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Arte. Dürer pellegrino in Italia sfodera la sua luce a Trento


Al Castello del Buonconsiglio in esposizione le opere dell’artista tedesco, trait-d’union tra la visione prospettica del Rinascimento italiano e il naturalismo fiammingoAlbrecht Dürer, "Adorazione dei magi"

Quando, nel 1494, il giovane Albrecht Dürer (1471-1528) arriva per la prima volta nel nostro Paese, percorre la strada classica del Reise nach Italien, quella che ancora oggi fanno milioni di turisti: da Norimberga, passando per Augusta, verso Innsbruck, Bolzano, Trento e poi Verona e finalmente Venezia che è la meta finale del viaggio. Per il ventitreenne Dürer (come per il turista di oggi), il momento più bello è quando ci si lascia alle spalle le montagne del Tirolo e appare, splendente nel sole, la valle dell’Adige.

Dürer consegna la sua emozione, la gioia di essere dentro la luce e i colori dell’Italia, ad alcuni acquerelli (come la celebre Veduta del Castello del Buonconsiglio), immagini di paese che aprono una nuova e grande stagione per la moderna storia delle arti a Nord e Sud delle Alpi fondata sull’intuizione di Dürer secondo il quale è possibile coniugare la visione luminosa e prospettica degli italiani con il naturalismo lenticolare dei fiamminghi.

E’ di questo incontro e delle tracce che ha lasciato il passaggio in Trentino dell’artista di Norimberga che parla la mostra “Dürer e gli altri. Rinascimenti in riva all’Adige” allestita a Trento al Castello del Buonconsiglio a cura di Bernard Aikema, Laura Dal Prà, Giovanni Maria Fara e Claudio Salsi.

Con una infaticabile sete di conoscenza che lo porta a studiare gli ordini di Vitruvio e la prospettiva di Luca Pacioli, le proporzioni del corpo umano e i modelli dell’Antico, l’anatomia e la cosmografia, Mantegna e Giovanni Bellini, Leonardo e Raffaello, in costante appassionato dialogo con l’inseparabile amico umanista Willibald Pirckheimer, per Dürer la pittura è strumento intellettuale di comprensione e di rappresentazione, testimonia il vero e ardentemente insegue la bellezza.

Sono queste le linee ideali della fugace ma particolarmente significativa presenza di quel genio inquieto di Dürer in Trentino che dà luogo ad un incredibile impatto (l’artista è fra i primi pittori a fare del paesaggio il motivo predominante, talora unico, dei suoi acquerelli) sulla produzione artistica di quel territorio, luogo di transizione, primaria via di comunicazione culturale e commerciale fin dal Medioevo, e di passaggio obbligato per chi voleva andare dall’Italia alla Germania e viceversa.

Il Trentino e il Tirolo meridionale erano tutt’altro che aree periferiche vantando anche alcune sedi episcopali (Bressanone e Trento) e commerciali (Bolzano) che costituivano realtà urbane di prim’ordine, pronte ad accogliere innovative soluzioni artistiche in un’epoca – è l’età di Massimiliano I d’Asburgo e della sua contrapposizione alla Serenissima - di intense trasformazioni culturali in atto nell’intera Europa.

E’ in questo clima che, tra l’ultimo Quattrocento e il primo Cinquecento, si sviluppa in Trentino quel Rinascimento originale, “sui generis” lo definiscono i curatori della mostra secondo i quali «tale stile nuovo o, meglio, l’insieme di tali nuovi stili, perché in realtà si tratta di linguaggi di un Rinascimento variegato e diffuso», che prende corpo il confronto con l’opera di Dürer che la mostra documenta attraverso una novantina di lavori (grafiche, dipinti, sculture, manufatti).

La mostra è un percorso affascinante dove si alternano alcuni noti capolavori di Dürer quali l’Adorazione dei Magi, olio su tavola proveniente dagli Uffizi di Firenze, la tavola Cristo tra i dottori prestato dal Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid e un considerevole numero di grafiche tra cui spiccano il disegno a penna dei Due giovani cavalieri e le incisioni a bulino de Il mostro marino e di Ercole al bivio.

Accanto alle opere di Dürer sono collocati i lavori di artisti che rappresentano “casi” esemplari del laboratorio stilistico estremamente eterogeneo che caratterizza la ricerca artistica del tempo in quell’area geografica. Ecco allora la presenza del superbo dipinto a olio e tempera di Jakob Seisenegger Le figlie di Ferdinando I d’Asburgo e Anna di Boemia. Così come i ritratti dipinti da Alvise Vivarini, Jacopo de’ Barbari, Marx Reichlich e quello di Bernhard Strigel dedicato a Massimiliano I con le insegne imperiali, l’imperatore per il quale Dürer prestò il suo servizio e a cui dedicò, insieme a Hans Springinklee, la xilografia suddivisa in due fogli dal titolo Albero genealogico di Massimiliano I proveniente dall’Albertina di Vienna.

avvenire.it


Da Ghirri a Tognazzi passando per Byron e Mitoraj: 20 mostre free da vedere in Emilia-Romagna


