Visualizzazione post con etichetta #arte. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta #arte. Mostra tutti i post

La mostra a Parigi. Brancusi, la forma cerca la verità assoluta


Eseguiti gli studi primari in Romania, frequentando a Craiova la Scuola di arti e mestieri e diplomandosi poi all’Accademia di Belle Arti di Bucarest, dove vinse vari premi, fra cui per una statua a misura umana dello Scuoiato, vale a dire una accademica “Anatomia”, dove però si notano alcuni dettagli che ritroveremo come tema formale nella sua scultura maggiore, come la testa ripiegata; dopo i passi della formazione accademica Constantin Brancusi parte per una lunga promenade europea dove, a piedi, raggiunge nel 1904 Parigi e con grande rapidità entra nel clima artistico della capitale.

Ha 28 anni e le idee chiare, elaborate sulla scultura classica, ma anche sull’arte popolare che affonda le radici nel mestiere artigiano e nel sapere degli ebanisti romeni. Le due tradizioni, quella classica e quella popolare, restano in lui come un imprinting, e questo gli consentirà poi di realizzare una scultura che oscilla sempre tra un primitivismo che armonizza l’elemento spontaneo del mondo “artigianale” – per lui non esiste una separazione netta con l’arte “maggiore” in quanto la conoscenza del mestiere è anche capacità di ascolto delle materie che si impiegano, e le forme quasi sempre sono il derivato di una tradizione che affonda le radici in quel sapere manuale che avrà per Brancusi sempre suprema importanza – con una trasformazione dell’elemento antico e classico dentro una ricerca della semplicità che non ha niente a che vedere con la facilità. Anzi: come dice in alcuni sui aforismi, raccolti in un libro edito in Francia per la cura di Doïna Lemny, che prende il titolo proprio da una delle sue massime più note: L’art, c’est la vérité absolute: «la semplicità è la complessità risolta», ovvero «la semplicità è la complessità stessa, che deve nutrirsi della sua essenza per conoscere il proprio valore».

Il “principio semplicità” di Brancusi è una forma che quando raggiunge l’essenza penetra con l’intuizione fino al nocciolo duro della forma significante, tocca con gli occhi e con la mano la verità assoluta, ciò che potrebbe anche essere la madre del capolavoro. Le opere di Brancusi sono tutte di elevato valore, cioè di una concezione che, come il “togliere” di Michelangelo, raggiunge quasi sempre il limite che lascia emergere la forma cercata dall’artista dentro quella verità assoluta. E se non tutte possono considerarsi dei “capolavori” – vocabolo oggi impiegato con una tale facilità e frequenza da chi parla di opere d’arte che non significa più nulla, ed è questo il motivo per cui anche le mostre ormai si pensano col metro della quantità di opere esposte e non secondo progetti dove il distillato dell’artista rende chiaro sia i fondamenti della sua grandezza sia la capacità critica di interpretarli (bulimia cui corrispondono cataloghi monumentali, infarciti di saggi spesso inutili e pretenziosi ) –; si deve comunque dire che la ricerca dello scultore romeno, che chiese la nazionalità francese soltanto nel 1950, sette anni prima di morire, ha trasformato la scultura anche rispetto agli sviluppi prodotti dagli altri grandi autori del secolo. Per questo Brancusi si contende il primato di maggiore scultore del Novecento con Arturo Martini, un altro che ha trasformato l’idea stessa di classicità reinventandola come modernità senza smettere di pensare l’arte plastica con un senso poetico che, al termine della sua esistenza, spinse Martini a scrivere il celebre e sofferto bilancio che intitolò La scultura lingua morta.

