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Un prete fotografo tra '800 e '900 da Parigi a Tortorici, la collezione storica del museo etnofotografico Franchina/Letizia

 

E' stata inaugurata venerdì 14 Giugno, allo Spazio LOC, la mostra "Un prete fotografo tra '800 e '900, da Parigi aTortorici", a cura dell'Avvocato Calogero Randazzo e dell'Architetto Massimo Ioppolo.

Un vero e proprio viaggio nel tempo attraverso le rare e interessanti immagini esposte allo Spazio LOC (Capo d'Orlando), che fanno parte di una ben più ampia collezione, custodita all'interno dell'ex municipio di Tortorici, oggi sede del museo etnofotografico Franchina/Letizia.

Monsignor Calogero Franchina è il prete fotografo che fa ritorno a fine 800 da Parigi - dove porta avanti i suoi studi di teologia - a Tortorici, suo paese d'origine, portando con sé questa nuova arte, la fotografia.

Per quasi mezzo secolo, Mons. Franchina ritrae personaggi, eventi e paesaggi di Tortorici, costruendo ad arte e, con arte, un grandioso fotoreportage della vita e dei costumi della sua comunità e raccontando su carta fotografica quella che è la storia evolutiva di un pò tutto il meridione, non tralasciando nei ritratti l'estetica parigina della Belle Epoque.


Per un fortuito evento qualche anno fa, tutto il materiale fotografico del prete e della nipote - Marietta Letizia, erede dell'arte e dell'attrezzatura dello zio – vengono ritrovati e collocati all'interno del museo, uno dei più ricchi ed interessanti musei etnografici dell'intero Sud italia, un piccolo gioiello ancora non molto conosciuto del territorio nebroideo


La mostra resterà aperta al pubblico fino al 6 Luglio

messina today

Ballarò si mette in mostra con Marras e Bellina. Il designer e il fotografo raccontano il quartiere di Palermo

 

Cosa succede quando un famoso stilista e un fotoreporter, che vive nel più popolare mercato di Palermo, s'incontrano per caso sul web? Accade che uomini e donne escono dalle ombre di uno dei quartieri più degradati e, al tempo stesso, più vitali del Sud vestendo Marras.

La mostra "Nonostante Ballarò", che si apre domani 3 maggio nell'Oratorio dei SS.  Crispino e Crispiniano, è la storia per immagini del dialogo, nato a distanza durante la pandemia e poi divenuto sempre più intimo e ravvicinato fra Antonio Marras, designer di moda fra i più apprezzati del panorama attuale, e Francesco Bellina, fotografo palermitano. Le 18 fotografie esposte negli spazi della chiesa sono la narrazione di alcuni giorni dello scorso settembre in cui l'artista sardo, che abita e lavora fra Alghero e Milano, ha incontrato il fotografo siciliano - nel luogo che quest'ultimo definisce casa - e ha vissuto con lui, in un set tanto itinerante quanto aperto e reale.

    Ballarò è il cuore oscuro di Palermo, incastonato nel centro storico racchiude in sé tutte le contraddizioni di una città che, qui più che altrove, è terra di frontiera, un luogo dove la nuova immigrazione e i vecchi abitanti riescono a convivere più o meno in pace, nonostante siano sull'orlo dell'abisso. È probabilmente il quartiere che conserva meglio il fascino trasgressivo di vicoli e di vite al limite, di emergenze monumentali e di rovine.
    In quei giorni di inizio autunno, Marras ha letteralmente travolto luoghi, persone e cose: parcheggiatori abusivi, il mercato del baratto, l'autolavaggio, il circolo Arci utilizzato per backstage e fitting. Le sue creazioni sono divenute pretesto, punto di partenza per una ricerca che unisce mondi separati da distanze siderali. Il risultato è un documento della vita reale del quartiere, un'incursione nel quotidiano dei suoi abitanti di giorno e di notte, fra alberi di fico e macerie, senza imposizioni e set preconfezionati ad uso flash. Le foto di Bellina ci mostrano il volto di uomini e di donne, che per molti un volto non ce l'hanno. Sono scatti neobarocchi dal bel taglio compositivo, che sanno cogliere il senso della ricerca di Marras e, al tempo stesso, trasformare situazioni, azioni ed eventi in un percorso ricco di umanità e di nuove e diverse modalità di comunicazione. I protagonisti delle foto indossano gli abiti che Marras ha portato da Milano racchiusi alla rinfusa in due valigie, divenendo gli interpreti di una maniera diversa di concepire il patinato mondo della moda. "Re e regine per un giorno" ci raccontano le loro storie senza infingimenti. Coi loro sguardi, le posture, la spontaneità dei gesti, ci offrono spunti nuovi che avvicinano universi lontani per cercare un più diretto legame tra l'immagine e la realtà che la compone, fino a decostruire e mutare la dimensione statica e contemplativa dell'opera. Alcuni scatti sono esposti anche all'Hotel Villa Igiea, partner della mostra. 
   

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La mostra a Milano. Con Brassaï il chiaroscuro di Parigi diventa colore

A Palazzo Reale una megaretrospettiva dell’opera del fotografo d’origini rumene, che amava la notte e ridisegnò la geografia umana della capitale francese
Brassaï, “Soirée Haute couture, Paris 1935” (particolare)

Brassaï, “Soirée Haute couture, Paris 1935” (particolare) - © Estate Brassaï successione/Philippe Ribeyrolles