Sono 20 le mostre a ingresso gratuito da vedere sul territorio emiliano-romagnolo questa estate fino all’autunno. L’occasione è doppia, perché si possono visitare anche gli straordinari luoghi che le ospitano, ricchi di opere, arte e cultura, anch’essi quasi tutti a ingresso libero.
A Piacenza il Palazzo XNL, ex stabilimento Enel, oggi convertito a contenitore per le arti contemporanee di proprietà della Fondazione di Piacenza e Vigevano, è visitabile gratuitamente e conserva i fregi e le opere dell’antico edificio. Presenta ogni anno una ricca programmazione di esposizioni a ingresso gratuito. In autunno apriranno le mostre: “Sul Guardare Atto IV – Valentina Furian”, quarto capitolo della rassegna dedicata alla rilettura del patrimonio artistico del territorio attraverso opere di artisti contemporanei, e “Out of the Grid. Italian zine 1978–2006. Post–movimento pre–internet3.0” una mostra sulle fanzine ispirata all’omonima pubblicazione di Dafne Boggeri (xnlpiacenza.it/).
Scendendo lungo la via Emilia e giungendo a Reggio Emilia da non perdere è la visita gratuita al Palazzo dei Musei che contengono migliaia di opere, dai reperti archeologici all’Ottocento. Fino a marzo 2025 il Palazzo ospita la mostra a ingresso gratuito “Luigi Ghirri. Zone di Passaggio”, un dialogo tra le fotografie di Ghirri, uno dei maggiori fotografi del Novecento, e i progetti di rinomati artisti internazionali come Mario Airò, Gregory Crewdson, Armin Linke, ecc. (www.musei.re.it/appuntamenti/zone-di-passaggio/).
Sempre a Reggio Emilia, giunti alla Collezione Maramotti si possono visitare gratuitamente tre mostre temporanee: fino al 28 luglio la personale di Silvia Rosi, dal titolo “Disintegrata” e la mostra dal titolo “Quem Genuit Adoravit del pittore torinese Manuele Cerutti; fino al 15 settembre la mostra “Instructions: The Whale” sull’opera della pittrice americana Anna Conway, recentemente entrata a far parte della Collezione. La visita alla Collezione Maramotti è a ingresso gratuito. Negli spazi dello storico stabilimento Max Mara, progettato nel 1957, una delle più interessanti espressioni architettoniche del dopoguerra, si trova un percorso di opere d’arte magnifico che va dalla pittura “informale” alle opere protoconcettuali italiane, dalla Pop art romana e l’Arte Povera fino alla Transavanguardia, il neo-espressionismo tedesco e americano e le opere della New Geometry (www.collezionemaramotti.org/it/orari-e-visita).
A Modena la FMAV-Fondazione Modena Arti Visive presenta alla Palazzina dei Giardini, a ingresso gratuito, fino al 15 settembre, la mostra “Facce da Biennale”, 106 fotografie in bianco e nero della Biennale di Venezia selezionate dal fondo della FMAV tra oltre 10.000 negativi su pellicola 6×6. Da non perdere anche la Palazzina che si può visitare gratuitamente. Voluta nel XVII secolo da Francesco I d’Este come luogo di divertimento per la corte estense, all’interno dei giardini di Palazzo Ducale, costruita dall’architetto Vigarani (www.fmav.org/).
A Bologna l’ingresso alla Fondazione MAST di Bologna, centro multiculturale internazionale, sulla Tecnologia, l’arte e l’Innovazione, è libero. Aperta dal 2013 si dedica alla promozione della cultura del lavoro attraverso eventi e mostre. Fino al 14 luglio ospita la mostra “Vertigo – Video Scenarios of Rapid Changes” con 29 artisti internazionali a confrontarsi sul tema delle mutazioni della società attraverso il mezzo della videoarte (mast.org).
Un altro museo gratuito di Bologna è la Raccolta Lercaro, la cui collezione permanente merita una visita per le opere ospitate: Giacomo Manzù, Arturo Martini, Francesco Messina, Vittorio Tavernari, Giovanni Boldini, Ettore Spalletti Giacomo Balla, Filippo de Pisis, Renato Guttuso, Antonio Mancini, Giorgio Morandi, Adolfo Wildt e alcune pregevoli opere antiche. Fino al 28 luglio il museo ospita, a ingresso gratuito, anche la mostra “I giorni del fango” con due opere del famoso ceramista faentino Carlo Zauli accanto alle fotografie di Andrea Bernabini, Richard Betti, Marco Parollo e Adriano Zanni che documentano le zone alluvionate della Romagna nel maggio 2023 (www.fondazionelercaro.it).
A Ravenna si possono visitare gratuitamente i nobili spazi di Palazzo Rasponi dalle Teste che spicca per la sua grandezza (oltre 5000 mq) e il suo prestigio decorativo. Nelle sei stanze vescovili si possono ammirare un centinaio di quadri di grande valore. Il Palazzo ospita, a ingresso gratuito fino al 22 luglio, la mosaicista ravennate Dusciana Bravura con l’esposizione  dal titolo: “Le metamorfosi degli oggetti e delle immagini” (www.turismo.ra.it/cultura-e-storia/edifici-storici-teatri/palazzo-rasponi-teste/)
Sempre a Ravenna è free entry anche la mostra ai Chiostri Danteschi dal titolo “Byron contemporaneo. sogni, bisogni, maschere e ossessioni del Maestro del Romanticismo”, aperta dal 25 luglio al 26 ottobre, data di inaugurazione ufficiale del Museo dedicato al grande poeta inglese negli spazi restaurati di Palazzo Guiccioli. In mostra 30 immagini scattate dal fotoreporter Giampiero Corelli.
A Faenza torna Argillà evento dedicato alla ceramica internazionale. Dal 30 agosto al 1° settembre diverse esposizioni sono gratuite: al Ridotto e al Foyer del Teatro Masini la mostra di ceramiche del gruppo giapponese Kyototto, dall’India la mostra “Golden Bridge Pottery”, una personale del maestro di Albisola Ernesto Canepa, una mostra di oggetti di design del gruppo milanese “Milano Makers” e infine la mostra di ceramiche Primedicopertina. Al Museo Guerrino Tramonti, ecco “Collezioni ceramiche da casa Museo Remo Brindisi”, nella casa laboratorio, visitabile, dell’artista Guerrino Tramonti con all’interno 390 opere. Al Palazzo del Podestà le collezioni dei partner del prestigioso itinerario culturale del Consiglio d’Europa. Spazio Ceramica ospiterà la mostra “Interra project” con 13 artisti ceramisti contemporanei che rivisitano l’arte funeraria in ceramica. Lo Studio Ivo Sassi aprirà le porte con l’allestimento “I grossi spessori di Ivo Sassi”. Il Museo Diocesano nella sede di Santa Maria dell’Angelo ospiterà una personale dedicata alla lunga carriera ceramica di Mirta Morigi e un’esposizione di Antonello Ghezzi (www.argilla-italia.it/).
A Cesena fino al 15 settembre, in Biblioteca Malatestiana si può visitare gratuitamente la mostra omaggio a Elio Germano, mostra fotografica di immagini provenienti dal Centro Cinema Città di Cesena. Affermatosi come uno dei più importanti ed eclettici attori del cinema italiano, Germano si rivela nelle sue tante interpretazioni che gli hanno valso decine di premi (sititematici.comune.cesena.fc.it/malatestiana).
A Rimini inaugura il 31 luglio, fino al 15 settembre al Grand Hotel di Rimini “UGO DI NOI. 101 anni di Tognazzi in mostra”. Organizzata nell’ambito della 5a edizione della “Terrazza della Dolce Vita”, porta a Rimini fotografie, cimeli, contributi audiovisivi e contenuti inediti sul celebre mattatore del cinema italiano (www.grandhotelrimini.com).
Sempre Rimini celebra l’iconico personaggio di Mafalda, per i 60 anni della creatura dell’argentino Joaquín Lavado, in arte Quino, con una mostra, fino al 15 settembre, sulla battigia degli stabilimenti dal numero 101 al 151, dal titolo ”Mafalda – Una bambina dalla parte delle donne”. Oltre 200 fumetti immergono i visitatori nel mondo ironico e profondo di questa celebre striscia a fumetti (riminiturismo.it/eventi/mafalda-una-bambina-dalla-parte-delle-donne).
A Milano Marittima (RA) il Mare Pineta Resort, hotel cinque stelle icona di stile e di eleganza ospita fino al 6 gennaio 2024 a ingresso gratuito la mostra “Igor Mitoraj: scolpire l’eternità”, una selezione en plein air e all’interno dell’albergo, di sculture in bronzo dell’artista tra cui i suoi visi dormienti e le sue figure lesionate (www.marepinetaresort.com).
travelnostop.com