La mostra che si sta svolgendo fino al 1° luglio al Beaubourg di Parigi (che sarà forse l’ultima prima della chiusura per ristrutturazione della “macchina” progettata da Piano e Rogers), rispecchia nel bene e nel male tutto questo. È a suo modo eccessiva, rutilante in fatto di materiali (sculture, fotografie, disegni, oggetti, documenti…), fa vedere abbastanza bene il percorso dell’artista, ma lascia forse un po’ nell’ombra gli inizi esponendo le prime opere senza indagare gli anni romeni e i rapporti visivi e mentali col mondo popolare di quella cultura. Ma a monte ci sono forse ragioni che rendono questa mostra meno necessaria di quanto si potrebbe pensare, quasi si fosse cercato di risparmiare costruendo la mostra con materiali già “in casa”. Mentre stava per avvicinarsi il tempo della fine, a ottant’anni Brancusi fece testamento lasciando il suo atelier e tutto quanto conteneva allo Stato francese. Morto l’artista nel 1957, Parigi collocò quell’eredità nel Museo d’arte moderna del Palais de Tokyo, poi, dopo l’inaugurazione del Centre Pompidou (1977), un po’ di anni dopo venne costruito ai margini della piazza del Beaubourg, ancora su progetto di Piano, un edificio dove ancora oggi si può visitare l’atelier che conserva 137 sculture, 87 piedistalli, 41 disegni, 2 dipinti e più di 1.600 tra lastre fotografiche in vetro e fotografie originali dell'artista, come recita l’invito al Museo. Ma questa situazione – scrive la curatrice della mostra, Ariane Coulondre –, è provvisoria, perché la ristrutturazione del Beaubourg, che durerà fino a 2025 inoltrato, prevede una ricollocazione dell’atelier all’interno della nuova organizzazione dell’edificio. Ed è proprio questo progetto che rende la mostra in corso in qualche modo “superflua”, anche se varie opere provengono da fuori. Potrebbe darsi, però, che l’esposizione miri a dare allo spettatore un assaggio di come verrà ripensato l’allestimento dell’atelier. Vedremo.

La ricerca della semplicità potrebbe anche corrispondere all’essenzialità, se non fosse che l’astrazione di Brancusi non è affatto una riduzione al concetto, anzi, vuole dare – e qui si potrebbero trovare paralleli con gli studi sugli archetipi e i simboli di Mircea Eliade, che non sono riduzioni spiritualistiche delle testimonianze antiche, ma un modo di illuminarle come permanenze nella mente dell’uomo di oggi – alla forma una solidità compiuta, un valore assoluto appunto, e in questo processo una delle clausole fondamentali, che rendono Brancusi superiore a ogni altro scultore del suo tempo, è la partecipazione del basamento alla risoluzione dell’opera. La base su cui appoggiano marmi o bronzi, oppure dove si elevano altre forme lignee, sono parte integrante dell’opera che, se ne venisse privata, rischierebbe di diventare il “moncherino” di una idea plastica (dove spesso la scultura e il basamento in effetti lavorano in dialettica: si vedano le due versioni di Danaïde del 1913 in bronzo patinato nero – una trattata a foglia d’oro –; o le due versioni di Torso di giovane uomo del 1917 e del 1923, la prima in ottone e l’altra in legno, una con basamento in pietra cubico, l’altra a parallelepipedo rettangolo, la cui differenza slancia oppure àncora al piano d’appoggio le due sculture. Così si veda l’articolazione del basamento e la mutevolezza delle forme della scultura lignea, separati da un piccolo piedistallo cilindrico in pietra, della Strega (191624) come, alla stesso modo, accade in Lo studio per un ritratto del 19161933 e proprio questa doppia data ci fa capire che l’opera si è sviluppata nella forma trovando il suo basamento lungo gli anni). L’idea della complementarità del basamento nella concezione plastica dell’opera prende piede nella poetica di Brancusi soprattutto dagli anni 20 in poi: la ritroviamo nella serie delle teste ovali, con inserimenti di dischi d’acciaio lucidato, come nella serie di Leda, in marmo o bronzo patinato a specchio dove il basamento è in cemento o in marmo nero separato dal bronzo da un disco.

