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Dal mondo classico a Magritte, il 'Bello' a Domodossola


È stata inaugurata a Domodossola (Verbano-Cusio-Ossola) la mostra intitolata "I tempi del Bello.

Tra mondo classico, Guido Reni e Magritte".

Allestita in Palazzo San Francesco, all'interno dei musei civici Gian Giacomo Galletti, rimarrà aperta al pubblico fino al 12 gennaio 2025.
    L'allestimento, curato da Antonio D'Amico, Stefano Papetti e Federico Troletti, conta una quarantina di opere, tra dipinti e sculture in marmo e bronzo, che raccontano la ricerca, sulla scorta dei modelli classici, del connubio di bellezza formale e valori spirituali che ha attraversato la storia dell'arte. Sono esposte opere di Rubens, Carracci, Guido Reni, Pompeo Batoni, Canova, Funi, Sironi, De Chirico e Magritte. Punto di riferimento è la statuaria classica d'età romana, proveniente dal Museo nazionale romano e delle Terme di Diocleziano.
    "Quest'anno - è il commento del sindaco di Domodossola, Lucio Pizzi, in occasione del taglio del nastro - ci siamo superati.
    Per i visitatori sarà uno splendido viaggio nella bellezza". Per il curatore Papetti si tratta di "una mostra non solo di capolavori, ma di capolavori che vogliono raccontare la continuità del concetto di classicità", una "bellezza ideale e non naturale".
   

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Al Museo Diocesano di Milano l''umanista' Robert Capa


Ripercorre le tappe principali della carriera del fotografo di guerra, dagli esordi nel 1932 fino alla morte avvenuta nel 1954 in Indocina per lo scoppio di una mina, la grande mostra 'Robert Capa.

L'opera 1932-1954', che apre il 14 maggio al Museo Diocesano di Milano.

 La mostra è composta da 300 opere, selezionate dagli archivi dell'Agenzia Magnum Photos. Nell'intento del curatore, Gabriel Bauret, il progetto vuole porre l'accento sulla dimensione umanista di Robert Capa, sulle altre angolazioni verso cui dirige il suo obiettivo: le popolazioni vittime dei conflitti, i bambini, le donne. "Se le fotografie di guerra plasmano la leggenda di Capa - afferma Bauret - nei suoi reportage lo vediamo anche guardare la realtà da diversi punti di vista, concentrandosi su quelli che il fotografo Raymond Depardon definiva "tempi deboli", in contrapposizione ai tempi forti che solitamente mobilitano l'attenzione dei giornalisti e richiedono loro di essere i primi e più vicini".
    L'esposizione si articola in 9 sezioni tematiche - Fotografie degli esordi, 1932-1935; La speranza di una società più giusta, 1936; Spagna: l'impegno civile, 1936-1939; La Cina sotto il fuoco del Giappone, 1938; A fianco dei soldati americani, 1943-1945; Verso una pace ritrovata, 1944-1954; Viaggi a est, 1947-1948; Israele terra promessa, 1948-1950; Ritorno in Asia: una guerra che non è la sua, 1954 - che evocano l'impostazione cronachistica con cui i reportage venivano pubblicati sulla stampa francese e americana dell'epoca. La retrospettiva è promossa da Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e prodotta da Silvana Editoriale, e realizzata grazie al supporto del main sponsor Dils, che il 12 maggio offre ai milanesi la possibilità di visitare la mostra gratuitamente e in anteprima.

ansa.it

Nerone e il fascino discreto dell'Egitto in mostra a Roma

ROMA - Dea madre, protettrice della regalità, dea funeraria, ma anche grande maga: Iside, l'antichissima dea egizia dal corpo di donna stretto da una lunga tunica aderente, moglie di Osiride, dio dei morti, e madre del dio falco Horo ha sempre esercitato, come simbolo dell'intero Egitto, un fascino irresistibile per i Romani. Come alcuni altri imperatori, affascinati soprattutto dal culto tributato in quella terra ai re divinizzati, anche Nerone ne fu rapito e questa inclinazione è definitivamente emersa dal restauro recente della Domus Aurea dove il Grande Criptoportico del padiglione della villa di Colle Oppio ha svelato tracce dell'immaginario egizio in cui gli dei Anubi e Arpocrate ne sono protagonisti indiscussi.

Un aspetto che ha ispirato la trama della mostra "L'Amato di Iside. Nerone, la Domus Aurea e l'Egitto" che narra la passione di Nerone per l'Oriente, di cui Iside ne incarna l'essenza, e racconta la penetrazione capillare dei culti isiaci nella Roma del I secolo d.C.. Protagonista del racconto è la Domus Aurea, la Casa d'Oro di Nerone che proprio con il sole dorato si identificava secondo una visione di matrice orientale. La suggestione è offerta dal riaffiorare nel portico maestoso, quello che univa i due cortili esterni e permetteva di raggiungere velocemente gli ambienti di rappresentanza più importanti del palazzo neroniano, di affreschi che mostrano, nello splendore di colori derivati dal sapiente uso del blu egizio, decorazioni egittizzanti e soggetti legati al culto isiaco. Sono queste decorazioni che hanno dato lo spunto per "far ritornare all'antico splendore alcuni ambienti del palazzo neroniano" racconta la direttrice del Parco Archeologico del Colosseo, Alfonsina Russo, che ha curato la mostra. Un percorso nuovo nella villa d'oro che grazie a giochi di luce che ricostruiscono evocazioni egizie mette in mostra decine di preziosi reperti legati alla cultura orientale provenienti dai maggiori musei italiani, alcuni ritrovati, come nel caso del frammenti delle statue di Iside e Horus, nei fondali del Tevere. "La parola cultura nasce da colere, culto degli dei, e il culto delle divinità è una chiave interpretativa molto importante per fare un'analisi storica delle varie epoche che si sono succedute" ha commentato il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, anche lui affascinato da questa "connessione tra il mondo dell'antica Roma e il mondo dell'antico Egitto".