Apre a Domodossola la mostra "I tempi del Bello. Tra mondo classico, Guido Reni e Magritte"

tempi del Bello. Tra mondo classico, Guido Reni e Magritte" è il titolo della nuova mostra che i Musei civici "Gian Giacomo Galletti" inaugurano oggi, giovedì 18 luglio, al Museo di Palazzo San Francesco di Domodossola, ideata e curata da Antonio D'Amico, Stefano Papetti e Federico Troletti e realizzata dal Comune di Domodossola in partnership con il Museo Bagatti Valsecchi di Milano e la Fondazione Angela Paola Ruminelli, con il patrocinio della Regione Piemonte e con il fondamentale sostegno di Morgran Italia Srl, Findomo Srl, Ultravox Srl, Punta Est Srl.

All'interno della suggestiva cornice di Palazzo San Francesco, le oltre 40 opere, tra dipinti e sculture in marmo e bronzo, provenienti da importanti musei italiani e prestigiose collezioni private, raccontano i vari "Tempi del Bello", ovvero la ricerca, sulla scorta dei modelli classici, di un connubio di bellezza formale e valori spirituali, che attraversa la storia dell’arte, adattandosi alle esigenze culturali di ogni epoca.

Tra i grandi protagonisti della mostra di Domodossola, che torna a produrre e proporre al grande pubblico un percorso di ricerca e studio trasversale tra i secoli, si potrà ammirare il "divino" Guido Reni, che nell'arte europea del Seicento rappresenta il paladino della classicità, in contrapposizione alla teatralità dell'arte barocca e al naturalismo caravaggesco. Per questa occasione arrivano a Domodossola l'Annunciazione della Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno, uno dei capolavori del grande maestro bolognese, e il San Sebastiano di collezione privata.

Sono inoltre esposte varie sculture rinascimentali di piccolo formato che documentano il gusto del collezionismo e la passione per l'Antico sviluppatisi in particolare dopo le scoperte archeologiche di primo Cinquecento.

Degli artisti Funi, Campigli, Sironi, De Chirico e Magritte la mostra offre significativi esempi accostati tra loro e in dialogo con le opere rinascimentali e classiche. Tra tutti si potrà ammirare eccezionalmente l’affascinante capolavoro di Renè Magritte, "Rena à la fenệtre" del 1937 (in foto), di collezione privata.

Ogni epoca declina un tempo del Bello e la mostra di Domodossola tenta di presentare anche con un intento didattico, particolarmente adatto alle scuole, alcuni eloquenti esempi che rendono immortale la bellezza classica, dal tardo Rinascimento al Novecento, evidenziando modelli che gli artisti fanno propri, ma adeguandoli alle esigenze culturali in auge nei diversi momenti storici.

L'allestimento della mostra è stato progettato da Studio Lys con il coordinamento di Matteo Fiorini, il progetto illuminotecnico è di LightScene Studio con Riccardo Rocco e Luca Moreni, mentre l’illuminazione è stata aggiornata e realizzata in collaborazione con Viabizzuno. La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Sagep Editori d’Arte.

Novara Today

La mostra “I tempi del Bello. Tra mondo classico, Guido Reni e Magritte“, ospitata dai Musei Civici Gian Giacomo Galletti nel Palazzo San Francesco a Domodossola

Guido Reni, Annunciazione, 1626 ca., Pinacoteca Civica, Ascoli Piceno
Verbano-Cusio-Ossola - In principio fu il Classico. Giacomo Leopardi individuava il “Tempo de Bello” nella Grecia del V secolo a.C., quando artisti come Fidia, Mirone e Policleto facevano coincidere il concetto di bellezza con un equilibrio di valori estetici ed etici, espresso attraverso il termine kalokagathìa.
Questi diversi tempi del bello si raccontano adesso in una mostra intitolata I tempi del Bello. Tra mondo classico, Guido Reni e Magritte attesa dal 18 luglio al 25 gennaio presso i Musei civici “Gian Giacomo Galletti” in Palazzo San Francesco a Domodossola.
Oltre quaranta opere, tra dipinti e sculture in marmo e bronzo, in prestito da prestigiosi musei italiani e collezioni private, raccontano la ricerca, sulla base dei modelli classici, del connubio di bellezza formale e valori spirituali che da sempre attraversa la storia dell’arte, adattandosi alle esigenze culturali di ogni epoca. Ideato e curato da Antonio D’Amico, Stefano Papetti e Federico Troletti, realizzato dal Comune di Domodossola in partnership con il Museo Bagatti Valsecchi di Milano e la Fondazione Angela Paola Ruminelli, con il patrocinio della Regione Piemonte e con il sostegno di Morgran Italia S.r.l., Findomo S.r.l., Ultravox S.r.l., Punta Est S.r.l., il percorso trova il suo fulcro nella statuaria classica d’età romana del Museo Nazionale Romano e delle Terme di Diocleziano, esposta per la prima volta nel capoluogo ossolano.

Ospite d’eccezione sarà il “divino” Guido Reni, paladino della classicità nell’arte europea del Seicento permeata della teatralità dell’arte barocca del naturalismo caravaggesco. A Domodossola il pittore bolognese sarà presente con l’Annunciazione della Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno, e con il San Sebastiano da collezione privata. Nella monumentale pala d’altare l’eleganza formale della Vergine e dell’angelo, la torsione del busto nel giovane santo costituiscono un esempio di come nella Bologna del Seicento la conoscenza della statuaria classica e il mito di Raffaello trovino una perfetta declinazione in linea con la cultura del tempo. Guido Reni raccoglie questa eredità dai Carracci. L’immagine del San Sebastiano come un moderno Apollo, un danzatore che si muove leggiadro nel pieno vigore della sua bellezza fisica dipinto da Ludovico Carracci sul finire del Cinquecento, si potrà ammirare in mostra, in prestito dalla Pinacoteca della Fondazione Ettore Pomarici Santomasi di Gravina di Puglia.