Come rileva la curatrice «lo statuto stesso dell’oggetto svanisce e mobili zoccoli e sculture collaborano a uno stesso vocabolario di forme elementari ». Lo vediamo ancora nelle due versioni della Maïastra, leggendario uccello che compare nella letteratura romena folclorica, oppure nel famosissimo soggetto dell’Uccello nello spazio che, nel 1926, in occasione dell’importazione a New York delle sculture di Brancusi per una mostra, organizzata da Duchamp presso la Brummer Gallery, sollevò un caso da manuale con il doganiere di turno che si rifiutò di farla passare come opera d’arte e la tassò come comune manufatto. La diatriba durò fino al 1928, quando il tribunale diede ragione a Brancusi (pur con qualche distinguo) e su questo il giurista Bernard Edelman scrisse vent’anni fa il saggio Addio alle arti dove sosteneva che la querelle sull’opera di Brancusi ha cambiato il nostro modo di rapportarci all’opera d’arte sul piano commerciale, ma anche su quello estetico. Una delle opere più belle, che riassume un po’ tutte le ragioni poetiche di Brancusi, è Le Coq, il gallo, di cui è esposta la versione del 1935 in bronzo lucidato, zoccolo in pietra calcarea e basamento in legno tripartito. Il soggetto apre l’esposizione con i tre grandi gessi alti fino a quattro metri e ci fanno capire, insieme alla Colonna senza fine (preferibile a infinita, a mio parere), il “genio elementare” che consente a Brancusi di usare l’immaginazione applicandola alla semplicità con cui la sua “visione spirituale” attinge la forma terrena dell’opera dall’iperuranio dell’arte.

avvenire.it

Dibattito. Giotto e Bernini esposti in aeroporto: con quale meta?

 

Le vetrate di Giotto, installate in un box protettivo, nel Terminal 1 dell'aeroporto di Fiumicino, Roma - Ansa

Dopo il Salvator Mundi barocco a Fiumicino approdano tre vetrate da Santa Croce, Firenze. Al di là del banale pro e contro, con quale metodo si può "misurare" la qualità dell'operazione?

Nel corso dell’ultimo anno, milioni di persone – attraversando il Terminal 1 dell’aeroporto di Fiumicino – si sono imbattute nel busto del Salvator Mundi attribuito a Gian Lorenzo Bernini, magari prendendosi un attimo per poterlo ammirare, girando lo sguardo mentre cercavano il gate del volo che le avrebbe condotte su una spiaggia tropicale o verso un incontro dall’altra parte del mondo. L’iniziativa, frutto di un accordo tra Aeroporti di Roma e il Ministero dell’Interno, a cui afferisce il Fondo edifici di culto, ha suscitato reazioni contrastanti: da un lato, entusiasti sostenitori l’hanno recepita come geniale trovata per avvicinare il grande pubblico al linguaggio dell’arte; dall’altro, disillusi osservatori ne hanno rilevato un effetto mortificante per il patrimonio, tale da assimilare un grande capolavoro alla stregua di un’offerta da duty free. È degli ultimi giorni la decisione di replicare l’esperienza glance media (letteralmente: attrarre attenzione in un instante) già sperimentata; nei prossimi mesi, i viaggiatori in transito a Fiumicino incontreranno - tra un club sandwich e una palina energetica per gli smartphone – tre vetrate giottesche provenienti dalla Basilica di Santa Croce a Firenze. L’idea del capolavoro artistico immerso nel flusso inarrestabile dei viaggiatori resiste e si rinnova: diventa un “fenomeno”, dunque, che merita attenzione e qualche ragionamento.

