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A Perugia. Il Maestro di San Francesco, l'artista che inventò l'immagine del Poverello

 Maestro di San Francesco, “San Francesco fra due angeli” (particolare). Museo della Porziuncola – foto Michele Alberto Sereni

Tra la morte di Francesco e gli affreschi di Giotto intercorre poco più di una settantina di anni. Oggi è impossibile non pensare al santo di Assisi senza associarlo al pittore toscano. Ma non è lui a raccontarlo per primo. I decenni alla metà del Duecento sono il vero momento cruciale per la definizione dell’immagine – nel senso più ampio del termine – di Francesco. Della sua tradizione e, per alcuni aspetti, forse anche del suo tradimento. È un processo in cui religione, politica, spiritualità concorrono in una maniera inestricabile e ai nostri occhi difficile da comprendere, ma la cui portata investe tutta l’Europa, cambiandone per sempre il rapporto con il sacro.

C’è dentro tutto questo nella mostra che dal 10 marzo al 9 giugno la Galleria Nazionale dell’Umbria dedicherà a “L’enigma del Maestro di San Francesco. Lo stil novo del Duecento umbro”. Effettivamente il Maestro di San Francesco è per molti versi un mistero: un laico o un frate? Un umbro o un forestiero? I pareri tra gli storici dell’arte sono diversi e discordanti. Forse la cosa può turbare chi ha bisogno che ogni rebus sia risolto. Ma questa figura non ci ricorda solo che il concetto di autorialità nei secoli è molto cambiato, ma soprattutto che la ricerca è una questione sempre aperta.

Al di là del mistero sulla sua identità, anche culturale, in ogni caso ci sono pochi dubbi che il Maestro di San Francesco sia «il più grande pittore italiano attivo a metà Duecento, e nel secolo secondo solo a Cimabue», come afferma Veruska Picchiarelli, curatrice della mostra insieme ad Andrea De Marchi e Emmanuele Zappasodi. La mostra presenterà l’intero corpus a oggi noto dell’artista, inquadrandolo tra gli altri due pilastri della pittura del Duecento, Giunta Pisano (il primo a virare dall’iconografia del Christus triumphans a quella del Christus patiens) e Cimabue, ed estende il racconto alla sua eredità nella pittura umbra, dal Maestro di Santa Chiara al Maestro del Trittico Marzolini. Una mostra, insomma, che fa luce su un secolo potentissimo e negletto, in cui la pittura gareggia con le altre arti e dove le crociate e la presenza di francescani in Terrasanta contribuiscono un ritorno di fiamma del bizantinismo in Italia. Un secolo destinato a essere cancellato nella narrazione, e forse nella nostra capacità di guardare, dalla misura umanistica e razionale del Trecento di Giotto.

L’esposizione presenta prestiti da tutto il mondo, una vera impresa per la rarità e la fragilità di queste opere. Il fulcro su cui fa leva tutto il racconto è il San Francesco fra due angeli dal Museo della Porziuncola, del 1255, dipinto sull’asse che servì a Francesco da letto in vita e soprattutto in morte. È un’opera storicamente fondamentale: per la prima volta viene dipinta la ferita sul costato, e proprio sul legno che l’aveva rivelata. «Questa è allo stesso tempo un’icona e una reliquia – commenta Picchiarelli –. Un’iscrizione, come un’autentica, riporta il testo della Bolla con cui Alessandro IV certificava la ferita per il fatto di averla vista egli stesso al momento del transito, mettendo così ufficialmente fine a una lunga controversia».

La mostra rientra nelle celebrazioni per l’ottavo centenario dall’impressione delle stimmate, avvenuta alla Verna nel settembre 1224. Un mistero su cui Francesco aveva sempre avuto riserbo e che viene “scoperto” solo al momento della morte. Gli storici hanno lavorato in modo approfondito attorno alle tensioni che attraversano l’ordine francescano e la Chiesa rispetto all’immagine, intesa nel senso più largo, di Francesco. Le tappe fondamentali sono la canonizzazione, le diverse stesure della vita di Tommaso da Celano, poi cancellate – letteralmente – dall’affermarsi ufficiale della vulgata delle due Legendae di Bonaventura (1263 e 1266) che certificano Francesco come alter Christus .