  Milano, Palazzo Reale Brassaï L’occhio di Parigi Fino al 2 giugno Brassaï, “Couple d’amoureux dans un café parisien, Place Clichy” / © Estate Brassaï successione/Philippe Ribeyrolles Brassaï, “Soirée Haute couture, Paris 1935” / © Estate Brassaï successione/Philippe Ribeyrolles Sarà che la sua terra era la Transilvania, in Romania, circondata dai Carpazi, ma Brassaï (pseudonimo di Gyula Halász, che cambiando nome volle ricordare sempre le sue origini a Brassó), fotografo e molte altre cose, fra cui scrittore e pittore, si nascondeva di giorno e viveva e lavorava di notte, come un vampiro sarebbe fin troppo facile dire, pensando alla sua patria. Venuto via da Brassó e approdato a Parigi, non tornò mai più indietro, la ragione pare fosse che non voleva guastare nella sua memoria i ricordi d’infanzia che si era portato dietro fino in Francia. Perché non lo si giudicasse un figlio ingrato prese il cognome Brassaï, che vuol dire appunto “di Brassó”, come non volesse mai dimenticare il ventre materno da cui era uscito, ma anche per rendere omaggio davanti a tutti alla sua città d’origine. Sorprende l’ampiezza della mostra allestita in queste settimane a Palazzo Reale: oltre 220 fotografie, in gran parte stampate dallo stesso artista, che ci parlano della versatilità tecnica e creativa di Brassaï. Un’ampiezza tre volte tanto il numero delle fotografie di cui era composta al MoMA di New York tra il 1968 e il 1969 una sua retrospettiva, soltanto 75 appunto, eseguite tra gli inizi degli anni 30 e la fine dei 50. Il curatore, John Szarkowski, scrive che fino a quel momento la fotografia era stata polarizzata da due Maestri: Cartier-Bresson e Brassaï, definito “un angelo delle tenebre”, per la sua cultura fatta di senso del primitivo e del fantastico, di notti e vicoli tenebrosi, senza perdere niente di quel naturalismo che lo rendeva anche fedele alla realtà. Una mostra in corso come quella a Milano si può capire nella sua ampiezza sia per l’ovvia ragione che chi la organizza punta a fare pubblico, e oggi la quantità vince sempre, e talvolta annacqua la qualità; ma quelle duecento immagini sono ancora niente se si pensa che l‘archivio di Brassaï conta trentamila scatti. La notte era il bagno di mistero nel quale egli entrava, frequentando anche la Parigi vissuta dalla gente comune negli anni 30 e 40; i bistrot, i luoghi di svago, le strade popolate di falene, procacciatori e uomini sposati in cerca di distrazione e consolazione, le sagome nere delle statue che si stagliano sulle luci dei lampioni, i porticati solitari del Palais-Royal, le scalinate di Montmartre, le giornate di pioggia. Brassaï stampava da solo i suoi negativi perché affidarli a un altro gli sarebbe sembrato come far scorticare l’immagine della sua carne resa tangibile attraverso l’occhio, la cui membrana veniva stimolata dalla luce generando una sensazione profonda, materica quasi. Una parte decisiva nella sua fotografia aveva il volto dei personaggi, quelli propriamente ritratti, gli artisti per esempio, o le signore della moda, che produsse maggiormente nella seconda parte della propria vita, ma anche quelli che si trovavano nei quartieri più poveri, di fronte a una sala da ballo, nella varietà semplice e non troppo pretenziosa dei bordelli tra anni 30 e 40, e nondimeno i locali del bel mondo amante degli incontri romantici e del lusso mentre Parigi si sta preparando a un nuovo conflitto. Oltre la varia umanità Brassaï è attratto dalle cose naturali, anche le più ordinarie: oggetti usati, cose curiose, gocce d’acqua su una superficie, rami e alberi, porticati desolati, graffiti sui muri... Su questo segno ribelle e libertario dove l’umanità dichiara la propria volontà di incidere sui luoghi la traccia del proprio passaggio, fosse anche per una romantica dichiarazione d’amore, o per qualche atavico rifiuto del vivere civile, Brassaï ha inventato una sorta di quadro scolpito nella fotografia. I graffiti nelle metropolitane o quelli del Muro di Berlino e di altre pareti del disagio collettivo hanno allungato il tempo di quei gesti di allegria ma anche di opposizione di chi non accetta una certa invadenza del potere. Invece, Brassaï ha fatto tesoro di alcuni esempi della cultura pittorica moderna: dall’informale europeo che graffia proprio la tela dipinta, alle Tag che oltre trent’anni fa crearono un vero genere artistico teso ad arricchire gli spazi della libertà nella sfera pubblica: Brassaï ne riscatta con le sue fotografie la dignità che è poi quella dell’umanità che intende certificare anarchicamente su un muro i propri sentimenti, i propri buoni o cattivi pensieri, l’appartenenza a un luogo. Col suo occhio interiore Brassaï ha creato un genere. Ma il dono dell’immaginazione lo aveva spinto a fare ben altro e a tenere sempre aperti i legami con le arti visive. Quanto alla fotografia, la moglie Gilberte, anima gemella anche nella sua ricerca estetica, questa verità espressa dal marito: «Un negativo non significa nulla per un fotografo come me. È solo la stampa dell’autore che conta». Brassaï sviluppava i negativi, preparava i bagni di fissaggio e realizzava da solo le stampe e gli ingrandimenti nel suo laboratorio. «Aveva decine di bottiglie contenenti diversi preparati, e al muro erano appese molte formule chimiche. Restava sveglio e lavorava a lungo, soprattutto di notte». Brassaï cantore di Parigi, non fu però in senso assoluto un fotografo della Ville; il suo occhio e il suo interesse per l’umanità fu pari a quello per la natura, e in ogni sua fotografia, anche la più soppesata riguardo al contesto urbano, si trova spesso un angolo dove la natura entra e rende miracoloso l’insieme. In questo senso, Brassaï è propriamente un alchimista dell’immagine, con un’attenzione precisa per i dettagli (anche nelle foto che contemplano l’alta moda) il senso magico della realtà si unisce, tra l’altro, a una sua propria Cabbala del numero 9. Appassionato di numerologia, sosteneva di essere nato il 9-9-99 alle ore 9 di sera... Aveva una passione per il Bosco di Bomarzo con le sculture grottesche e surreali (tra l’altro sviluppò forti legami col gruppo dei surrealisti) e collezionava, come ricorda la moglie, reliquie naturalistiche: piccoli teschi e scheletri di polli o di tritoni, nell’ambito dei minerali, cristalli e ciottoli, oggetti di legno recuperati in qualche bottega di bric-à-brac, dipinti naif e opere d’Art brut; possedeva anche un San Sebastiano in pietra dove, quasi esorcizzandone l’immagine, al posto delle frecce aveva infilato delle sigarette. Una ironia nata dal senso perturbante del martire. Lavorò molto per la rivista “Harper’s Bazaar”, dove – diceva – andava in scena il mondo dell’America a colori. Amava circondarsi di giovani di talento, e fra i suoi frequentatori si trovavano Calder e Miró, Jean Dubuffet; amava leggere e rileggere Proust, e in fondo si capisce dalla sua fotografia quanto contasse il discorso del romanziere sulla Madeleine: la fotografia di Brassaï è una sorta di Recherche dell’esperienza che comincia prima che il ricordo si sia diluito, e culmina in una immagine che fissa la memoria in qualcosa che sembra duro come la base litografica. Nella sua lunga vita frequentò molti artisti e scrittori e il suo ultimo libro fotografico, nel 1982, lo dedicò a loro. Su tutti ebbe un peso l’amicizia con Picasso, che cominciò a frequentare nel 1932, e che portò alla realizzazione delle Conversations avec Picasso, con la numerosa serie di fotografie e lo scambio di esperienze verbali, di cui troviamo prova in mostra. Un’amicizia fra due uomini pieni di esperienza della vita, che durerà fino alla morte di Picasso nel 1973. Il curatore della mostra di Milano, Philippe Ribeyrolles, conclude la sua introduzione in catalogo (Silvana) notando che Brassaï «è stato soprattutto un camminatore». E ha ragione, perché la realtà ti sorprende dove non ti aspetti mentre le stai andando incontro, e Brassaï – che non ha quel senso dell’istantaneità che aveva Cartier-Bresson – ma cerca ogni volta di entrare in osmosi con l’aura notturna di Parigi, deve saper divinare l’imprevisto avvolgendosi nelle tenebre della città irradiate dai lampioni. Che sia il testimone di un mondo scomparso, è difficile dirlo; si potrebbe rovesciare la posizione e sostenere che in fondo è lui che lo rende occulto avvolgendolo in quel chiaroscuro che, per certi versi, fa di ogni sua fotografia un quadro d’ambiente caravaggesco dove il bianco e nero si carica, grazie alla sensibilità interiore di Brassaï, di una luminosità esistenziale che si tempera di colore. Come Caravaggio ogni sua foto chiama il personaggio all’ipnosi: “a me gli occhi”. E in effetti diceva che era necessario eliminare tutto il superfluo e guidare l’occhio come un dittatore. La Cabbala del nove ha finito col guidare il curatore a una ripartizione dei temi principali in nove sezioni: le foto di gioventù, tre sono su Parigi, una sui graffiti e una sulla donna, non potrebbe infine mancare la moda e due sezioni dedicate all’incontro profondo fra Brassaï e gli altri. E accanto anche alcune prove artistiche di disegno, pittura e scultura. È forse il caso di concludere ricordando che anche Cartier-Bresson era partito dalla pittura e concluse la sua vita disegnando e realizzando acquerelli. Due storie straordinarie che spiegano molte cose della fotografia. 
avvenire.it

A Camera Torino Dorothea Lange e la sua Mio grant Mother dal 19 luglio 200 opere sulla crisi climatica e le migrazioni


È Dorothea Lange la nuova protagonista dell'estate di Camera. Dopo Eve Arnold continua il viaggio nella storia della fotografia con un'altra maestra dell'immagine documentaria, autrice di una delle icone più celebri del Novecento: la toccante Migrant Mother scattata nel 1936.

