Eseguiti gli studi primari in Romania, frequentando a Craiova la Scuola di arti e mestieri e diplomandosi poi all’Accademia di Belle Arti di Bucarest, dove vinse vari premi, fra cui per una statua a misura umana dello Scuoiato, vale a dire una accademica “Anatomia”, dove però si notano alcuni dettagli che ritroveremo come tema formale nella sua scultura maggiore, come la testa ripiegata; dopo i passi della formazione accademica Constantin Brancusi parte per una lunga promenade europea dove, a piedi, raggiunge nel 1904 Parigi e con grande rapidità entra nel clima artistico della capitale.
Ha 28 anni e le idee chiare, elaborate sulla scultura classica, ma anche sull’arte popolare che affonda le radici nel mestiere artigiano e nel sapere degli ebanisti romeni. Le due tradizioni, quella classica e quella popolare, restano in lui come un imprinting, e questo gli consentirà poi di realizzare una scultura che oscilla sempre tra un primitivismo che armonizza l’elemento spontaneo del mondo “artigianale” – per lui non esiste una separazione netta con l’arte “maggiore” in quanto la conoscenza del mestiere è anche capacità di ascolto delle materie che si impiegano, e le forme quasi sempre sono il derivato di una tradizione che affonda le radici in quel sapere manuale che avrà per Brancusi sempre suprema importanza – con una trasformazione dell’elemento antico e classico dentro una ricerca della semplicità che non ha niente a che vedere con la facilità. Anzi: come dice in alcuni sui aforismi, raccolti in un libro edito in Francia per la cura di Doïna Lemny, che prende il titolo proprio da una delle sue massime più note: L’art, c’est la vérité absolute: «la semplicità è la complessità risolta», ovvero «la semplicità è la complessità stessa, che deve nutrirsi della sua essenza per conoscere il proprio valore».
Il “principio semplicità” di Brancusi è una forma che quando raggiunge l’essenza penetra con l’intuizione fino al nocciolo duro della forma significante, tocca con gli occhi e con la mano la verità assoluta, ciò che potrebbe anche essere la madre del capolavoro. Le opere di Brancusi sono tutte di elevato valore, cioè di una concezione che, come il “togliere” di Michelangelo, raggiunge quasi sempre il limite che lascia emergere la forma cercata dall’artista dentro quella verità assoluta. E se non tutte possono considerarsi dei “capolavori” – vocabolo oggi impiegato con una tale facilità e frequenza da chi parla di opere d’arte che non significa più nulla, ed è questo il motivo per cui anche le mostre ormai si pensano col metro della quantità di opere esposte e non secondo progetti dove il distillato dell’artista rende chiaro sia i fondamenti della sua grandezza sia la capacità critica di interpretarli (bulimia cui corrispondono cataloghi monumentali, infarciti di saggi spesso inutili e pretenziosi ) –; si deve comunque dire che la ricerca dello scultore romeno, che chiese la nazionalità francese soltanto nel 1950, sette anni prima di morire, ha trasformato la scultura anche rispetto agli sviluppi prodotti dagli altri grandi autori del secolo. Per questo Brancusi si contende il primato di maggiore scultore del Novecento con Arturo Martini, un altro che ha trasformato l’idea stessa di classicità reinventandola come modernità senza smettere di pensare l’arte plastica con un senso poetico che, al termine della sua esistenza, spinse Martini a scrivere il celebre e sofferto bilancio che intitolò La scultura lingua morta.
La mostra che si sta svolgendo fino al 1° luglio al Beaubourg di Parigi (che sarà forse l’ultima prima della chiusura per ristrutturazione della “macchina” progettata da Piano e Rogers), rispecchia nel bene e nel male tutto questo. È a suo modo eccessiva, rutilante in fatto di materiali (sculture, fotografie, disegni, oggetti, documenti…), fa vedere abbastanza bene il percorso dell’artista, ma lascia forse un po’ nell’ombra gli inizi esponendo le prime opere senza indagare gli anni romeni e i rapporti visivi e mentali col mondo popolare di quella cultura. Ma a monte ci sono forse ragioni che rendono questa mostra meno necessaria di quanto si potrebbe pensare, quasi si fosse cercato di risparmiare costruendo la mostra con materiali già “in casa”. Mentre stava per avvicinarsi il tempo della fine, a ottant’anni Brancusi fece testamento lasciando il suo atelier e tutto quanto conteneva allo Stato francese. Morto l’artista nel 1957, Parigi collocò quell’eredità nel Museo d’arte moderna del Palais de Tokyo, poi, dopo l’inaugurazione del Centre Pompidou (1977), un po’ di anni dopo venne costruito ai margini della piazza del Beaubourg, ancora su progetto di Piano, un edificio dove ancora oggi si può visitare l’atelier che conserva 137 sculture, 87 piedistalli, 41 disegni, 2 dipinti e più di 1.600 tra lastre fotografiche in vetro e fotografie originali dell'artista, come recita l’invito al Museo. Ma questa situazione – scrive la curatrice della mostra, Ariane Coulondre –, è provvisoria, perché la ristrutturazione del Beaubourg, che durerà fino a 2025 inoltrato, prevede una ricollocazione dell’atelier all’interno della nuova organizzazione dell’edificio. Ed è proprio questo progetto che rende la mostra in corso in qualche modo “superflua”, anche se varie opere provengono da fuori. Potrebbe darsi, però, che l’esposizione miri a dare allo spettatore un assaggio di come verrà ripensato l’allestimento dell’atelier. Vedremo.
