Visualizzazione post con etichetta Guido Reni. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Guido Reni. Mostra tutti i post

La mostra “I tempi del Bello. Tra mondo classico, Guido Reni e Magritte“, ospitata dai Musei Civici Gian Giacomo Galletti nel Palazzo San Francesco a Domodossola

Guido Reni, Annunciazione, 1626 ca., Pinacoteca Civica, Ascoli Piceno
Verbano-Cusio-Ossola - In principio fu il Classico. Giacomo Leopardi individuava il “Tempo de Bello” nella Grecia del V secolo a.C., quando artisti come Fidia, Mirone e Policleto facevano coincidere il concetto di bellezza con un equilibrio di valori estetici ed etici, espresso attraverso il termine kalokagathìa.
Questi diversi tempi del bello si raccontano adesso in una mostra intitolata I tempi del Bello. Tra mondo classico, Guido Reni e Magritte attesa dal 18 luglio al 25 gennaio presso i Musei civici “Gian Giacomo Galletti” in Palazzo San Francesco a Domodossola.
Oltre quaranta opere, tra dipinti e sculture in marmo e bronzo, in prestito da prestigiosi musei italiani e collezioni private, raccontano la ricerca, sulla base dei modelli classici, del connubio di bellezza formale e valori spirituali che da sempre attraversa la storia dell’arte, adattandosi alle esigenze culturali di ogni epoca. Ideato e curato da Antonio D’Amico, Stefano Papetti e Federico Troletti, realizzato dal Comune di Domodossola in partnership con il Museo Bagatti Valsecchi di Milano e la Fondazione Angela Paola Ruminelli, con il patrocinio della Regione Piemonte e con il sostegno di Morgran Italia S.r.l., Findomo S.r.l., Ultravox S.r.l., Punta Est S.r.l., il percorso trova il suo fulcro nella statuaria classica d’età romana del Museo Nazionale Romano e delle Terme di Diocleziano, esposta per la prima volta nel capoluogo ossolano.

Ospite d’eccezione sarà il “divino” Guido Reni, paladino della classicità nell’arte europea del Seicento permeata della teatralità dell’arte barocca del naturalismo caravaggesco. A Domodossola il pittore bolognese sarà presente con l’Annunciazione della Pinacoteca Civica di Ascoli Piceno, e con il San Sebastiano da collezione privata. Nella monumentale pala d’altare l’eleganza formale della Vergine e dell’angelo, la torsione del busto nel giovane santo costituiscono un esempio di come nella Bologna del Seicento la conoscenza della statuaria classica e il mito di Raffaello trovino una perfetta declinazione in linea con la cultura del tempo. Guido Reni raccoglie questa eredità dai Carracci. L’immagine del San Sebastiano come un moderno Apollo, un danzatore che si muove leggiadro nel pieno vigore della sua bellezza fisica dipinto da Ludovico Carracci sul finire del Cinquecento, si potrà ammirare in mostra, in prestito dalla Pinacoteca della Fondazione Ettore Pomarici Santomasi di Gravina di Puglia.

Approdato a Roma da Mantova agli albori del Seicento, Rubens, sensibilissimo al fascino della classicità, adattò invece i modelli studiati nelle raccolte principesche romane alle esigenze imposte dai suoi committenti. Atteggiamenti e gesti che possono ricondursi ai modelli classici, reinterpretati in chiave barocca sono ad esempio evidenti nella grandiosa Madonna del Rosario, documentata in mostra da un raro bozzetto proveniente da una collezione privata.
Tra il 1730 e il 1740 lo scalpore suscitato dal ritrovamento dei resti di Ercolano e Pompei indusse i teorici dell’arte neoclassica a recuperare il concetto della kalokagathìa tornando nuovamente ad associare i principi di ordine, armonia, compostezza e “quieta grandezza”, cari a Winckelmann, ai più elevati valori morali.