Nel mondo dei beni culturali, la parola chiave degli ultimi anni è stata “valorizzazione”: dare valore, attribuire rilevanza a capolavori più o meno conosciuti, ai grandi monumenti e ai piccoli tesori nascosti. Ma come misurare questo riconoscimento? A cosa equivale questo “valore”? Per molti, si tratta di una presa di consapevolezza, di un “prendersi cura” della storia, del lascito di bellezza e memoria che le passate generazioni ci hanno tramesso; per altri, il termine andrebbe inteso, piuttosto, in termini di potenziale sviluppo, di capacità di attrarre turismo e generare ricchezza. Sia chiaro: non c’è nulla di male nel pensare che il patrimonio artistico possa favorire un’economia fiorente (purché sostenibile); siamo tutti felici e orgogliosi di accogliere turisti nei nostri musei, nelle città d’arte e nei borghi che punteggiano il Bel Paese. Semplicemente, riteniamo sbagliato confondere le due cose: l’arte si valorizza innanzitutto qualificandone la fruizione, un termine che andrebbe recuperato e ragionato. Nelle altre lingue, lo si può tradurre soltanto come “esperienza”; in Italiano, l’espressione indica un processo di arricchimento spirituale e culturale che deriva dall’incontro con l’opera d’arte, il godimento che se ne trae e non la mera “utilità”, producendo in noi una trasformazione interiore e la conquista, potremmo dire, di nuove idee e di una diversa capacità di vedere.

Gli studi svolti sul comportamento dei pubblici dei musei (si usa il termine al plurale, proprio per distinguere le aspettative di ognuno e per rendere più efficace lo sforzo di raggiungere l’interesse di tutti) hanno fatto comprendere che il successo di un evento espositivo non si misura nel numero dei visitatori, ma nel risultato di apprendimento e di benessere che si è potuto raggiungere. L’opera d’arte deve poterci parlare, raccontando una storia che sia rilevante per il nostro presente, accendere curiosità ed emozioni: per fare questo si elaborano percorsi di visita e strumenti di mediazione, si orchestrano scenografie allestitive capaci di esaltare le proprietà espressive del manufatto esposto, valorizzandolo. E non è superfluo ricordare che nella motivazione ad apprendere – lo spiegano illustri pedagogisti – ciò che appare gratuito e immediato risulta ai più come scontato: sempre a disposizione, non esercita il fascino di ciò che comporta un impegno, persino un sacrificio per poter essere ottenuto.

La presenza dei capolavori in aeroporto non va respinta in modo ideologico: è apprezzabile il desiderio di illuminare con l’arte il tempo prolungato delle attese e di fecondare lo stato d’animo sospeso di chi si appresta a compiere lunghe traversate. Non va dimenticato, tuttavia, che l’incontro con l’opera d’arte richiede un contesto appropriato, un isolamento che permetta a chi osserva di riconoscere l’oggetto e di ritrovare se stesso, in un gesto di raccoglimento e di meditazione. E questo a tutela dell’opera (affiora spontanea la parola “rispetto”) che si vorrà preservare dai riflessi delle luci, delle valigie fluorescenti e dei tapis roulant, ma anche del viaggiatore-visitatore, che da quell’incontro potrà realmente “trarre frutto”, riuscendo a discernere la differenza tra un costoso accessorio esposto in vetrina come inarrivabile status symbol e un bene che nel suo inestimabile valore culturale appartiene a tutti i cittadini del mondo.

Avvenire

Viaggi Arte Ferragosto al museo, gli statali aperti in tutta Italia

Il ministero della Cultura comunica che "durante il ponte di Ferragosto, i musei, i parchi archeologici e i luoghi della cultura statali tra cui castelli, abbazie, complessi monumentali, ville e giardini resteranno aperti il 14 e il 15 agosto 2023.

Per l'occasione, alcuni istituti posticiperanno ad altro giorno della settimana la chiusura prevista il lunedì o il martedì.

Le visite si svolgeranno nei consueti orari di apertura e secondo le modalità di fruizione stabilite dalle singole strutture, inclusa la prenotazione dove prevista. Si sottolinea che quelle del 14 e 15 agosto non sono aperture gratuite".
    L'elenco, in continuo aggiornamento, è disponibile su https://cultura.gov.it/evento/ferragostoalmuseo2023. Si consiglia comunque di consultare anche i siti ufficiali di ciascun museo.
    "È un'occasione straordinaria per offrire a cittadini e turisti l'opportunità di scoprire il patrimonio culturale nazionale anche nei luoghi di vacanza e nelle città d'arte", ha dichiarato il ministro Gennaro Sangiuliano.
   