Approdato a Roma da Mantova agli albori del Seicento, Rubens, sensibilissimo al fascino della classicità, adattò invece i modelli studiati nelle raccolte principesche romane alle esigenze imposte dai suoi committenti. Atteggiamenti e gesti che possono ricondursi ai modelli classici, reinterpretati in chiave barocca sono ad esempio evidenti nella grandiosa Madonna del Rosario, documentata in mostra da un raro bozzetto proveniente da una collezione privata.
Tra il 1730 e il 1740 lo scalpore suscitato dal ritrovamento dei resti di Ercolano e Pompei indusse i teorici dell’arte neoclassica a recuperare il concetto della kalokagathìa tornando nuovamente ad associare i principi di ordine, armonia, compostezza e “quieta grandezza”, cari a Winckelmann, ai più elevati valori morali.

Lo scalpello di Antonio Canova è quello che, più di ogni altro, riesce a rendere attraverso le proprie opere questo connubio di bellezza e nobili sentimenti, finalizzato a raggiungere il bello ideale. I visitatori di Palazzo San Francesco potranno riconoscere nel Ritratto di Paolina Bonaparte, prestato dal Museo Napoleonico di Roma, il viso perfetto della sorella di Napoleone come Venere Vincitrice, esempio di come i temi della mitologia classica si pongano, in questo caso, al servizio del potere, assumendo finalità educative e celebrative.

Il richiamo alla tradizione greco-romana è evidente anche in campo architettonico. Accade soprattutto nel periodo post-unitario, come dimostra lo scultore genovese Demetrio Paernio, artefice di diversi monumenti funerari nel cimitero di Staglieno. Paernio celebra l’arte alessandrina modellando una delle figure più leziose della classicità, come il Puttino dormiente. La presenza in mostra di diverse sculture rinascimentali di piccolo formato documenta il gusto del collezionismo e la passione per l’antico maturato soprattutto all’indomani delle scoperte archeologiche a inizio Cinquecento. Se nei primi due decenni del Novecento, la scure delle Avanguardie si abbatte sulla classicità, nel 1924 il critico francese Maurice Rejnal auspica un ripensamento rispetto alle posizioni anti classiche, sostenendo la necessità di un “Ritorno all’Ordine” che si rintraccia nei lavori di artisti coma Achille Funi, Massimo Campigli, Mario Sironi, De Chirico e Magritte, convinti a riaffermare il perenne valore della classicità seguendo l’indirizzo teorico di Margherita Sarfatti. I loro lavori, tra i quali spicca l’affascinante Rena à la fenệtre del 1937 di Renè Magritte, di collezione privata, si potranno incontrare in mostra, in dialogo con le opere rinascimentali e classiche.

Fino al 29 settembre l'esposizione si potrà visitare da giovedì a domenica dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18. Dal 30 settembre da giovedì a domenica dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18. Lunedì, martedì e mercoledì chiuso.

Reneé Magritte, Rena à la fenêtre (Portrait of Rena Schitz), 1937, Collezione privata

arte.it

A Zagabria un Museo dedicato alla cravatta


A Zagabria, capitale croata, è stato aperto un museo della cravatta, unico al mondo. Situato nel centro della città, questo museo è aperto a chiunque voglia scoprire le curiosità e segreti su quest’elegante accessorio di moda più popolare originario della Croazia.

L’idea del museo è quella di promuovere il fatto che la cravatta proviene dalla Croazia dal XVII secolo e di collocare la Croazia sulla mappa del mondo come la sua patria. Sebbene sia un accessorio di moda quotidiano, spesso dato per scontato, la cravatta nasconde una storia romantica sulla sua origine e, durante i suoi 400 anni di storia, ha spesso rivestito un grande ruolo simbolico.

Segno d’eleganza e di stile dal XVII secolo, senza la quale  nessun uomo è un vero gentiluomo, è stato calcolato che esistono ben 177.147 modi di annodare al collo quest’accessorio che tutto il mondo ama e indossa da tanto tempo. Stiamo parlando della cravatta, che i Croati introdussero nel mondo della moda nel XVII secolo. Le origini della cravatta odierna risalgono alla Guerra dei trent’anni quando i mercenari croati in servizio in Francia, indossando i loro tradizionali foulard annodati, suscitarono l’interesse dei francesi e,  causa la differenza di pronuncia tra la parola croata per “croati”, hrvati, con la corrispondente francese croates, il foulard prese il nome di cravate.

Nonostante il fatto che il fulcro del museo sia un oggetto di 400 anni, questo museo è tutt’altro che antico. Progettato in modo moderno, interattivo e social ti trascina nel mondo della cravatta in un modo sorprendentemente divertente. Qui troverai l’unica cravatta antiproiettile al mondo, vedrai al microscopio bozzoli di seta di gelso e fili di seta, potrai ‘entrare’ nel XVII secolo attraverso l’esposizione in 3D dei cavalieri e ritrovarti al centro delle cravatte del reggimento. Resta impressa anche la visione della cravatta del futuro di Juraj Zigman, noto stilista croato, che ha realizzato i vestiti per Beyonce, Nicki Minaj, Rita Ora, Cristina Aguilera, Cardi B…

“È meglio imparare divertendosi, soprattutto se parliamo delle generazioni più giovani, ed è proprio per questo che il  museo è stato progettato per raccontare tante curiosità e storie sulle cravatte in modo piacevole e interattivo. Vogliamo che il visitatore esca più felice dopo circa 40 minuti e che sia difficile per lui scegliere la foto migliore dal museo perché ne ha scattate circa un centinaio”, dice Igor Mladinović, comproprietario del museo. Alla cerimonia di apertura erano presenti anche il presidente croato Zoran Milanović e molti cittadini famosi. Il 18 ottobre di ogni anno si festeggia il ‘Cravatta day’ la Giornata mondiale della cravatta.

Il museo è aperto tutti i giorni dalle 10:00 alle 20:00. Indirizzo: Tomićeva 5, Zagabria
Biglietti: 8 euro, 5 euro studenti  (bambini fino a 7 anni gratis),  gruppi su appuntamento.

travelnostop.com

Un prete fotografo tra '800 e '900 da Parigi a Tortorici, la collezione storica del museo etnofotografico Franchina/Letizia

 

E' stata inaugurata venerdì 14 Giugno, allo Spazio LOC, la mostra "Un prete fotografo tra '800 e '900, da Parigi aTortorici", a cura dell'Avvocato Calogero Randazzo e dell'Architetto Massimo Ioppolo.

Un vero e proprio viaggio nel tempo attraverso le rare e interessanti immagini esposte allo Spazio LOC (Capo d'Orlando), che fanno parte di una ben più ampia collezione, custodita all'interno dell'ex municipio di Tortorici, oggi sede del museo etnofotografico Franchina/Letizia.