Lo scalpello di Antonio Canova è quello che, più di ogni altro, riesce a rendere attraverso le proprie opere questo connubio di bellezza e nobili sentimenti, finalizzato a raggiungere il bello ideale. I visitatori di Palazzo San Francesco potranno riconoscere nel Ritratto di Paolina Bonaparte, prestato dal Museo Napoleonico di Roma, il viso perfetto della sorella di Napoleone come Venere Vincitrice, esempio di come i temi della mitologia classica si pongano, in questo caso, al servizio del potere, assumendo finalità educative e celebrative.

Il richiamo alla tradizione greco-romana è evidente anche in campo architettonico. Accade soprattutto nel periodo post-unitario, come dimostra lo scultore genovese Demetrio Paernio, artefice di diversi monumenti funerari nel cimitero di Staglieno. Paernio celebra l’arte alessandrina modellando una delle figure più leziose della classicità, come il Puttino dormiente. La presenza in mostra di diverse sculture rinascimentali di piccolo formato documenta il gusto del collezionismo e la passione per l’antico maturato soprattutto all’indomani delle scoperte archeologiche a inizio Cinquecento. Se nei primi due decenni del Novecento, la scure delle Avanguardie si abbatte sulla classicità, nel 1924 il critico francese Maurice Rejnal auspica un ripensamento rispetto alle posizioni anti classiche, sostenendo la necessità di un “Ritorno all’Ordine” che si rintraccia nei lavori di artisti coma Achille Funi, Massimo Campigli, Mario Sironi, De Chirico e Magritte, convinti a riaffermare il perenne valore della classicità seguendo l’indirizzo teorico di Margherita Sarfatti. I loro lavori, tra i quali spicca l’affascinante Rena à la fenệtre del 1937 di Renè Magritte, di collezione privata, si potranno incontrare in mostra, in dialogo con le opere rinascimentali e classiche.

Fino al 29 settembre l'esposizione si potrà visitare da giovedì a domenica dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18. Dal 30 settembre da giovedì a domenica dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 18. Lunedì, martedì e mercoledì chiuso.

Reneé Magritte, Rena à la fenêtre (Portrait of Rena Schitz), 1937, Collezione privata

arte.it

Da Caravaggio alle rovine, i tormenti di Guido Reni a Roma

 

La Roma delle grandi committenze legate al Giubileo del 1600, l'impatto stravolgente con l'archeologia, il confronto con Caravaggio e i rapporti non facili con gli altri grandi del suo tempo, l'urgenza di trovare un linguaggio nuovo e davvero suo, per la pittura religiosa, ma anche per le scene di paesaggio che tanto piacevano ai ricchi committenti.

Colto, raffinato, perfezionista, il grande Guido Reni, a dispetto di come la storia lo ha sempre raccontato, era anche un uomo irrequieto e tormentato, una personalità non meno complessa e in certi tratti non meno ombrosa di quella dichiaratamente maledetta del coetaneo Michelangiolo Merisi.

"Un pittore che abbiamo sempre considerato uno straordinario interprete della pittura religiosa, con profondi riferimenti classicisti, ma che è stato pure uno straordinario sperimentatore", spiega appassionata la direttrice della Galleria Borghese Francesca Cappelletti presentando la piccola grande mostra che a più di trent'anni dall'ultima grande esposizione italiana darà il via dal 1 marzo alla prima di una serie di iniziative internazionali dedicate al Maestro del Seicento italiano. Intitolata 'Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura', curata da Cappelletti (con la collaborazione di un team di studiosi tra cui Raffaella Morselli e Maria Cristina Terzaghi), l'esposizione ruota al "ritorno a casa" della Danza Campestre, una tela della collezione Borghese, dispersa nell' 800, che il prestigioso museo romano è riuscito a ricomprare. E proprio questo olio che racconta una festa da ballo all'aperto sotto un cielo dalle mille gradazioni di blu, si è rivelato un tassello fondamentale per ricostruire i primi anni romani dell'artista, i conflitti, le sperimentazioni, la messa a punto di un suo personale e particolarissimo linguaggio. "Non un percorso di formazione perché Reni arriva a Roma sull'onda di una carriera già brillante", spiega Cappelletti. "Era un pittore che già sapeva troppo e che in città resta un isolato di grande successo". Piuttosto, allora, il racconto di quello che il maestro ha preso dalla sua esperienza romana e del segno che ha lasciato. E anche un invito a riscoprirlo con un itinerario di luoghi romani che si affiancherà al catalogo. (ANSA).