«È il Maestro di San Francesco l’artista che inventa l’iconografia del santo come alter Christus» spiega Andrea De Marchi: «Le raffigurazioni più antiche di Francesco lo rappresentano come un taumaturgo. Poi lentamente si costruisce una nuova immagine del santo grazie a Bonaventura, che è il vero ideologo dell’Ordine francescano già tempo prima della sua elezione a Generale nel 1257. A questo punto Francesco non è più un santo come tutti gli altri». La focalizzazione sulle stimmate a livello iconografico accompagna in tempo reale l’elaborazione di Bonaventura, anticipando cronologicamente la pubblicazione di quella testuale. La quale poteva dunque appoggiarsi su una sorta di “credo” visivo, attestato in particolare da un ciclo di dipinti murali nella basilica inferiore, che metteva in parallelo le storie della Passione di Cristo con scene della vita di Francesco, culminanti negli episodi delle stimmate e del transito: con la ferita sul costato bene in mostra.

«Bisogna capire quali tempi fossero – spiega De Marchi –. Completate in tempi record, le basiliche volute da papa Gregorio IX, per tutti gli anni ’30 e ’40 rimangono nude, spoglie come una chiesa cistercense. Ma nel 1250 muore Federico II, ponendo fine ad anni difficili per la Chiesa. Innocenzo IV, a lungo in esilio a Lione, ritornando verso Roma resta due anni a Perugia e sei mesi ad Assisi. Si radica qui, intuisce che questo movimento poteva rigenerare la Chiesa: un’idea che viene raccolta e amplificata da Alessandro IV, nipote di Gregorio IX. La basilica è articolata in due spazi, con differenti funzioni: quella superiore è il santuario papale, quella inferiore una sorta di grande “arca” del corpo di Francesco, all’epoca invisibile sotto l’altare. Ma negli anni ’50 parte l’offensiva più forte per distruggere gli ordini mendicanti da parte del clero regolare e dei professori di Parigi.

Bonaventura capisce che i francescani hanno bisogno di un sistema concettuale più robusto e avvia una nuova costruzione escatologica, mistica: perché in Francesco c’è la salvezza del mondo e della Chiesa. Il papa, in una fase di ricostruzione e contrasto a derive ereticali, comprende la portata della scommessa bonaventuriana e investe. E vince». La decorazione della basilica è il manifesto di questa operazione la cui portata è europea: «Nella superiore ecco le grandi vetrate, le prime in Italia, con maestri francesi e tedeschi. E, al loro fianco, il Maestro di San Francesco. Sotto il Maestro e la sua bottega ricoprono ogni centimetro disponibile con storie e motivi decorativi dai colori intensi e vivi come nelle miniature ottoniane. Una esplosione di luce, che gareggia con l’oreficeria, proprio perché la basilica inferiore è un immenso reliquiario».

Ecco perché è necessario completare la visita alla mostra, dove tra l’altro verrà allestita una sala immersiva con le ricostruzioni digitali, con un viaggio ad Assisi (l’esposizione è realizzata in stretta collaborazione con il Sacro Convento). Nonostante le distruzioni che li avrebbero investiti solo mezzo secolo dopo con l’apertura delle cappelle laterali poi affrescate da Giotto, Lorenzetti, Simone Martini, i dipinti del Maestro di San Francesco sono ancora lì, ignorati dai più. Si buca, si rompe. Ma le storie non vengono obliterate da nuovi affreschi. Restano lì anche nella loro natura frammentaria e deteriorata, senza però che la forza ne sia davvero intaccata.

E forse non solo perché nella prima metà del Trecento il cantiere rallenta per problemi economici e per la cattività avignonese: «Resistono forse e soprattutto proprio in qualità di reliquia francescana – commenta Emanuele Zappasodi – Un concentrato di forze magnetiche, di pathos monumentale che traduce visivamente una nuova e moderna santità. Uno stile in sintonia con le laudi di Jacopone. È un’arte per commuovere. Il sentimento accompagna e arricchisce la dimensione teologica: è la grande novità. Immagini che si stampano nella memoria e invitano, con Francesco, alla imitatio Christi. È la modernità di un ordine che, sulla scia di Francesco, si rivolge alla società nuova del Duecento, che parla al popolo nessuno escluso, come racconta la Predica agli uccelli, al mondo delle città che crescono».
AVVENIRE.IT