 Curata dal direttore artistico di Camera Walter Guadagnini e dalla curatrice Monica Poggi, la mostra presenta il percorso della fotografa in oltre 200 opere, con particolare riferimento agli anni Trenta e Quaranta, picco assoluto della sua attività. La crisi climatica, le migrazioni e le discriminazioni sono alcuni dei temi attualissimi trattati.

    Il percorso di mostra, visitabile dal 19 luglio all'8 ottobre, si concentra in particolare sugli anni Trenta e Quaranta, picco assoluto della sua attività, periodo nel quale documenta gli eventi epocali che hanno modificato l'assetto economico e sociale degli Stati Uniti. Fra il 1931 e il 1939, il Sud degli Stati Uniti viene infatti colpito da una grave siccità e da continue tempeste di sabbia, che mettono in ginocchio l'agricoltura dell'area, costringendo migliaia di persone a migrare. Dorothea Lange fa parte del gruppo di fotografi chiamati dalla Farm Security Administration (agenzia governativa incaricata di promuovere le politiche del New Deal) a documentare l'esodo dei lavoratori agricoli in cerca di un'occupazione nelle grandi piantagioni della Central Valley: Lange realizza migliaia di scatti, raccogliendo storie e racconti, riportati poi nelle dettagliate didascalie che completano le immagini. È in questo contesto che realizza il ritratto, passato alla storia, di una giovane madre disperata e stremata dalla povertà (Migrant Mother), che vive insieme ai sette figli in un accampamento di tende e auto dismesse. 

Steve McCurry racconta l'infanzia in 100 scatti. A Firenze la prima mostra sul tema del fotografo in Italia

Bambini profughi o lavoratori, ragazzi che giocano ad arrampicarsi su un cannone o si divertono nel fango, che rincorrono un pallone durante un acquazzone monsonico, o suonano una chitarra realizzata con materiali di scarto. Sono i protagonisti della mostra 'Steve McCurry Children', con scatti del celebre fotografo americano, che si tiene dal 19 maggio all'8 ottobre al Museo degli Innocenti di Firenze.

La rassegna, la prima mostra tematica in Italia dedicata all'infanzia di McCurry, propone cento fotografie, alcune delle quali mai esposte prima in Europa, realizzate dal fotografo in quasi cinquant'anni di attività, ritraendo bambini in scene di vita quotidiana in ogni angolo del mondo.
    Il visitatore seguirà idealmente McCurry nei suoi viaggi attraversando India, Birmania, Giappone, Africa fino al Brasile, entrando in contatto con le etnie più lontane e le condizioni sociali più disparate. Una galleria di ritratti che racconta l'infanzia in tutte le sue sfaccettature e con una caratteristica comune a tutti, lo sguardo dell'innocenza. Un viaggio ideale che sarà accompagnato anche da approfondimenti di attualità curati dall'Istituto degli Innocenti, ente per il quale, commenta la sua presidente Maria Grazia Giuffrida, "è un onore ospitare la prima mostra tematica dedicata all'infanzia di uno dei fotografi più conosciuti e amati di sempre. Da tempo il Museo degli Innocenti propone mostre e attività culturali, ma la mostra Children di Steve McCurry è particolarmente pregnante per il soggetto scelto che coincide perfettamente con la ragione d'essere dell'Istituto, nato nel 1419 per accogliere, accudire e tutelare i bambini meno fortunati". Per il vicesindaco e assessore alla cultura Alessia Bettini "la mostra non rappresenterà solo l'occasione di ammirare fotografie straordinarie ma anche di tenere accesi i riflettori sui diritti dei bambini in ogni parte del mondo". 

ansa.it

Salone Off, Le vergini giurate alla Cavallerizza. Le foto di Stefanelli sulle donne albanesi diventate uomini

TORINO - Le Burnesh del Nord dell'Albania ormai sono poche decine e sono quasi tutte anziane. Sono donne che hanno rinunciato alla loro identità e si vestono e si comportano come uomini perché solo così possono votare, lavorare, portare pantaloni, bere alcolici o fumare.

In alcuni casi lo hanno dovuto fare per sopperire alla mancanza di un capofamiglia o per sfuggire a un matrimonio non gradito. Alle 'Vergini Giurate' - così chiamate perché hanno fatto voto di castità rinunciando alla loro femminilità in toto - la fotografa Valentina Stefanelli ha dedicato un progetto e venti dei suoi scatti saranno in mostra alla Cavallerizza Reale da mercoledì 17 maggio alle 18 fino al 22 maggio, in occasione della XIX edizione del Salone Off, per il Salone del Libro di Torino. Il Paese ospite quest'anno è proprio l'Albania.
    Le foto di Valentina Stefanelli, romana, 45 anni, sono state scattate nel 2016 nel nord dell'Albania, al confine con il Montenegro, in una zona rurale. "Avevo letto il romanzo Vergine giurata della scrittrice albanese Elvira Dones, da cui è stato tratto il film di Laura Bispuri. Ho cominciato a informarmi, è stato per anni un mio pallino, ma non è stato facile organizzare il viaggio. Mi ha accompagnato una ragazza albanese che vive in Italia e che ha fatto da interprete. Sono state molto disponibili a raccontare la loro storia, anche se il sesso per loro è un argomento tabù", spiega all'ANSA Valentina Stefanelli.
    Le immagini descrivono e raccontano quattro donne burnesh, molto diverse tra loro con storie e vite lontane. I loro volti sono molto espressivi, gli sguardi penetranti, fieri. Shkurtan, 81 anni, si è sentita uomo da sempre e non ricorda quando ha scelto di diventarlo; Diana Rakipi, 62 anni è stata la prima donna albanese a entrare in polizia; Vida Marku, 74 anni trascorsi a lavorare duramente, bevendo, fumando e dicendo parolacce come i maschi; Gero, 17 anni, cresciuta fin da piccola come un bambino e orgogliosa di rappresentare una antica tradizione. Sembrano uomini in tutto, nelle movenze, nell'aspetto, nel comportamento, nello status sociale. Non resta nulla della loro identità femminile soppressa prestando fede all'antico codice familiare conosciuto con il nome di "kanun".
    "Oggi l'Albania sta facendo tanti sforzi per avvicinarsi all'Europa. La situazione delle donne è migliorata a Tirana e nelle città, ma è una tradizione da testimoniare anche perché come dimostra il caso di Gero questa tradizione antica ha ancora un valore sociale e morale", sottolinea Valentina Stefanelli.
    (ANSA).
   

Vezzano sul Crostolo (Reggio Emilia) fiera dell’Asparago selvatico: arte e cultura

Domenica 7 maggio alle ore 10,30 nella Sala civica del comune di Vezzano sul Crostolo, nell’ambito della fiera dell’Asparago selvatico, il sindaco Stefano Vescovi presenta il libro ‘Il Paese – La Vecchia La Bettola’.

Il volume è il quinto di una serie di ricerche fotografiche che indagano il territorio del Comune pedecollinare e che si ripropone di arrivare a dieci, ricerca che ha avuto fin da subito l’appoggio degli amministratori locali.