Mostra i bolognesi che fecero Roma


Dire che sia una rimpatriata non sarebbe sbagliato, ma, in fondo, è un po’ riduttivo; dire che sia una parata di opere, più o meno grandi, frutto di una rinnovata stagione di studi, sarebbe invece eccessivo; e poi l’occasione è abbastanza casuale: i restauri nella “Sala Bologna” della Pinacoteca Capitolina, incentivati dal Giubileo della Misericordia. È invece un gioco di sponda naturale che ha riportato a casa i dipinti della scuola emiliana a cavallo fra XVI e XVII secolo, collocandoli nello scenario più giusto, Palazzo Fava, dove lungo la parte alta al piano nobile si dipana il celebre ciclo d’affresco dei Carracci sul mito di Giasone e Medea. Le opere testimoniano i rapporti fra Bologna e Roma in quell’epoca, e sono un nucleo approdato al museo capitolino nel XVIII secolo, con l’acquisizione voluta da papa Benedetto XIV, al secolo Prospero Lambertini già arcivescovo di Bologna. 

Se il dato storico ci spinge a considerare gli intrecci fra Roma e Bologna fin dal Cinquecento nella figura di Prospero Fontana, come ricorda Claudio Strinati nel catalogo; questa joint-venture museale consente anche di ripercorrere la storia della costituzione della Pinacoteca Capitolina a partire dalla megacquisizione pontificia della collezione Sacchetti, famiglia all’epoca coperta da debiti che rimontavano di alcune generazioni: centottantasette dipinti fu l’inventario della cessione del 1748 e il prezzo pagato venticinquemila scudi. Notizie ricordate da Sergio Guarino, curatore della mostra. A questo corpus se ne aggiunse nel 1749 un secondo, proveniente dalla famiglia dei Pio, che avevano trasferito il loro baricentro in Spagna, altri 126 quadri dai quali vennero esclusi i dipinti “osceni” e le copie, e il valore stimato dal pittore Giovanni Paolo Panini piacentino d’origine e romano d’adozione, sedicimila scudi, venne corrisposto.

A questo punto come ricorda Guarino, il nucleo portante della pinacoteca, oltre trecento quadri, era costituito, «rimaneva la necessità di occuparsi, come lo stesso Benedetto XIV aveva scritto nel chirografo Sacchetti, dell’“ammaestramento della Gioventù inclinata allo studio delle Arti Liberali”, obiettivo che venne raggiunto pochi anni dopo, istituendo la Scuola del Nudo dell’Accademia di San Luca, in stretto collegamento con la collezione dei quadri». Papa Lambertini inaugurò una linea moderna nella difesa dei beni artistici di Roma, con tanto di norme a tutela del patrimonio (Andrea Emiliani ricorda che all’epoca «l’esportazione incontrollata» era un problema serio per Roma, niente di nuovo sotto il sole dunque); il Lambertini, già pontefice, aveva pubblicato anche un editto che immobilizzava le proprietà ecclesiastiche bolognesi, adeguandosi ad analoghe norme in vigore a Venezia.