Riproduzione riservata © Copyright ANSA

Ci sarà anche Marco Tronchetti Provera tra gli ospiti della settima edizione di #Phest, il festival internazionale di #arte e #fotografia

A Perugia Raffaello tra reale e virtuale

 

PALAZZO BALDESCHI (PERUGIA) - Un Raffaello, tra reale e virtuale, animerà le sale di Palazzo Baldeschi a Perugia fino al 6 gennaio 2021. Le opere del sommo artista italiano sono da oggi esposte nella mostra 'Raffaello in Umbria e la sua eredità in Accademia', in una versione multimediale per la sezione curata dalla Fondazione CariPerugia Arte e in una espositiva più classica grazie all'Accademia di Belle Arti 'Pietro Vannucci' di Perugia.
    Gli organizzatori vogliono così, come è stato ricordato nel corso dell'inaugurazione, rendere omaggio a Raffaello Sanzio a 500 anni dalla sua scomparsa. Fra le manifestazioni riconosciute dal Comitato nazionale creato per le celebrazioni, la mostra è anche parte del percorso 'Perugia celebra Raffaello' e si inserisce nel più ricco programma 'Raffaello in Umbria', coordinato dal Comitato organizzatore regionale.
    Come ha spiegato Cristina Colaiacovo, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, la mostra è divisa in due sezioni: la prima, quella multimediale, a cura di Francesco Federico Mancini, con la regia di CariPerugia Arte e il contributo della Soprintendenza Archivistica dell'Umbria e delle Marche e dell'Archivio di Stato di Perugia; la seconda dal sottotitolo 'L'Accademia di Perugia e Raffaello: da Minardi e Wicar al Novecento' realizzata dall'Accademia di Belle Arti e curata da Alessandra Migliorati, Stefania Petrillo e Saverio Ricci, con il coordinamento di Giovanni Manuali, conservatore dei Beni dell'accademia.
    La versione digitale di Raffaello si mostra subito coinvolgente, con i visitatori che possono persino vederlo mentre disserta con suo padre e con il suo maestro Pietro Vannucci, detto il Perugino, grazie ad alcuni attori in costume rinascimentale. La cosa particolare è poi che con questa esperienza immersiva tra suggestioni visive e sonore si potranno così ammirare, accompagnati da informazioni lette da una voce narrante, tutte le opere legate all'Umbria, se ne contano 12, oggi conservate nei più importanti musei del mondo.
    Raffaello nel capoluogo umbro ha trascorso più o meno sei anni della sua vita, dal 1500 al 1505 circa. Perugia e Città di Castello, rappresentano i luoghi dell'Umbria dove ha mosso i primi passi e svolto una parte significativa della sua formazione artistica. Le uniche due opere ancora conservate in Umbria sono comunque il Gonfalone della Trinità, nella Pinacoteca comunale di Città di Castello e l'affresco di San Severo presso l'omonima cappella annessa alla chiesa camaldolese, oggi di proprietà del Comune di Perugia.
    Fiore all'occhiello della mostra sono poi tre prestigiose opere del Rinascimento umbro appartenenti alla collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e realizzate da tre maestri a cui Raffaello si ispira e con i quali si relaziona quando arriva in Umbria: la 'Madonna col Bambino e due cherubini' di Perugino, la 'Madonna con il Bambino e San Giovannino' di Pintoricchio e il 'Santo Stefano lapidato' di Luca Signorelli.
    Mario Rampini, presidente dell'Accademia di Belle Arti, ha presentato infine la sezione che mette in mostra l'eredità di Raffaello alla 'Pietro Vannucci'. Con quattro parti tematiche e cronologiche si vuole mostrare e dimostrare come, per tutto l'Ottocento, Perugia e l'Accademia, furono un vivaio di talentuosi pittori che rielaborano la lezione degli antichi maestri, Perugino e Raffaello prima di tutti, attualizzandone modelli e stile.
    La mostra è corredata da uno speciale catalogo definito "covid free", realizzato da Fabrizio Fabbri Editore con un innovativo sistema di stampa certificato "capace di abbattere la carica batterica e alcuni tra i principali agenti microbici e fungini, sviluppato con lo stampatore Graphic Masters in collaborazione con tre laboratori di analisi specializzati".
    (ANSA).