Dopo il primo dedicato a Pecorile con gli scatti di una decina di fotografi, il secondo ha puntato gli obiettivi di Stefano Meschieri e Marco Reverberi su Montalto, il terzo volume, con le immagini di Luigi Menozzi, ha rivolto lo sguardo al paesaggio ed infine il quarto, con le fotografie di Matteo Colla, è stato dedicato alle architetture di tutto il Comune.

La serie è curata da Giuseppe Maria Codazzi che per questa ricerca sui borghi de La Vecchia e de La Bettola ha affidato l’incarico ad Annunziata Davoli e Daniela Storchi, fotoamatrici, sì, ma con una passione per l’immagine che a volte si fa fatica a riscontrare in tanti professionisti.

Dopo il centro di Vezzano sul Crostolo il borgo di La Vecchia è forse il più conosciuto, un po’ perché sosta, spesso inevitabile, per un caffè, ma soprattutto per un fatto ben più tragico, l’eccidio della vicina Bettola.

Oggi ce lo ricorda la ‘Composizione monumentale’, noto a tutti come monumento ai Martiri. L’istallazione artistica fu progettata da Paolo Gallerani, Luciano Aguzzoli e Nino Squanza, e segna così bene nel tempo e nello spazio questo luogo della memoria.
Anticamente il borgo era un’estensione delle proprietà del feudo di Montalto, di proprietà della famiglia Canossa, noto soprattutto per i suoi mulini alimentati così bene dalla vicina corrente del torrente Crostolo.

Ma quella che oggi è la Statale 63, per di lì, ha iniziato a passarci solo nel XIX secolo e l’attuale sviluppo di La Vecchia è figlio di quella decisione.

“Quella riga quasi diritta – scrive Codazzi nella presentazione – tirata dagli ingegneri, per unire la pineta di Vezzano con il ponte della Bettola, Annunziata e Daniela l’hanno percorsa parecchie volte. Ci sono andate la mattina presto, quando la luce arriva da Montalto, per ritornarci alla sera, quando il sole se ne va a letto a Paderna. Si sono fermate a chiacchierare con la gente del posto, per fare un ritratto, per cogliere un particolare, ma anche per sottolineare luoghi nascosti ai più.

Hanno lasciato il loro sguardo scorrere lungo le colline e sulle rive scoscese dei calanchi, sulla striscia nera d’asfalto lasciata libera dalla neve, sulle pietre delle case e sull’acqua del torrente, per arrivare fino a ridosso di quel ponte, anche lui spettatore del terribile eccidio.”

“La Vecchia è unica – scrive il vicesindaco Paolo Francia nell’introduzione – e ovvia nel contempo. Una località come tante e come nessuna… Perché La Vecchia si nasconde timidamente, davanti al passaggio continuo di innumerevoli viaggiatori che ripetutamente la attraversano.

La strada è una lama che la divide, la ferisce e ne condiziona la vita. La strada corre dritta e induce il passante disinteressato a guardare sempre davanti a sé. Ma la vita, le persone, i vicoli, i sorrisi e l’identità sono ai lati della via e fioriscono verso il fiume e la collina, con riservatezza e decoro.”

laliberta.info

Il giorno e la notte in un fiore, è italiana la foto del giorno della Nasa

AGI - Il giorno si trasforma in notte come lo scorrere dei petali di un fiore: il "momento magico" di questo passaggio è stato colto dall'astrofotografo siciliano Dario Giannobile, il cui scatto è stato scelto oggi dalla Nasa come foto del giorno (https://apod.Nasa.gov/apod/ap230506.html).

"Il cielo si tinge di blu scuro per poi scurirsi improvvisamente fino a diventare buio - spiega all'AGI Giannobile - ma questa fotografia è qualcosa di più: uno star trail a spirale dove il pianeta Venere e la Luna ruotano fino a lambire le rocce dell'Argimusco e si dispongono creando la forma di un fiore stellare".

L'altipiano dell'Argimusco è un complesso archeologico e rupestre, amato dagli archeoastronomi, nel Messinese, tra Montalbano Elicona e Novara di Sicilia. È una sorta di Stonehenge siciliana, sede di favoleggiamenti e rocce con figure zoomorfe e antropomorfe. Giannobile, astrofotografo già premiato dalla Nasa, si è appostato qui la sera del 22 aprile, calcolando ogni esposizione per mantenere un equilibrio costante di luce e colore. Vicino all'orizzonte occidentale, una falce di Luna e Venere sono i due fari celesti piu' luminosi. Petalo dopo petalo la coppia si avvicina a spirale al centro del fiore. In silhouette attorno al centro del fiore del crepuscolo ci sono le rocce siciliane dell'Argimusco. 

RIPARTE PHOTOGRAPH-ER È ONLINE IL BANDO


 PHOTOGRAPH-ER è rivolto a giovani fotografə tra i 18 e i 35 anni di età residenti o domiciliatə in Emilia-Romagna, per sostenerlə nel loro percorso di formazione artistica e professionale.

Il percorso prevede lezioni frontali, tavoli di confronto e workshop con l’obiettivo di sviluppare e incentivare il processo artistico dei giovani artistə grazie all’incontro e all’insegnamento di fotografə affermati, ma anche di favorire l’accesso al mondo del lavoro attraverso lo scambio con diversi professionistə del settore.
Durante la formazione infatti i partecipanti avranno modo di confrontarsi con espertə del mondo dell’arte e della fotografia, provenienti da diversi ambiti e settori: fotografə professionistə, curatorə, photoeditor, galleristə.
Il percorso è totalmente gratuito.

 

 

PROGRAMMA

 

Sabato 25 marzo ore 10-17 [IN PRESENZA ]
Incontro di presentazione

 

Domenica 25 marzo ore 10-17 [IN PRESENZA ]
Workshop con Renata Ferri: come si scrive e presenta un portfolio

 

Sabato 1 aprile 2021 ore 11-13 [IN PRESENZA ]
Le gallerie: come promuovere e vendere il proprio lavoro?
Incontro con Marcella Manni e visita della galleria Metronom di Modena

 

Venerdì 14 aprile ore 16-18 [ONLINE]
La stampa: come collaborare con i giornali?
Incontro con Francesca Marani (Visual Editor of Global PhotoVogue) e Max Ferguson (Photo Editor Granta Magazine),

 

Sabato 15 aprile ore 11-13 [IN PRESENZA]
Progettare e organizzare mostre
Incontro con Giangavino Pazzola (curatore a Camera – Centro Italiano per la Fotografia) e Daniele De Luigi (curatore di Fondazione Modena Arti Visive e del progetto “Giovane Fotografia Italiana”)

 

Venerdì 28 aprile [IN PRESENZA]
Invito all’inaugurazione del festival Fotografia Europea
Accesso illimitato alle mostre del festival e agli eventi collegati dal 28 aprile all’11 giugno

 

Sabato 29 e Domenica 30 aprile [IN PRESENZA]
Letture portfolio
Durante le giornate inaugurali di Fotografia Europea i giovani fotografi potranno iscriversi a 2 letture portfolio a loro scelta

 

Lunedì 1 maggio – orario da definire [IN PRESENZA]
I protagonisti di Fotografia Europea 2023: incontro con i fotografi della nuova edizione

 

Sabato 20 e domenica 21 maggio – orario da definire [IN PRESENZA]
Workshop di 2 giorni con Arianna Arcara

 

Sabato 27 maggio – orario da definire [IN PRESENZA]
L’editoria specializzata: come sviluppare e pubblicare il proprio libro fotografico?
Incontro con Bruno Ceschel

 

Domenica 28 maggio – orario da definire [IN PRESENZA]
Visite guidate alle mostre organizzate dalla rete di partner di Fotografia Europea

 

Sabato 11 e domenica 12 giugno – orario da definire [IN PRESENZA]

Workshop di 2 giorni con Aaron Schumann

 

Gli incontri in presenza si terranno presso gli spazi di Fondazione Palazzo Magnani (corso Garibaldi, 31) e di SD Factory (via Brigata Reggio, 29) a Reggio Emilia.