Fu sempre lui ad acquistare ciò che restava d’importante della raccolta d’Este ceduta dal duca di Modena, con una emorragia che aveva portato opere importantissime a Dresda. E altre iniziative in merito intraprese per arricchire il Museo Cristiano della Biblioteca Apostolica. Sono soltanto alcuni cenni sul ruolo svolto da Benedetto XIV a tutela dei patrimoni artistici romani e non solo, che anticipano e pongono le basi per un nuovo impianto giuridico a sostegno di questa salvaguardia. Canova fu forse il più convinto continuatore di questa politica come difensore del patrimonio dalle grinfie napoleoniche, e nella stessa epoca Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy nelle Lettere a Miranda, scrive, a proposito del patrimonio di Roma che «il vero museo si compone, è vero, di statue, di colossi, di templi, di obelischi, di colonne trionfali, di terme, di circhi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di tombe, di stucchi, di affreschi, di bassorilievi, di iscrizioni, di frammenti di ornamenti, di materiali da costruzione, di mobili, di utensili, eccetera eccetera, ma nondimeno è composto dai luoghi, dai siti, dalle montagne, dalle strade, dalle vie antiche, dalle rispettive posizioni delle città in rovina, dai rapporti geografici, dalle relazioni tra tutti gli oggetti, dai ricordi, dalle tradizioni locali, dagli usi ancora esistenti, dai paragoni e dai confronti che non si possono fare se non nel Paese stesso».
Sarebbe lungo discutere questa convinzione, ma è certo che sulla base delle parole di Quatremère de Quincy tutto diventa museificabile (e sappiamo bene come la conservazione a oltranza abbia anche generato mostri e falsi storici, non tanto quelli di Viollet-le-Duc che erano dichiarati e a modo loro immaginifici, ma quelli davvero immobilisti della cultura del recupero dei centri storici propugnata negli anni Ottanta del Novecento da Pier Luigi Cervellati che spesso ha prodotto la mummificazione dell’immagine della città, sostituendone solo il materiale corporeo, ovvero demolendo quartieri antichi perché fatiscenti e ricostruentoli identici, magari con un’anima in cemento armato).

Ma, ecco, se tutto questo è degno di riflessione, non sono però gli spunti storici quelli più suggestivi che offre questa mostra. Sono le emozioni singole, legate ad alcune opere piuttosto che ad altre: il “ritorno a casa” di Prospero, Annibale, Ludovico, Guido, Domenico ci fa ricordare quanto la “poetica degli affetti” identifichi i bolognesi di quel tempo. Si potrebbe dire che sia essa a tenere unito l’arco che dal manierismo aggetta verso il barocco. Se Caravaggio ravviva la realtà con un pensiero metafisico, i bolognesi la esprimono sempre con uno scarto psichico che li rende lunatici, ipocondriaci, sentimentali, mai zuccherini. Esistenzialisti ante litteram forse: basti guardare quel formidabile memento che è il San Francesco in adorazione del crocifisso di Annibale, coi fori delle stigmate come speculum che fa vedere di riflesso il sacrificio di Cristo.

Così anche la materia pittorica del bellissimo Ritratto di giovane di Ludovico, cugino di Annibale, con quel movimento degli occhi verso la sorgente luminosa che sembra portare un soffio vitale nelle fibre stesse del colore; e sempre di Ludovico lo sguardo tenero e malinconico che Caterina d’Alessandria rivolge al Gesù bambino tenuto in braccio dalla Madonna, la quale, a sua volta, medita sul destino di entrambi, il sacrificio che salva e la testimonianza nel martirio. Le figure di Guido, tranne il San Girolamo già attribuito a un’altra mano di pittore emiliano (chissà che non ci sia quella di un romagnolo, oppure del pesarese Cantarini, che di Reni fu allievo), vivono in una luce-materia perlacea e lunare, una sostanza che quasi sfugge al controllo della forma e si scioglie in un colore freddo non d’incredulità, ma carico del nichilismo che spinge il giocatore d’azzardo a sfidare il destino.
Bologna Palazzo Fava. "Guido Reni e i carracci" fino al 13 marzo.
da avvenire