Monsignor Calogero Franchina è il prete fotografo che fa ritorno a fine 800 da Parigi - dove porta avanti i suoi studi di teologia - a Tortorici, suo paese d'origine, portando con sé questa nuova arte, la fotografia.

Per quasi mezzo secolo, Mons. Franchina ritrae personaggi, eventi e paesaggi di Tortorici, costruendo ad arte e, con arte, un grandioso fotoreportage della vita e dei costumi della sua comunità e raccontando su carta fotografica quella che è la storia evolutiva di un pò tutto il meridione, non tralasciando nei ritratti l'estetica parigina della Belle Epoque.


Per un fortuito evento qualche anno fa, tutto il materiale fotografico del prete e della nipote - Marietta Letizia, erede dell'arte e dell'attrezzatura dello zio – vengono ritrovati e collocati all'interno del museo, uno dei più ricchi ed interessanti musei etnografici dell'intero Sud italia, un piccolo gioiello ancora non molto conosciuto del territorio nebroideo


La mostra resterà aperta al pubblico fino al 6 Luglio

messina today

Le mostre del weekend, dalla Street Art a Isgrò


I principali esponenti della Street Art e un maestro come Emilio Isgrò, fino a Enrico Baj ed Elisabetta Benassi: sono alcune delle mostre della settimana.

CAORLE - Al centro culturale Bafile dal 10 maggio al 1 settembre la mostra "Basquiat, Haring, Banksy: the international and mysterious world of Street Art".

Esposta una settantina di opere provenienti da Italia, Spagna, Francia, Inghilterra e Stati Uniti, firmate dagli artisti che, dagli anni '70 ad oggi, sono considerati tra i principali portavoce della Street Art.

 Fino al 14 luglio la Fondazione Ragghianti ospita la retrospettiva "Otto Hofmann artista europeo: dal Bauhaus all'Italia". A cura di Paolo Bolpagni e Giovanni Battista Martini, la mostra è la prima dedicata all'artista tedesco nel nostro Paese da circa 15 anni, e ne documenta tutta l'attività artistica, includendo numerose opere inedite. Tra le rarità esposte quaderni illustrati di Hofmann delle lezioni tenute da Klee e Kandinskij tra il1928 e il 1930, e una documentazione delle corrispondenze dei suoi maestri e del diploma che conseguì nella scuola fondata da Gropius.

ROMA - Alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea dall'8 maggio al 31 dicembre nell'ambito dell'iniziativa Artista alla Gnam la mostra "Emilio Isgrò: Protagonista 2024": in occasione dei 60 anni della "cancellatura" - il "gesto" che rappresenta Isgrò - l'artista ha creato l'opera "Isgrò cancella Isgrò", con la cancellazione di "Autocurriculum", il suo romanzo autobiografico, che sarà donata alla Gnam. Sempre nel museo capitolino, fino al 30 giugno "Bai Ming. At the Crossroads of Worlds", la prima personale italiana dell'artista cinese contemporaneo Bai Ming. Il progetto espositivo, a cura di Jean-Louis Andral, testimonia il profondo legame tra creatività antica e contemporanea, alla base dell'operato del poliedrico artista da sempre capace di fondere tradizione e modernità. Dal 9 maggio al 25 agosto il Macro ospita "Autoritratto al lavoro", la prima grande antologica dedicata a Elisabetta Benassi. Per raccontare oltre 20 anni della sua produzione, Benassi propone una riflessione sul concetto stesso di retrospettiva attraverso una mise-en-scène delle sue opere con un sistema di architetture e ambienti disposte nello spazio come fossero quinte teatrali.
    Alla Mucciaccia Gallery dal 10 maggio al 6 luglio la mostra Tête-à-tête, a cura di Catherine Loewe, dedicata al racconto della vita privata e professionale di alcune coppie di artisti.
    Il percorso si configura come un racconto appassionato, in un serrato confronto delle opere eseguite dai protagonisti: Sue Arrowsmith & Ian Davenport, Nick Carter & Rob Carter, Charlotte Colbert & Philip Colbert, Rossella Fumasoni & Piero Pizzi Cannella, Emilia Kabakov & Ilya Kabakov, Carolina Mazzolari & Conrad Shawcross, Annie Morris & Idris Khan, Shirin Neshat & Shoja Azari.

NUORO - Allo Spazio Ilisso dal 4 maggio la mostra "Unica. Sei storie di artiste italiane" a cura di Maria Grazia Messina, Anna Maria Montaldo, Giorgia Gastaldon. Nel percorso figurano oltre 70 opere, alcune delle quali inedite, per raccontare il lavoro - ma anche le loro battaglie e le sfide nel contesto dell'arte italiana del Novecento - di sei artiste: Carla Badiali, Carol Rama, Giosetta Fioroni, Carla Accardi, Tomaso Binga (Bianca Pucciarelli Menna) e Maria Lai.

MILANO - Si intitola "Baj. Libri in libertà" la mostra omaggio allestita alla Biblioteca Nazionale Braidense fino al 6 luglio, a cura di Angela Sanna, Michele Tavola e Marina Zetti. Pensata in occasione dei 100 anni della nascita di Enrico Baj, l'esposizione presenta una ricca selezione di libri d'artista che attraversa tutta del grande pittore e scultore milanese.
    "Teatro dei Vitellini - Regia di Gian Paolo Barbieri" è la nuova mostra del grande fotografo di moda in programma a Leica Galerie Milano dal 10 maggio al 24 agosto. Esposte 25 immagini inedite (preparate in studio con un lavoro artigianale e artistico) in cui Barbieri, che ha avviato la sua carriera come attore, operatore e costumista, rilegge l'opera di Shakespeare.

TREVISO - Dal 9 maggio al 30 giugno a Treviso (e poi dal 19 luglio al 3 novembre 2024 a Monopoli), arriva "In my name. Above the show", a cura di Martina Cavallarin con Antonio Caruso.
    L'esposizione - attraverso 17 artisti, 155 fra tele e disegni, 2 opere in Virtual Reality, 18 tra sculture e installazioni, 5 video installazioni e proiezioni - si propone di fare il punto sullo stato dell'Urban Art. 

ansa.it

La mostra a Parigi. Brancusi, la forma cerca la verità assoluta


Eseguiti gli studi primari in Romania, frequentando a Craiova la Scuola di arti e mestieri e diplomandosi poi all’Accademia di Belle Arti di Bucarest, dove vinse vari premi, fra cui per una statua a misura umana dello Scuoiato, vale a dire una accademica “Anatomia”, dove però si notano alcuni dettagli che ritroveremo come tema formale nella sua scultura maggiore, come la testa ripiegata; dopo i passi della formazione accademica Constantin Brancusi parte per una lunga promenade europea dove, a piedi, raggiunge nel 1904 Parigi e con grande rapidità entra nel clima artistico della capitale.