 

+++ Il programma potrà subire variazioni +++

(Fonte: fotografiaeuropea.it)

I volti dei bambini di Doisneau nella letteratura 12 gennaio a Camera in collaborazione con Alliance Française Torino

 

I volti dei bambini del fotografo francese Robert Doisneau a Camera - Centro Italiano per la Fotografia, in collaborazione con Alliance Française Torino. In compagnia di Chiara Ramero, ricercatrice specializzata in letteratura per ragazzi, il pubblico giovedì 12 gennaio alle 18.30, avrà l'occasione di scoprire opere letterarie che condividono quell'immagine dell'infanzia che ritroviamo nella fotografia di Doisneau, in un racconto sui sogni e sui desideri dei bambini del Secondo Dopoguerra.

Soggetto ricorrente nelle fotografie di Doisneau, i bambini sono tra i principali interpreti dell'ottimismo e della positività di cui la fotografia umanista è impregnata e della quale Doisneau è superbo interprete. Ritratti principalmente in strada mentre giocano e fanno marachelle, Doisneau non ne sminuisce le attività, le tratta anzi con il massimo rispetto, raccontando attraverso i gesti dei più piccoli un importante spaccato di vita urbana. Tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, la letteratura francese dedica molte delle sue pagine all'infanzia e all'adolescenza: personaggi o lettori, i bambini prima e gli adolescenti poi ottengono una considerazione crescente da parte della letteratura. L'albo illustrato vive la sua più grande rivoluzione, il fumetto conquista i giovani lettori, il romanzo per ragazzi inizia ad interessarsi a temi esplorati raramente prima di allora, le serie per bambini e ragazzi ottengono un successo editoriale strabiliante.

ansa

In foto inedite la missione italiana a Vladivostok 1918-1920

 

CAVRIGLIA (AREZZO) - Una mostra con rare fotografie d'epoca racconterà dal 7 gennaio al 19 marzo al Museo delle Mine di Cavriglia (Arezzo) una poco nota missione militare italiana in Estremo Oriente, a Vladivostok (Russia), dal 1918 al 1920, con la prima guerra mondiale in corso. E' una selezione di foto mai viste scelte fra le quasi 200 scattate da un militare toscano, Felice Bottai, sergente volontario del VII Reggimento Genio Telegrafisti, Plotone Autonomo Estremo Oriente, originario di Lucolena (Firenze), frazione montana nel Chianti.


    Bottai coi suoi commilitoni visse per quei tempi una straordinaria esperienza dall'altra parte del continente eurasiatico e la documentò. Rimpatriato, conservò le foto e le tramandò. Oggi la vicenda è ripercorsa dalle immagini e da contributi collezionati negli anni, tra cui ricerche d'archivio e diari nella mostra intitolata "Lucolena Vladivostok 1918-1920" a cura di Andrea Gigliotti, e con foto raccolte da Pechino da Lucrezia Rossi, Floriano Como e Elena Innocenti.
    La missione a Vladivostok fu decisa dal ministero della Guerra, di concerto con le nazioni alleate timorose di un'espansione del comunismo in Europa, per difendere la ferrovia Transiberiana e aiutare i russi contro i bolscevichi che avevano deposto lo zar, nel pieno della guerra civile russa. La missione però non riuscì e il governo del Regno d'Italia ritirò il plotone mantenendo l'iniziativa ancor più 'segreta', scarsamente nota all'opinione pubblica. La missione si concluse ad agosto 1919 gli ultimi a rientrare in Italia sbarcarono a Napoli il 2 aprile 1920. Tra questi c'erano due nativi dello stesso paese, Lucolena. Erano Sergio Checcucci artigliere e il sergente Felice Bottai, telegrafista, il quale aveva scattato, raccolto e soprattutto conservato queste preziosissime fotografie che mostrano momenti d'arma e di riposo, paesaggi inediti e realtà locali dell'area più a est della Russia.
    E' materiale rimasto nei cassetti per decenni e riscoperto grazie ad appassionati di storia locale con le iniziative per i 100 anni della Grande Guerra. A corredo c'è anche il libro "Missione Speciale in Estremo Oriente 1918-1920. Dai diari dei protagonisti".

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Alla riscoperta di Lee Miller, pioniera del surrealismo fotografico

 

 L'immagine ormai iconica con Lee Miller immersa nella vasca da bagno dell'appartamento di Hitler a Monaco, supremo gesto surrealista, atto di giustizia, di purificazione umana, contro quanto aveva visto a Dachau e Buchenwald, dove era entrata con gli Alleati, è nell'ultima sala, "Fotografare l'orrore".
    E' il tassello finale della mostra dedicata alla fotografa statunitense, al rapporto prima di allieva poi di parità, d'amore e d'amicizia, con Man Ray, allestita a Palazzo Franchetti, a Venezia, fino al 10 aprile prossimo.

La foto che la ritrae, scattata da un collega, David Scherman, a cui aveva dato la sua macchina fotografica, è uno dei segni, assieme a una immagine fatta a una modella con le braccia alzate con la tecnica della solarizzazione - quasi una risposta a una donna-manichino dell'allora "maestro" fatta anni prima - per comprendere lo spirito di voluta, assoluta libertà che ha accompagnato le sue molteplici "vite".
    Lee Miller è stata modella, fotografa, musa, prima donna reporter di guerra a documentare le atrocità dei campi di concentramento nazisti, per poi lasciare definitivamente l'esperienza fotografica. Suzanna, moglie dell'unico figlio, Anthony Penrose, scoprirà casualmente in soffitta, nel 1977, pochi mesi dopo la morte della fotografa, oltre 60mila tra negativi, documenti, riviste, che hanno condotto alla riscoperta di Lee Miller, di una vita segnata da successi ma anche forti traumi.
    L'esposizione, intitolata "LEE MILLER MAN RAY.    FASHION-LOVE-WAR", curata da Victoria Noel-Johnson, organizzata da Cms.Cultura, in collaborazione con Acp-Palazzo Franchetti, attraverso 140 foto dei due protagonisti, alcuni oggetti d'arte e video, intende anche offrire - è stato ricordato - "il giusto riconoscimento a Lee Miller, pioniera del surrealismo in fotografia, ponendola su un piano di parità con Man Ray, il cui lavoro tendeva a oscurarla sia in vita che negli anni a venire".
    Procedendo per temi e con un percorso cronologico, attraverso otto sezioni, la mostra si apre con la fotografa modella a New York dal 1927 e musa due anni dopo di Ray a Parigi, dove era andata per imparare la fotografia. "Preferisco fare una foto che essere una foto", disse una volta. Nelle altre parti, è un continuo susseguirsi di foto che testimoniano anni di incontri, di scelte, di ricerca e sperimentazioni, di un riavvicinarsi alla moda stavolta dall'altra parte dell'obiettivo. Ad esempio, c'è una foto fatta a Londra nel 1941, con una modella ritratta con dietro le rovine dei palazzi colpiti dai bombardamenti tedeschi. E' una carrellata di immagini che si intersecano con gli anni degli amori, dei matrimoni, prima nel 1934 con l'uomo d'affari egiziano Aziz Elui Bey - una sezione è intitolata "Egitto" con esposto "Portrait of Space" che spinse nel 1938 Magritte a dipingere "Le baiser" - e poi, nel 1949, con Roland Penrose. Il tutto all'interno di un percorso di vita dove uno dei fili rossi, forse la linea guida, è proprio la vicinanza sul piano professionale certo umano con Man Ray, che le resterà vicino nel periodo in cui lei soffre di depressione cronica, anche in seguito a un disturbo post-traumatico conseguente a aveva visto durante la guerra. Per la primavera del 2023 - è stato detto nel corso della vernice della mostra -, è prevista l'uscita del fil "Lee", basato sulla biografia scritta dal figlio Anthony, con Kate Winslet nei panni della Miller e Judy Law, in quelli del marito. Nel cast anche Marion Cotillard.
   