Casa Cuseni, nella stanza segreta con murales proibiti Alla scoperta di una misteriosa opera d'arte a Taormina

Affreschi della stanza segreta di Casa Cuseni-Taormina © ANSA

ansa
Misteriosa, per il segreto di un amore omosessuale che ha custodito per oltre un secolo, e magica per la quantità di storie e personaggi che ha ospitato - da Greta Garbo a Coco Chanel, Pablo Picasso, Bertrand Russell e Roald Dahl - Casa Cuseni a Taormina non è semplicemente un luogo da visitare, è un'opera d'arte che non si finisce mai di scoprire.
Fatta costruire nel 1905 dal pittore inglese Robert Hawthorn Kitson, figlio di un ricchissimo costruttore di locomotive di Leeds, la villa, progettata con gli amici Sir Alfred East, presidente della Royal Society e Sir Frank Brangwyn, allievo di William Morris, prende il nome dalla località collinare dove sorge ed è una tappa imperdibile del 'Taormina Cult', il suggestivo tour in 21 tappe su un Ape calessino, da Villa Mon Repos al Teatro Antico, ideato da Antonella Ferrara, presidente di Taobuk con Alfio Bonaccorso.
 La sorpresa più grande per chi arriva è la dining-room: camera segreta rimasta chiusa per 100 anni, aperta nel 2012, che mantiene ancora un'aria proibita e di cui si è da poco cominciato a parlare. Alle pareti è affrescata la storia di un amore omosessuale e la prima adozione maschile nella storia dell'arte. I murales, realizzati da Brangwyn, famoso per essere stato il primo decoratore di Louis Confort Tiffany e per aver decorato la Galleria Reale della Casa dei Lords, a Westminster, e il Foyer del Rockfeller Center Museum di New York, sono miracolosamente integri, nonostante due guerre mondiali. Durante il secondo conflitto, la casa venne occupata dai tedeschi ma gli abitanti del paese si mobilitarono per nascondere le opere (600 i quadri della collezione) e così le salvarono.
In stile Art Nouveau, gli affreschi della stanza segreta ritraggono l'amore fra Robert Kitson e il suo compagno di una vita, il pittore Carlo Siligato, che nel 1908, quando Messina venne distrutta dal terremoto, adottarono il piccolo Francesco, diventando così una famiglia omosessuale, la prima nelle arti figurative, all'epoca assolutamente proibita. Tanto che Pablo Picasso, in visita a Casa Cuseni nel 1917, vide la camera e mantenne assolutamente il segreto, proteggendo i suoi amici pittori che sarebbero potuti finire in prigione. Unico interior esistente al mondo interamente realizzato da Brangwyn, la stanza dei segreti ospita anche una bicicletta-triciclo di legno, realizzata dai futuristi di Messina per il piccolo Francesco, e su un antico tavolo al centro della stanza spicca un portatovagliolo con ricamate le due C intrecciate di Casa Cuseni che hanno ispirato Coco Chanel per il logo della sua maison.
Ma sono tante le cose straordinarie accadute qui: quando nel 1950 Bertrand Russell ha saputo di aver vinto il Nobel era a Casa Cuseni; nel salone è in bella vista il divano di Greta Garbo che soggiornò nella Villa per circa un anno e la stanza dove l'attrice ha dormito porta ora il suo nome. Roald Dahl, l'autore de 'La fabbrica di cioccolato' ha ideato qui il suo famoso libro e iniziato a scrivere la sceneggiatura di 'Agente 007 - Si vive solo due volte'. A Casa Cuseni sono stati più volte David Herbert Lawrence, la moglie Frida e Tennessee Williams.
 A raccontarci e custodire tutte queste storie sono oggi Domenica (Mimma) Cundari, cresciuta in questa casa, i suoi genitori lavoravano per Daphne Phelps, nipote di Kitson, e il marito di Mimma, il medico Francesco Spadaro, attuali proprietari che dirigono la Fondazione.