A Perugia Raffaello tra reale e virtuale

 

PALAZZO BALDESCHI (PERUGIA) - Un Raffaello, tra reale e virtuale, animerà le sale di Palazzo Baldeschi a Perugia fino al 6 gennaio 2021. Le opere del sommo artista italiano sono da oggi esposte nella mostra 'Raffaello in Umbria e la sua eredità in Accademia', in una versione multimediale per la sezione curata dalla Fondazione CariPerugia Arte e in una espositiva più classica grazie all'Accademia di Belle Arti 'Pietro Vannucci' di Perugia.
    Gli organizzatori vogliono così, come è stato ricordato nel corso dell'inaugurazione, rendere omaggio a Raffaello Sanzio a 500 anni dalla sua scomparsa. Fra le manifestazioni riconosciute dal Comitato nazionale creato per le celebrazioni, la mostra è anche parte del percorso 'Perugia celebra Raffaello' e si inserisce nel più ricco programma 'Raffaello in Umbria', coordinato dal Comitato organizzatore regionale.
    Come ha spiegato Cristina Colaiacovo, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, la mostra è divisa in due sezioni: la prima, quella multimediale, a cura di Francesco Federico Mancini, con la regia di CariPerugia Arte e il contributo della Soprintendenza Archivistica dell'Umbria e delle Marche e dell'Archivio di Stato di Perugia; la seconda dal sottotitolo 'L'Accademia di Perugia e Raffaello: da Minardi e Wicar al Novecento' realizzata dall'Accademia di Belle Arti e curata da Alessandra Migliorati, Stefania Petrillo e Saverio Ricci, con il coordinamento di Giovanni Manuali, conservatore dei Beni dell'accademia.
    La versione digitale di Raffaello si mostra subito coinvolgente, con i visitatori che possono persino vederlo mentre disserta con suo padre e con il suo maestro Pietro Vannucci, detto il Perugino, grazie ad alcuni attori in costume rinascimentale. La cosa particolare è poi che con questa esperienza immersiva tra suggestioni visive e sonore si potranno così ammirare, accompagnati da informazioni lette da una voce narrante, tutte le opere legate all'Umbria, se ne contano 12, oggi conservate nei più importanti musei del mondo.
    Raffaello nel capoluogo umbro ha trascorso più o meno sei anni della sua vita, dal 1500 al 1505 circa. Perugia e Città di Castello, rappresentano i luoghi dell'Umbria dove ha mosso i primi passi e svolto una parte significativa della sua formazione artistica. Le uniche due opere ancora conservate in Umbria sono comunque il Gonfalone della Trinità, nella Pinacoteca comunale di Città di Castello e l'affresco di San Severo presso l'omonima cappella annessa alla chiesa camaldolese, oggi di proprietà del Comune di Perugia.
    Fiore all'occhiello della mostra sono poi tre prestigiose opere del Rinascimento umbro appartenenti alla collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e realizzate da tre maestri a cui Raffaello si ispira e con i quali si relaziona quando arriva in Umbria: la 'Madonna col Bambino e due cherubini' di Perugino, la 'Madonna con il Bambino e San Giovannino' di Pintoricchio e il 'Santo Stefano lapidato' di Luca Signorelli.
    Mario Rampini, presidente dell'Accademia di Belle Arti, ha presentato infine la sezione che mette in mostra l'eredità di Raffaello alla 'Pietro Vannucci'. Con quattro parti tematiche e cronologiche si vuole mostrare e dimostrare come, per tutto l'Ottocento, Perugia e l'Accademia, furono un vivaio di talentuosi pittori che rielaborano la lezione degli antichi maestri, Perugino e Raffaello prima di tutti, attualizzandone modelli e stile.
    La mostra è corredata da uno speciale catalogo definito "covid free", realizzato da Fabrizio Fabbri Editore con un innovativo sistema di stampa certificato "capace di abbattere la carica batterica e alcuni tra i principali agenti microbici e fungini, sviluppato con lo stampatore Graphic Masters in collaborazione con tre laboratori di analisi specializzati".
    (ANSA).