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Due importanti progetti europei per la conservazione di cetacei, tartarughe e del mollusco bivalve più grande del Mediterraneo

 FOTOGRAFARE LE MERAVIGLIE DEL MEDITERRANEO ­­­­­

Fino al 25 settembre chi fotografa la bellezza e la varietà del nostro mare può partecipare ai concorsi legati a LIFE Conceptu Maris e LIFE Pinna, due importanti progetti europei per la conservazione di cetacei, tartarughe e del mollusco bivalve più grande del Mediterraneo

Milano, 01 agosto 2022 - Nell’epoca in cui nulla sfugge agli obiettivi di cellulari e macchine fotografiche, una nuotata con maschera e pinne o un’immersione sui fondali più vitali dei nostri mari, così come un’escursione in barca a vela o una giornata dedicata al whalewatching, rappresentano le opportunità migliori per immortalare la bellezza e la varietà che si nascondono nel nostro Mediterraneo.

L’occasione è ghiotta, quindi, anche per partecipare a uno dei concorsi fotografici lanciati dai progetti europei LIFE CONCEPTU MARIS (CONservation of CEtaceans and Pelagic sea TUrtles in Med: Managing Actions for their Recovery In Sustainability) e LIFE Pinna (Conservation and re-stocking of the Pinna nobilis in the western Mediterranean and Adriatic sea), cominciati nei mesi scorsi con l’obiettivo di proteggere e conservare alcuni degli animali più carismatici del Mediterraneo, come i cetacei e le tartarughe marine, e per salvare il mollusco bivalve più grande dei nostri mari, la nacchera di mare Pinna nobilis, portata in pochi anni sull’orlo dell’estinzione da un’epidemia globale.

I regolamenti dei concorsi si possono vedere sui siti dei due progetti, www.lifepinna.eu e www.lifeconceptu.eu.

L’iniziativa è rivolta a tutti coloro che, attraverso uno scatto, riescono a raccontare la bellezza della biodiversità che ancora si può trovare nel Mediterraneo, sia sui fondali costieri sia in mare aperto. Se “Vita tra gli scogli” è, infatti, il tema scelto dal progetto LIFE Pinna per celebrare la vita di un granchio, di piccoli pesci o di un’alga dalle forme particolarmente sinuose nei bassi fondali, “Profondo blu. Balene, delfini e tartarughe in mare aperto” è quello del concorso promosso da LIFE Conceptu Maris, a cui si potrà partecipare, per esempio, con una o più foto delle acrobatiche stenelle che danzano davanti alla prua di un’imbarcazione, oppure di una tartaruga marina in difficoltà per una lenza attorno a una pinna o, ancora, della coda di un capodoglio che si immerge.
I vincitori saranno annunciati anche sul sito e sui social dei progetti nei primi giorni di ottobre.

A proposito di mare aperto, i passeggeri che in agosto e settembre partiranno con uno dei traghetti che coprono le rotte Napoli-Palermo (Grandi Navi Veloci) e Cagliari-Palermo (Grimaldi Lines) potrebbero avere qualche chance in più di realizzare uno scatto memorabile. Almeno un paio di volte al mese, infatti, a bordo di queste linee o agli imbarchi, i team scientifici di Conceptu Maris sono a disposizione dei viaggiatori più interessati per condividere gli obiettivi del progetto, ma anche a dare le dritte utili per individuare cetacei e tartarughe durante la rotta.

Una giuria di esperti valuterà tutte le immagini ricevute entro la mezzanotte del 25 settembre. Per i partecipanti di ogni concorso in palio ci sono libri a tema marino, magliette e gadget legati ai progetti. Nei prossimi due mesi lasciatevi quindi ispirare da una delle celebri massime di Albert Einstein: “Guarda in profondità nella natura e poi capirai tutto meglio”.








Curti: «Quella di oggi è ancora fotografia?»

GIUSEPPE MATARAZZO Avvenire

«Ogni due minuti vengono realizzate più foto di quante abbia prodotto tutto l’Ottocento. Diventa necessario chiedersi: la fotografia come l’abbiamo conosciuta è ancora fotografia?». La domanda che pone Denis Curti nel suo ultimo, poderoso libro, Capire la fotografia contemporanea (Marsilio, pagine 368, euro 18,00), è di difficile risposta. Cerca di farlo l’autore curatore, direttore artistico della Casa dei Tre Oci a Venezia, fondatore dello spazio Still di Milano, ex direttore del mensile Il fotografo, con un passato fra Sotheby’s e Contrasto affrontando l’argomento da tutti i punti di vista: il senso e il valore della fotografia, come storytelling e forma di comunicazione, ma anche arte e collezionismo, fino alla prova del digitale. Un viaggio attraverso tutto il mondo della fotografia contemporanea, incontrando e ripercorrendo i lavori di illustri maestri, da Erwitt a Cartier-Bresson, da Salgado a Newton. Pagine dense di una fotografia che sembra appartenere a un’altra epoca. Eppure non è così. «Per me – scrive Curti – il fotografo era un fedele registratore della realtà. Ben presto, ho imparato a prendere le distanze da questa impostazione, una volta capito che la fotografia era una faccenda molto più sottile e complessa della pura trascrizione meccanica del reale, e che mi trovavo di fronte, piuttosto, a un 'linguaggio ambiguo'». A prescindere dagli stili e dalla tecnologia. Nell’era della postfotografia, per Curti è il momento di andare a fondo per capire un’arte che più di tutte ha dovuto fare i conti con la rivoluzione digitale. Pagandone il conto per certi versi, acquisendo straordinari vantaggi per altri. Tempo fa, Ferdinando Scianna, proprio da queste colonne, espresse il suo paradosso: «La fotografia? Sta morendo per eccesso di successo». È davvero così? O è solo un’altra cosa?