La ricerca della semplicità potrebbe anche corrispondere all’essenzialità, se non fosse che l’astrazione di Brancusi non è affatto una riduzione al concetto, anzi, vuole dare – e qui si potrebbero trovare paralleli con gli studi sugli archetipi e i simboli di Mircea Eliade, che non sono riduzioni spiritualistiche delle testimonianze antiche, ma un modo di illuminarle come permanenze nella mente dell’uomo di oggi – alla forma una solidità compiuta, un valore assoluto appunto, e in questo processo una delle clausole fondamentali, che rendono Brancusi superiore a ogni altro scultore del suo tempo, è la partecipazione del basamento alla risoluzione dell’opera. La base su cui appoggiano marmi o bronzi, oppure dove si elevano altre forme lignee, sono parte integrante dell’opera che, se ne venisse privata, rischierebbe di diventare il “moncherino” di una idea plastica (dove spesso la scultura e il basamento in effetti lavorano in dialettica: si vedano le due versioni di Danaïde del 1913 in bronzo patinato nero – una trattata a foglia d’oro –; o le due versioni di Torso di giovane uomo del 1917 e del 1923, la prima in ottone e l’altra in legno, una con basamento in pietra cubico, l’altra a parallelepipedo rettangolo, la cui differenza slancia oppure àncora al piano d’appoggio le due sculture. Così si veda l’articolazione del basamento e la mutevolezza delle forme della scultura lignea, separati da un piccolo piedistallo cilindrico in pietra, della Strega (191624) come, alla stesso modo, accade in Lo studio per un ritratto del 19161933 e proprio questa doppia data ci fa capire che l’opera si è sviluppata nella forma trovando il suo basamento lungo gli anni). L’idea della complementarità del basamento nella concezione plastica dell’opera prende piede nella poetica di Brancusi soprattutto dagli anni 20 in poi: la ritroviamo nella serie delle teste ovali, con inserimenti di dischi d’acciaio lucidato, come nella serie di Leda, in marmo o bronzo patinato a specchio dove il basamento è in cemento o in marmo nero separato dal bronzo da un disco.
Come rileva la curatrice «lo statuto stesso dell’oggetto svanisce e mobili zoccoli e sculture collaborano a uno stesso vocabolario di forme elementari ». Lo vediamo ancora nelle due versioni della Maïastra, leggendario uccello che compare nella letteratura romena folclorica, oppure nel famosissimo soggetto dell’Uccello nello spazio che, nel 1926, in occasione dell’importazione a New York delle sculture di Brancusi per una mostra, organizzata da Duchamp presso la Brummer Gallery, sollevò un caso da manuale con il doganiere di turno che si rifiutò di farla passare come opera d’arte e la tassò come comune manufatto. La diatriba durò fino al 1928, quando il tribunale diede ragione a Brancusi (pur con qualche distinguo) e su questo il giurista Bernard Edelman scrisse vent’anni fa il saggio Addio alle arti dove sosteneva che la querelle sull’opera di Brancusi ha cambiato il nostro modo di rapportarci all’opera d’arte sul piano commerciale, ma anche su quello estetico. Una delle opere più belle, che riassume un po’ tutte le ragioni poetiche di Brancusi, è Le Coq, il gallo, di cui è esposta la versione del 1935 in bronzo lucidato, zoccolo in pietra calcarea e basamento in legno tripartito. Il soggetto apre l’esposizione con i tre grandi gessi alti fino a quattro metri e ci fanno capire, insieme alla Colonna senza fine (preferibile a infinita, a mio parere), il “genio elementare” che consente a Brancusi di usare l’immaginazione applicandola alla semplicità con cui la sua “visione spirituale” attinge la forma terrena dell’opera dall’iperuranio dell’arte.
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