Ha 28 anni e le idee chiare, elaborate sulla scultura classica, ma anche sull’arte popolare che affonda le radici nel mestiere artigiano e nel sapere degli ebanisti romeni. Le due tradizioni, quella classica e quella popolare, restano in lui come un imprinting, e questo gli consentirà poi di realizzare una scultura che oscilla sempre tra un primitivismo che armonizza l’elemento spontaneo del mondo “artigianale” – per lui non esiste una separazione netta con l’arte “maggiore” in quanto la conoscenza del mestiere è anche capacità di ascolto delle materie che si impiegano, e le forme quasi sempre sono il derivato di una tradizione che affonda le radici in quel sapere manuale che avrà per Brancusi sempre suprema importanza – con una trasformazione dell’elemento antico e classico dentro una ricerca della semplicità che non ha niente a che vedere con la facilità. Anzi: come dice in alcuni sui aforismi, raccolti in un libro edito in Francia per la cura di Doïna Lemny, che prende il titolo proprio da una delle sue massime più note: L’art, c’est la vérité absolute: «la semplicità è la complessità risolta», ovvero «la semplicità è la complessità stessa, che deve nutrirsi della sua essenza per conoscere il proprio valore».

Il “principio semplicità” di Brancusi è una forma che quando raggiunge l’essenza penetra con l’intuizione fino al nocciolo duro della forma significante, tocca con gli occhi e con la mano la verità assoluta, ciò che potrebbe anche essere la madre del capolavoro. Le opere di Brancusi sono tutte di elevato valore, cioè di una concezione che, come il “togliere” di Michelangelo, raggiunge quasi sempre il limite che lascia emergere la forma cercata dall’artista dentro quella verità assoluta. E se non tutte possono considerarsi dei “capolavori” – vocabolo oggi impiegato con una tale facilità e frequenza da chi parla di opere d’arte che non significa più nulla, ed è questo il motivo per cui anche le mostre ormai si pensano col metro della quantità di opere esposte e non secondo progetti dove il distillato dell’artista rende chiaro sia i fondamenti della sua grandezza sia la capacità critica di interpretarli (bulimia cui corrispondono cataloghi monumentali, infarciti di saggi spesso inutili e pretenziosi ) –; si deve comunque dire che la ricerca dello scultore romeno, che chiese la nazionalità francese soltanto nel 1950, sette anni prima di morire, ha trasformato la scultura anche rispetto agli sviluppi prodotti dagli altri grandi autori del secolo. Per questo Brancusi si contende il primato di maggiore scultore del Novecento con Arturo Martini, un altro che ha trasformato l’idea stessa di classicità reinventandola come modernità senza smettere di pensare l’arte plastica con un senso poetico che, al termine della sua esistenza, spinse Martini a scrivere il celebre e sofferto bilancio che intitolò La scultura lingua morta.

La mostra che si sta svolgendo fino al 1° luglio al Beaubourg di Parigi (che sarà forse l’ultima prima della chiusura per ristrutturazione della “macchina” progettata da Piano e Rogers), rispecchia nel bene e nel male tutto questo. È a suo modo eccessiva, rutilante in fatto di materiali (sculture, fotografie, disegni, oggetti, documenti…), fa vedere abbastanza bene il percorso dell’artista, ma lascia forse un po’ nell’ombra gli inizi esponendo le prime opere senza indagare gli anni romeni e i rapporti visivi e mentali col mondo popolare di quella cultura. Ma a monte ci sono forse ragioni che rendono questa mostra meno necessaria di quanto si potrebbe pensare, quasi si fosse cercato di risparmiare costruendo la mostra con materiali già “in casa”. Mentre stava per avvicinarsi il tempo della fine, a ottant’anni Brancusi fece testamento lasciando il suo atelier e tutto quanto conteneva allo Stato francese. Morto l’artista nel 1957, Parigi collocò quell’eredità nel Museo d’arte moderna del Palais de Tokyo, poi, dopo l’inaugurazione del Centre Pompidou (1977), un po’ di anni dopo venne costruito ai margini della piazza del Beaubourg, ancora su progetto di Piano, un edificio dove ancora oggi si può visitare l’atelier che conserva 137 sculture, 87 piedistalli, 41 disegni, 2 dipinti e più di 1.600 tra lastre fotografiche in vetro e fotografie originali dell'artista, come recita l’invito al Museo. Ma questa situazione – scrive la curatrice della mostra, Ariane Coulondre –, è provvisoria, perché la ristrutturazione del Beaubourg, che durerà fino a 2025 inoltrato, prevede una ricollocazione dell’atelier all’interno della nuova organizzazione dell’edificio. Ed è proprio questo progetto che rende la mostra in corso in qualche modo “superflua”, anche se varie opere provengono da fuori. Potrebbe darsi, però, che l’esposizione miri a dare allo spettatore un assaggio di come verrà ripensato l’allestimento dell’atelier. Vedremo.

La ricerca della semplicità potrebbe anche corrispondere all’essenzialità, se non fosse che l’astrazione di Brancusi non è affatto una riduzione al concetto, anzi, vuole dare – e qui si potrebbero trovare paralleli con gli studi sugli archetipi e i simboli di Mircea Eliade, che non sono riduzioni spiritualistiche delle testimonianze antiche, ma un modo di illuminarle come permanenze nella mente dell’uomo di oggi – alla forma una solidità compiuta, un valore assoluto appunto, e in questo processo una delle clausole fondamentali, che rendono Brancusi superiore a ogni altro scultore del suo tempo, è la partecipazione del basamento alla risoluzione dell’opera. La base su cui appoggiano marmi o bronzi, oppure dove si elevano altre forme lignee, sono parte integrante dell’opera che, se ne venisse privata, rischierebbe di diventare il “moncherino” di una idea plastica (dove spesso la scultura e il basamento in effetti lavorano in dialettica: si vedano le due versioni di Danaïde del 1913 in bronzo patinato nero – una trattata a foglia d’oro –; o le due versioni di Torso di giovane uomo del 1917 e del 1923, la prima in ottone e l’altra in legno, una con basamento in pietra cubico, l’altra a parallelepipedo rettangolo, la cui differenza slancia oppure àncora al piano d’appoggio le due sculture. Così si veda l’articolazione del basamento e la mutevolezza delle forme della scultura lignea, separati da un piccolo piedistallo cilindrico in pietra, della Strega (191624) come, alla stesso modo, accade in Lo studio per un ritratto del 19161933 e proprio questa doppia data ci fa capire che l’opera si è sviluppata nella forma trovando il suo basamento lungo gli anni). L’idea della complementarità del basamento nella concezione plastica dell’opera prende piede nella poetica di Brancusi soprattutto dagli anni 20 in poi: la ritroviamo nella serie delle teste ovali, con inserimenti di dischi d’acciaio lucidato, come nella serie di Leda, in marmo o bronzo patinato a specchio dove il basamento è in cemento o in marmo nero separato dal bronzo da un disco.