Curti propone un prezioso vademecum per orientarsi nel «vasto mare della fotografia contemporanea» e «plurale». Un invito a sapere guardare, a distinguere. Con questa consapevolezza: «La fotografia è sempre il risultato di una messa in scena, anche nel reportage, perché ogni volta il fotografo sceglie cosa guardare e come raccontarlo e la somma di queste scelte si chiama 'punto di vista', una vera e propria presa di posizione nei confronti delle cose del mondo, ed è evidente che una narrazione non può essere neutrale». E questo vale per l’analogico delle guerre di Capa e il digitale del citizen journalism e del siamo tutti fotografi. Certo, la rivoluzione digitale incide al punto che Curti parla – guardando a Instagram – di deriva «totalitaria» quando «il social network assurge a punto di riferimento» assoluto «nel look e nella moda», in una società del «narcisismo» che vede «nel selfie il suo apice realistico». In Black Mirror, serie tv sbarcata nel 2016 su Netflix, nell’ipotetica società di Nosedive la tecnologia è totalizzante e il valore di ogni individuo è decretato da un sistema a punti. Nosedive non è un futuro possibile, «ci parla del presente», dice Curti. In questo presente la fotografia diventa 'post' perdendo il supporto fisico, l’archeologico rullino. Il rischio è però che nella fotografia dei pixel si possa perdere la traccia, la stampa e quindi la memoria. La vera sfida è allora la prova del tempo: la fotografia come strumento per raccontare la Storia. Se è ancora fotografia dipende dalla fotografia. Ogni foto si racconta. «Noi guardiamo le fotografie – conclude Curti – ma anche loro, segretamente, guardano noi».




Wiki Loves Monuments Italia, vincono Polignano e i fenicotteri di Lesina

 

La natura che sorprende, borghi innevati abbracciati alle "loro" montagne, costruzioni da archistar e anche le frecce tricolori che tanto hanno significato quest'anno. Sono le 10 fotografie vincitrici della 9/a edizione di Wiki Loves Monuments, il più grande concorso fotografico del mondo che coinvolge oltre 50 Stati raccogliendo immagini di monumenti per documentare il patrimonio storico e culturale di ogni nazione e illustrare le pagine di Wikipedia.
    I dieci scatti che raccontano la bellezza dell'Italia sono stati premiati ieri in una speciale cerimonia online organizzata da Wikimedia Italia e ora tutti potranno ammirarli sulle pagine di Wikipedia e riutilizzarli liberamente. Lanciato a settembre con l'invito a immortalare il monumento del proprio cuore, il concorso in Italia ha ricevuto 15 mila scatti da oltre 700 fotografi, incoronando il Paese terzo al mondo per partecipanti dopo USA e Iran. Oltre 300 le richieste di autorizzazione per inserire nuovi monumenti nella lista dei fotografabili, con un incremento di oltre 1.500 che porta ora a 15.312 quelli che potranno essere riprodotti in scatti condivisibili con licenza d'uso Creative Commons BY-SA. Tra i 10 vincitori di questa edizione, il podio è tutto pugliese con al primo posto la Mareggiata Polignano, scatto di Nicola Abbrescia che immortala Cala Paura tra le onde. Secondo è Gabriele Costetti con Brindisi - Teatro Verdi; e terzo è Alberto Busini con Tutto rosa, ritratto dell'oasi dei fenicotteri di Lesina (FG). Va però alla Toscana il primato per foto ricevute, oltre 4 mila, seguita da Lombardia (2.500 scatti) e poi Basilicata ed Emilia-Romagna (2 mila). Sono 2.300 invece le vedute panoramiche, nuova categoria dell'edizione 2020. Prossimo appuntamento a gennaio, quando la giuria internazionale di Wiki Loves Monuments eleggerà lo scatto più bello a livello mondiale. (ANSA).
   

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Man festeggia l'ivoriano François-Xavier Gbré

 

Il Man di Nuoro festeggia l'artista ivoriano François-Xavier Gbré, vincitore del Prix Découverte Louis Roederer 2020 del Festival Les Recontres de la Photographie di Arles e già protagonista nel 2018 nel museo barbaricino della prima mostra personale in Italia "Sogno d' oltre mare". Il prestigioso riconoscimento è arrivato per l'installazione di 57 fotografie sotto il titolo "Émergence, Abidjan, Côte d'Ivoire, 2013- 2020", in cui l'artista documenta la rapida evoluzione della città e del paesaggio circostante dopo il superamento della crisi post-elettorale attraversata dalla Costa d'Avorio nel 2011. Nel 2018 il Man aveva presentato una scelta di fotografie che esploravano le capitali dell'Africa occidentale, accostate a una nuova serie di immagini commissionate direttamente dal museo di Nuoro e realizzate dall'artista durante la sua residenza nell'Isola, resa possibile grazie al supporto della Sardena Film Commission. François-Xavier Gbré ha poi donato alla collezione permanente del Man una raccolta di 70 scatti dal titolo "Sardegna".

"Anche quest'anno il Man può celebrare un importante riconoscimento internazionale attribuito a un artista presente nella nostra collezione permanente e di cui abbiamo prodotto una mostra esito delle sue ricerche in Sardegna - spiega il direttore del Museo d'arte nuorese Luigi Fassi - Le scelte compiute dal Man nel corso degli ultimi anni per dotare la Sardegna di un fondo di importanti opere contemporanee, di artisti anche internazionali, che ne raccontino l'ambiente e le trasformazioni sociali, si vedono così ancora una volta autorevolmente confermate e condivise a livello europeo". Il lavoro di François-Xavier Gbré, nato nel 1978 a Lille e residente tra la Francia e la Costa D'Avorio, chiama il linguaggio dell'architettura a testimoniare la memoria storica dei luoghi e la velocità dei cambiamenti sociali.

Nell'esposizione al museo nuorese, con la proposta di immagini delle capitali dell'Africa e dei luoghi della Sardegna, si mescolano storie e culture di un artista cresciuto in un Paese che si affaccia nel Mediterraneo e che guarda alla Sardegna vista dal sud. Nel presentare la mostra del 2018 - comprendeva anche altre due esposizioni fotografiche, "Sabir" dell'artista israeliano Dor Guez, e "O Youth and Beauty", collettiva di Anna Bjerger, Louis Fratino e Waldemar Zimbelmann - il direttore del Man aveva sottolineato: "Gbré ha scelto di fotografare l'interno dell'isola da cui trarre le suggestioni del suo Paese nel post colonialismo: il sogno industriale prima e gli edifici abbandonati poi".

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Libri: il fotografo Geppetti tra Dolce vita e terrorismo

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Ha immortalato il mito della Dolce Vita negli anni '60, con gli scatti di Anita Ekberg e dei 'bacio dello scandalo' tra Liz Taylor e Richard Burton, ma negli anni '70 Marcello Geppetti si trova anche all'Idroscalo di Ostia, dove è stato rinvenuto il corpo senza vita di PIer Paolo Pasolini e 4 anni dopo in via Caetani, il giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. A raccontare la storia di uno dei re dei paparazzi romani è Vittorio Morelli con il libro 'Fotoreporter. Marcello Geppetti da via Veneto agli anni di piombo' (edizioni All Around).
    Macchina fotografica al collo a cavallo della Vespa ad inseguire le star del cinema, Geppetti faceva parte di quel gruppo di fotografi d'assalto romani che Federico Fellini ha consegnato alla storia nel suo film. Nel 1960 riprende Anita Ekberg che si difende dai fotografi nel 1960 armata di arco e frecce davanti alla sua villa romana. Nel 1961 ferma su pellicola Audrey Hepburn in una panetteria romana; nel giugno del 1962 a Ischia riprende il bacio tra Taylor e Burton con il suo teleobiettivo Novoflex da 400mm raddoppiato e montato sulla Nikon F. Tutti 'colpi' messi a segno da un giovane fotoreporter arrivato da Rieti all'inizio degli anni Cinquanta e che aveva mosso i suoi primi passi nella professione iniziando da fattorino in un giornale della Capitale.
    L'1 marzo del 1968 la reflex di Geppetti è in azione a Valle Giulia, sede della facoltà di Architettura dell'Università di Roma, dove riprende con vividezza gli scontri di piazza tra i manifestanti e le forze di polizia.
    L'archivio fotografico di Geppetti, tenacemente conservato dal figlio, conta circa un milione di negativi. Pezzi di storia italiana. Che meritano di essere riscoperti. Assieme alla figura di un uomo che, come racconta il figlio, aveva una integrità morale tale da rifiutare i 12 milioni di lire (cifra astronomica nel 1962) da parte dell'avvocato di Richard Burton per ritirare le foto del bacio. La risposta di Geppetti fu no, perché "io lavoro per la stampa e non per i privati, e poi cosa si direbbe, di me, in giro?". (ANSA).

