mare della fotografia contemporanea» e «plurale». Un invito a sapere guardare, a distinguere. Con questa consapevolezza: «La fotografia è sempre il risultato di una messa in scena, anche nel reportage, perché ogni volta il fotografo sceglie cosa guardare e come raccontarlo e la somma di queste scelte si chiama 'punto di vista', una vera e propria presa di posizione nei confronti delle cose del mondo, ed è evidente che una narrazione non può essere neutrale». E questo vale per l’analogico delle guerre di Capa e il digitale del citizen journalism e del siamo tutti fotografi. Certo, la rivoluzione digitale incide al punto che Curti parla – guardando a Instagram – di deriva «totalitaria» quando «il social network assurge a punto di riferimento» assoluto «nel look e nella moda», in una società del «narcisismo» che vede «nel selfie il suo apice realistico». In Black Mirror, serie tv sbarcata nel 2016 su Netflix, nell’ipotetica società di Nosedive la tecnologia è totalizzante e il valore di ogni individuo è decretato da un sistema a punti. Nosedive non è un futuro possibile, «ci parla del presente», dice Curti. In questo presente la fotografia diventa 'post' perdendo il supporto fisico, l’archeologico rullino. Il rischio è però che nella fotografia dei pixel si possa perdere la traccia, la stampa e quindi la memoria. La vera sfida è allora la prova del tempo: la fotografia come strumento per raccontare la Storia. Se è ancora fotografia dipende dalla fotografia. Ogni foto si racconta. «Noi guardiamo le fotografie – conclude Curti – ma anche loro, segretamente, guardano noi».
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