Come rileva la curatrice «lo statuto stesso dell’oggetto svanisce e mobili zoccoli e sculture collaborano a uno stesso vocabolario di forme elementari ». Lo vediamo ancora nelle due versioni della Maïastra, leggendario uccello che compare nella letteratura romena folclorica, oppure nel famosissimo soggetto dell’Uccello nello spazio che, nel 1926, in occasione dell’importazione a New York delle sculture di Brancusi per una mostra, organizzata da Duchamp presso la Brummer Gallery, sollevò un caso da manuale con il doganiere di turno che si rifiutò di farla passare come opera d’arte e la tassò come comune manufatto. La diatriba durò fino al 1928, quando il tribunale diede ragione a Brancusi (pur con qualche distinguo) e su questo il giurista Bernard Edelman scrisse vent’anni fa il saggio Addio alle arti dove sosteneva che la querelle sull’opera di Brancusi ha cambiato il nostro modo di rapportarci all’opera d’arte sul piano commerciale, ma anche su quello estetico. Una delle opere più belle, che riassume un po’ tutte le ragioni poetiche di Brancusi, è Le Coq, il gallo, di cui è esposta la versione del 1935 in bronzo lucidato, zoccolo in pietra calcarea e basamento in legno tripartito. Il soggetto apre l’esposizione con i tre grandi gessi alti fino a quattro metri e ci fanno capire, insieme alla Colonna senza fine (preferibile a infinita, a mio parere), il “genio elementare” che consente a Brancusi di usare l’immaginazione applicandola alla semplicità con cui la sua “visione spirituale” attinge la forma terrena dell’opera dall’iperuranio dell’arte.

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La mostra. Il set mai visto del Vangelo secondo Matteo di Pasolini

Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini a colori. E’ questa una delle chicche della emozionante mostra in corso sino al 25 agosto nel Centro studi Pasolini di Casarsa (Pordenone), dedicata alle foto di scena del rivoluzionario film a 60 anni dalla sua uscita. E poi ci sono i ritratti intensi del giovane Enrique Irazoqui, scelto da Pasolini per interpretare il Cristo, che osserva attentamente il regista mentre gli spiega la sceneggiatura, e quelli addolorati e celebri della madre Susanna Colussi, che il regista volle nella parte di Maria di Nazareth, ai piedi della croce, ancor più suggestivi poiché richiamano il profondo legame tra Pasolini e la madre. E poi la città di Matera, la Gerusalemme ritrovata di Pier Paolo Pasolini, le campagne di Barile che diventano Betlemme, i luoghi, i paesaggi di un’Italia meridionale che negli anni Cinquanta e Sessanta erano considerati il simbolo di un ambiente degradato ed emarginato e che assumono nel film un forte valore religioso.

Il curatore della mostra, Roberto Chiesi, critico cinematografico e responsabile del Centro studi-Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna, sottolinea come le foto di scena costituiscano «un modo per tracciare una sorta di mappa del film, e trattandosi di un’opera che turba, stimola alla riflessione e suscita emozioni, prolungano e approfondiscono questo tipo di processo». Molte foto fissano momenti che sono spesso colti dietro le quinte e «ci ricordano – aggiunge Chiesi - che sul set e fra gli interpreti ci sono molti degli amici di Pasolini, alcuni intellettuali di fama come Enzo Siciliano o un giovane Giorgio Agamben, Ninetto Davoli che qui debutta, addirittura la madre Susanna, c’è quindi la vita di Pasolini». La mostra è divisa per aree tematiche e, attraverso lo sguardo di Novi, scopriamo nuovi dettagli sul set e sul film stesso. Alcuni affascinanti scatti a colori (mentre il film è in bianco e nero) ci aiutano a cogliere meglio i riferimenti pittorici di Pasolini, come quelli a Piero della Francesca nei sontuosi abiti dei farisei i cui volti, per contro, popolani spiccano nella sezione “Volti e corpi”, o negli scenari assolati della Basilicata e nella sontuosità delle architetture del castello di Gioia del Colle in Puglia sede del Sinedrio in “La reinvenzione dei luoghi” e “La sacralità dei rituali”. Mentre nella sezione “La realtà del set”, come afferma Chiesi, le fotografie di Novi permettono allo spettatore di vedere cose che possono essere sfuggite, «come rendersi conto, per esempio, che Maria di Betania è Natalia Ginzburg o che sul set c’era anche Elsa Morante consulente per le musiche». E di scoprire che Pasolini usava delle lavagnette con le battute del film ad uso degli attori non professionisti o di vedere inquadrature che sarebbero state poi tagliate e che ci svelano altri segreti del “suo” Vangelo.

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Ballarò si mette in mostra con Marras e Bellina. Il designer e il fotografo raccontano il quartiere di Palermo

 

Cosa succede quando un famoso stilista e un fotoreporter, che vive nel più popolare mercato di Palermo, s'incontrano per caso sul web? Accade che uomini e donne escono dalle ombre di uno dei quartieri più degradati e, al tempo stesso, più vitali del Sud vestendo Marras.

La mostra "Nonostante Ballarò", che si apre domani 3 maggio nell'Oratorio dei SS.  Crispino e Crispiniano, è la storia per immagini del dialogo, nato a distanza durante la pandemia e poi divenuto sempre più intimo e ravvicinato fra Antonio Marras, designer di moda fra i più apprezzati del panorama attuale, e Francesco Bellina, fotografo palermitano. Le 18 fotografie esposte negli spazi della chiesa sono la narrazione di alcuni giorni dello scorso settembre in cui l'artista sardo, che abita e lavora fra Alghero e Milano, ha incontrato il fotografo siciliano - nel luogo che quest'ultimo definisce casa - e ha vissuto con lui, in un set tanto itinerante quanto aperto e reale.