Dichiarata monumento Nazionale Italiano nel 1998, museo ufficiale della Città di Taormina dal 2015 e Grande Giardino Italiano nel 2016, Casa Cuseni è un prezioso crocevia di storie che vanno oltre la sua dining-room. "L'inglese pazzo", come chiamavano Kitson a Taormina dove era arrivato, negli anni del puritanesimo vittoriano, con Oscar Wilde e altri amici, per andare a trovare il fotografo Von Gloeden, famoso per i suoi ritratti di ragazzi nudi, aveva acquistato il terreno dove sorge Casa Cuseni nel 1897 e fino alla morte, nel 1947, non aveva più lasciato, tranne negli anni della guerra, la sua dimora e il suo meraviglioso giardino che ospita un'opera inedita e originale di Giacomo Balla.
Anche Daphne Phelps, la brillante aristocratica nipote di Kitson, allieva di Anna Freud e amica di Albert Einstein, arrivata a Villa Cuseni alla morte del pittore, si è innamorata del luogo ed è rimasta a Taormina fino alla sua morte nel 2005. Per mantenere la villa nel 1948 la ha trasformata nel primo hotel per artisti e studiosi in Europa. Autrice del libro, 'Una casa in Sicilia' (Neri Pozza), dopo la sua scomparsa la Casa è stata acquistata nel 2011 da Domenica (Mimma) Cundari che adora questa dimora dove Dahl le leggeva le sue storie quando aveva 4 anni. 

#App che porta #arte ai #nonvedenti #Tooteko

Se l'arte - come diceva Picasso - scuote dall'anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni, è assolutamente necessario e giusto che sia fruibile a tutti senza nessuna distinzione. Ecco perché un progetto come quello della start up veneta Tooteko - che rende accessibile le opere e i luoghi dell'arte tradizionali ai non vedenti grazie a un anello in grado di riconoscere speciali sensori e far partire informazioni audio descrittive - è bello e speciale.
   
Ma questo prodotto, pensato da e per i non vedenti e basato su tecnologie low cost, si propone anche come ausilio alla conoscenza di tutti perché permette di esercitare tatto e udito, normalmente "narcotizzati" a favore della vista. In questo senso Tooteko consente la percezione "aumentata" della realtàdove l'incremento di informazione non è visivo ma audiotattile.

    Dopo aver vinto numerosi premi italiani e internazionali Tooteko è sbarcata all'Ara Pacis a Roma, protagonista del progetto sperimentale Art For the Blind. Ma l'obiettivo a medio-lungo termine del progetto è quello costituire una rete di musei che ospitino le repliche audio tattili delle proprie opere più significative in modo che i non vedenti possano accedere all'arte nel suo contesto originario e non in un "museo delle repliche"-ghetto riservato solo a loro.

    Tre gli elementi base di Tooteko: un anello hi-tech che legge i tag NFC su un supporto tattile e, grazie all'applicazione, comunica wireless con lo smartphone o tablet.

ansa

A Firenze dove l’Antiquariato è contemporaneo

Biennale Internazionale dell’Antiquariato (BIAF), mostre e itinerari nei musei nel 30mo anniversario della manifestazione tra le più importanti al mondo nel settore.
Un settembre “ad arte” o meglio a capolavori è quello che si appresta a vivere Firenze. Una congiuntura particolarmente positiva che porta a Firenze il meglio dell’arte di ogni periodo.
Innanzitutto, si festeggia un anniversario importante: quello delle 30 edizioni della Biennale Internazionale dellAntiquariato di Firenze, che porterà a Palazzo Corsini dal 23 settembre all’1 ottobre circa 80 gallerie internazionali specializzate in antiquariato e arte.
ansa