Mostre. I pellegrini di Alinka Echeverría all'interno del festival internazionale di fotografia e arte sul Mediterraneo PhEST - See Beyond the Sea

«The Road to Tepeyac» (2010) di Alinka Echeverría

«Illumina il mio cammino» è solo una delle frasi devozionali che accompagnano il pellegrinaggio a Tepeyac in Messico. Un viaggio di fede e speranza che ogni anno vede protagonisti venti milioni di persone – donne, uomini, bambini e anche fedelissimi amici a quattro zampe, come si vede nella suggestiva installazione The Road to Tepeyac (2010) di Alinka Echeverría (Città del Messico 1981) dove c’è anche un pastore tedesco ammantato di azzurro.

NEL SALONE di Palazzo Palmieri a Monopoli, cuore della IV edizione del festival internazionale di fotografia e arte sul Mediterraneo PhEST – See Beyond the Sea che sotto la direzione artistica di Giovanni Troilo e la curatela di Arianna Rinaldo (con il sostegno della Regione Puglia – assessorato industria turistica e culturale, Teatro pubblico pugliese e comune di Monopoli) propone un percorso all’insegna di Religioni e Miti (fino al 3 novembre), il fondo bianco scelto dall’autrice è l’emblematico scenario che suggella l’intensità della devozione.
Artista visiva messicano-britannica, Echeverría ha studiato antropologia sociale all’Università di Edimburgo e fotografia all’Icp di New York vincendo numerosi premi, tra cui Foam Talent 2017, Prix Elysée 2018 e la recente borsa di studio della Fondazione Mast di Bologna. Interessata alla «relazione filosofica, psicologica e socio-culturale tra immagine e credo», impiega due anni per realizzare The Road to Tepeyac (2010), utilizzando linguaggio fotografico e video (To See Her and Let Her See Me) per dare un volto alla «cecità reale e metaforica».
Cresciuta in una famiglia atea, quando Alinka Echeverría si reca il 9 dicembre 2008 al santuario della Madonna di Guadalupe a Città del Messico, lì dove tra il 9 e il 12 dicembre 1531 la Virgen morenita (Vergine meticcia) apparve all’indio messicano Juan Diego Cuauhtlatoatzin (canonizzato da Giovanni Paolo II nel 2002), viene travolta dall’intensità del flusso continuo di pellegrini in movimento che ritrae in cammino, mentre trasportano sulla schiena riproduzioni dell’icona della Vergine.

«L’ESPERIENZA fenomenale del pellegrinaggio dove il devoto porta quelle che sembrano infinite rappresentazioni della Vergine sulla schiena mi ha portato a mettere in discussione il rapporto tra immagine e fede – afferma l’artista – Mi è sembrato già così ricco di domande il semplice fatto di trasportare una riproduzione dell’immagine sacra, che ho deciso di focalizzarmi esclusivamente su quello fotografando le spalle dei pellegrini che trasportavano la loro personale rappresentazione della Vergine.
Questi oggetti spaziano da riproduzioni minuziosamente realizzate a mano a produzioni industriali, e si manifestano in maniere infinite. Il valore non sta nella materialità, ma nel valore che il pellegrino gli dà. I devoti portano le immagini da casa, ovunque essa sia, fino alla ’vera’ immagine della Vergine appesa in basilica».

ANCHE NELLA MOSTRA Seeing Mary, allestita nelle sale del Castello Carlo V e realizzata dal National Geographic, nella mappatura mondiale delle apparizioni della Vergine Maria c’è la foto scattata da Diana Markosian nel 2014 di un devoto diretto alla basilica di Nostra Signora di Guadalupe con l’altarino sulle spalle. Ma se in questo caso si è di fronte a un prodotto di reportage, nello sguardo di Echeverría emerge una caleidoscopica rappresentazione in cui sacro e profano convivono sincreticamente.
Il viaggio e il peso della religione e della storia trovano l’apice nell’ultimo tratto del percorso che l’artista affida al video di 11 minuti in cui i pellegrini possono finalmente godere per quaranta secondi della suggestione del luogo, nella silenziosa contemplazione dell’immagine sacra, trasportati dal tapis roulant. «La vedono, e, con la stessa importanza, Lei vede loro».
La storia ci ricorda che la memoria dell’apparizione è affidata alle pagine delNican Mopohua (Qui è Detto), un testo manoscritto in nahautl classico, il linguaggio dell’impero azteca parlato prima dell’arrivo dei conquistadores e che il mantello (tilmàtli) di Juan Diego, sul quale è raffigurata l’immagine di Maria con i capelli sciolti, il manto con le 46 stelle, la cintura e l’angelo con le ali di quetzal, è conservato proprio nel santuario di Tepeyac che sorge nel luogo in cui gli aztechi veneravano Tonantzin o Coatlicue.
Il Manifesto

TORINO / Fino al 29 settembre è possibile visitare al Centro Italiano per la Fotografia una doppia mostra che vede protagonisti i fotografi Larry Fink e Jacopo Benassi

Jacopo Benassi

Il primo, nato a Brooklyn nel 194l, nel corso della sua carriera ha ricevuto i premi Lucie Award for Documentary Photography e l’Infinity Award dell’International Center for Photography (ICP) per Lifetime Fine Art Photography. Il secondo, nato a La Spezia nel 1970, ha recentemente pubblicato il libro “Gli aspetti irrilevanti”, con Mondadori insieme a Paolo Sorrentino. Nell'opera il regista premio Oscar crea 23 racconti a partire da 23 ritratti di Jacopo Benassi.

PERCHE' ANDARE

La mostra antologica "Unbridled Curiosity" del fotografo americano Larry Fink raccoglie oltre novanta immagini, realizzate tra gli anni Sessanta e oggi. Curata da Walter Guadagnini, la selezione in bianco e nero e di grande potenza estetica, mira a evidenziare quei legami tra le persone e tra le persone e i luoghi che Fink, nel corso di tutta la sua carriera, ha saputo immortalare con occhio attento e “sfrenata curiosità”, mischiandosi ai contesti, rubando momenti di intimità e mettendo in evidenza l’anima dei soggetti ritratti. Le grandi battaglie civili, i party esclusivi tra Hollywood e i grandi musei, la vita rurale, le palestre pugilistiche: nulla sfugge all’obiettivo di Fink. 

DA NON PERDERE

La mostra "Crack" del fotografo Jacopo Benassi raccoglie, invece nella Sala Grande e nel lungo corridoio di CAMERA oltre sessanta immagini che compongono la serie. Si tratta di un progetto che il fotografo spezzino ha realizzato mettendo al centro della sua riflessione il rapporto tra classicità e contemporaneità nei corpi e nei legami che gli individui instaurano con uomini e ambienti.

Unbridled Curiosity di Larry Fink / Crack di Jacopo Benassi
Fino al 29 settembre 2019
Luogo: Torino, Camera
Info: 011.0881151