    Ballarò è il cuore oscuro di Palermo, incastonato nel centro storico racchiude in sé tutte le contraddizioni di una città che, qui più che altrove, è terra di frontiera, un luogo dove la nuova immigrazione e i vecchi abitanti riescono a convivere più o meno in pace, nonostante siano sull'orlo dell'abisso. È probabilmente il quartiere che conserva meglio il fascino trasgressivo di vicoli e di vite al limite, di emergenze monumentali e di rovine.
    In quei giorni di inizio autunno, Marras ha letteralmente travolto luoghi, persone e cose: parcheggiatori abusivi, il mercato del baratto, l'autolavaggio, il circolo Arci utilizzato per backstage e fitting. Le sue creazioni sono divenute pretesto, punto di partenza per una ricerca che unisce mondi separati da distanze siderali. Il risultato è un documento della vita reale del quartiere, un'incursione nel quotidiano dei suoi abitanti di giorno e di notte, fra alberi di fico e macerie, senza imposizioni e set preconfezionati ad uso flash. Le foto di Bellina ci mostrano il volto di uomini e di donne, che per molti un volto non ce l'hanno. Sono scatti neobarocchi dal bel taglio compositivo, che sanno cogliere il senso della ricerca di Marras e, al tempo stesso, trasformare situazioni, azioni ed eventi in un percorso ricco di umanità e di nuove e diverse modalità di comunicazione. I protagonisti delle foto indossano gli abiti che Marras ha portato da Milano racchiusi alla rinfusa in due valigie, divenendo gli interpreti di una maniera diversa di concepire il patinato mondo della moda. "Re e regine per un giorno" ci raccontano le loro storie senza infingimenti. Coi loro sguardi, le posture, la spontaneità dei gesti, ci offrono spunti nuovi che avvicinano universi lontani per cercare un più diretto legame tra l'immagine e la realtà che la compone, fino a decostruire e mutare la dimensione statica e contemplativa dell'opera. Alcuni scatti sono esposti anche all'Hotel Villa Igiea, partner della mostra. 
   

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Antonio Ligabue, cento opere in mostra da settembre a Bologna

 



Per la prima volta a Bologna arriva la grande mostra dedicata a uno degli artisti più emozionanti del '900, Antonio Ligabue.

Dal 18 settembre a fine marzo 2025, a Palazzo Albergati, cento opere accompagneranno il visitatore alla scoperta di un uomo dalla vita tormentata ed emarginato dalla società, ma alla costante ricerca di un riscatto sociale come uomo e come artista.

L'esposizione è promossa e organizzata da Arthemisia, che ha un rapporto speciale con Ligabue, nato nel 2017 con una mostra al Complesso del Vittoriano di Roma e seguita dalle esposizioni di Conversano e Trieste.
    Paesaggi, fiere, scene di vita quotidiana e numerosi e intensi autoritratti: un centinaio di opere - tra oli, disegni e sculture - saranno protagoniste di un percorso espositivo unico dove, attraverso la forte carica emotiva delle tele, sarà possibile conoscere la vita di un artista visionario e sfortunato ma che, da autodidatta, fu ed è tutt'oggi capace di parlare a tutti con immediatezza e genuinità. Antonio Ligabue, con la sua vita così travagliata, escluso dal resto della sua gente, legato visceralmente al mondo naturale e animale e lontano dal giudizio altrui, riuscì a imprimere sulla tela il suo genio creativo: un uomo, talmente folle e unico, che con la sua asprezza espressionista penetra ancora oggi nelle anime di chi ammira le sue opere. 
   

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Nel nuovo mondo wireless con il clone IA di Marconi. A Via Asiago una mostra celebra il genio inventore


L'appello di D'Annunzio per la questione fiumana trasmesso via radio dal panfilo Elettra, sul quale Guglielmo Marconi era arrivato a Fiume mandato però dal governo italiano per convincere il Vate a rinunciare alla sua impresa. E poi il primo "silent party" della storia, avvenuto sul ponte della nave, con i ballerini che danzavano in cuffia ascoltando in mezzo al mare la voce del soprano Melba. O ancora il primo esperimento di "wireless" quando l'inventore accese da Genova le luci di Sidney o il primo di navigazione alla cieca, tramite le micro-onde, con cui l'inventore della radio, memore del disastro del Titanic, pose le basi per la nascita del radar. Sono alcuni dei frutti del genio inventore della radio che si scoprono alla mostra "Guglielmo Marconi. Prove di Trasmissione", inaugurata dalla Rai in via Asiago, la "casa" del genio della radio. E dove ad accompagnare il visitatore è lo stesso Marconi, ricostruito digitalmente grazie all'intelligenza artificiale. Grazie al materiale audio e fotografico d'archivio e alle tecnologie deep fake e voice cloning, è infatti il volto dell'inventore con la sua mimica facciale, ma anche la sua parlata e il suo timbro vocale, che conduce lo spettatore alla scoperta di quello che è stato il nuovo mondo in versione "wirless". Senza il quale non ci sarebbero non solo la radio e la tv ma neppure "gli attuali smartphone, il Gps i satelliti, internet, il radio soccorso o le comunicazioni con le navi, gli aerei e le sonde spaziali e in cui non avremmo esplorato la luna o marte" ci dice il clone di Marconi che dedica le sue invenzioni alla "passione, dedizione, perseveranza grazie alla quale semplici essere umani riescono talvolta a cambiare il mondo e la storia dell'umanità". Promossa dalla Rai nel 150/o anniversario dalla nascita del pioniere delle telecomunicazioni e in concomitanza con i 70 anni dalla nascita della televisione e i 100 anni della radio, la mostra, patrocinata dal ministero della Cultura e visitabile dal 4 maggio prenotandosi sul sito del Fai, è nel Palazzo della Radio di Via Asiago, il luogo dal quale sono partite le onde di trasmissione radio che hanno portato informazione e intrattenimento in tutto il Paese. E dove è conservata anche quella che fu la scrivania di Marconi, che per anni lavorò in quel palazzo e ne percorse i corridoi. La mostra si focalizza, in particolare, sul periodo che va dai primi anni Venti alla prima metà degli anni Trenta, prima della scomparsa di Marconi, ovvero sugli esperimenti e sui viaggi che egli fece a bordo della fidatissima nave-laboratorio Elettra. "La storia è fatta di snodi che le consentono di cambiare direzione e Marconi è stato uno di questi. E l'ha fatto facendosi anche portatore di una visione etica della scienza e del progresso, con l'ottimismo e la speranza nel futuro" ha detto il direttore generale della Rai, Giampaolo Rossi, inaugurando l'esposizione assieme, tra gli altri, al nipote dell'inventore, il principe Guglielmo Giovannelli Marconi ed Umberto Broccoli.
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