ansa.it

Deserto Italia, la crisi climatica in mostra al Muse di Trento


 TRENTO - Alpi senza neve, fiumi senz'acqua, laghi ai minimi, ma anche intense piogge ed esondazioni: tra siccità e alluvioni gli impatti della crisi climatica sono ormai realtà e l'Italia ne è già particolarmente esposta, anche perché si trova nell'hotspot climatico del bacino Mediterraneo. La mostra fotografica Deserto Italia di Stefano Torrione, che verrà inaugurata al Museo delle Scienze di Trento il 16 giugno - in occasione della Giornata mondiale della desertificazione e della siccità - racconta attraverso 22 scatti in bianco e nero che ruotano attorno al concetto di deserto, i paesaggi italiani da nord a sud del Paese in cui sono state più evidenti le 'ferite' inferte dal clima.

La mostra sarà visitabile fino al 20 agosto 2023.
    Nel corso del 2022, Stefano Torrione ha perlustrato a piedi le aree glaciologiche, fluviali e lacustri, fotografando le zone più significative. In formato 16/9 e con il linguaggio austero del bianco e nero, gli scatti evidenziano gli effetti sul territorio del riscaldamento globale e affrontano il tema della "sofferente bellezza", come segno del paesaggio colpito dalla siccità.
    Il lavoro di ricerca fotografica sul paesaggio italiano di Stefano Torrione è ancora in corso e si concluderà alla fine di questo anno. Al centro del lavoro e della ricerca dell'autore, il concetto di "deserto": deserto sono i ghiacciai che si ritirano e si spaccano, deserto sono i fiumi che si asciugano lasciando emergere i letti sabbiosi, deserto sono i laghi che si abbassano facendo affiorare fondali rocciosi. Dal naturale all'artificiale, la ricerca si estende anche ai deserti causati dall'uomo o per i quali il fattore antropico è determinante, come ad esempio le zone di grandi incendi o degli impianti sciistici dismessi. 

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'Mezz'aria' a Pistoia, le opere si ascoltano o ci si entra dentro Fino al 25 luglio in Palazzo Fabroni una mostra 'blu''Mezz'aria' a Pistoia, le opere si ascoltano o ci si entra dentro. Fino al 25 luglio in Palazzo Fabroni una mostra 'blu'

PISTOIA - Opere da vedere, ma anche da camminarci sopra o da infilarvisi dentro. O da ascoltare.

È anche questo 'Mezz'aria. La strana apertura della ricerca sonora', mostra che sarà inaugurata al Museo del Novecento e del Contemporaneo di Pistoia il 19 maggio (ore 19) e potrà essere visitata fino al 25 luglio. "Una sperimentazione - spiega l'assessore alla cultura Benedetta Menichelli - di varie forme di arte tra cui suono, performance, installazioni, foto, che si inserisce a pieno titolo nella linea programmatica del dialogo fra i diversi linguaggi della contemporaneità avviata da tempo dal Museo del Novecento di Pistoia". Il progetto espositivo è a cura di Nub e di Gabriele Tosi ed è realizzato da Nub Project Space in collaborazione con il Comune di Pistoia. "Mezz'aria - spiega Tosi - è una riflessione sull'oggetto sonoro e su come questo abita lo spazio in maniera immateriale e invita le persone in visita ad essere attraversato. Ci sono opere da calpestare e opere da attivare, ma non in maniera tecnologica, anzi reclamando il ruolo del corpo nel contatto con l'opera stessa, che trascende dalla tecnologia per come siamo abituati a pensarla oggi". L'esposizione si presenta di colore blu. I curatori sono intervenuti sull'architettura in maniera immateriale, facendo in modo che la luce che filtra dalle finestre (volutamente mantenute aperte, lasciando liberi gli affacci sulla città e sul giardino) colorasse le 11 sale.
    Rendere la luce visibile e percepibile coincide con la forte volontà, che anima l'intero progetto, di rendere vivibile e tangibile l'esperienza sonora, presentando in modo accessibile e stimolante anche per non addetti ai lavori le ricerche degli autori Marco Baldini, Elena Biserna, Luca Boffi, Andrea Borghi, Francesco Cavaliere, Stefano De Ponti, Nicola Di Croce, Giulia Deval, Alessandra Eramo, Renato Grieco, Riccardo La Foresta, Enrico Malatesta, Chiara Pavolucci, Leandro Pisano, Diana Lola Posani e Francesco Toninelli. 

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Le mostre di Domenica 5 Febbraio 2023, da Orazio Gentileschi a Quayola

 

Da Orazio Gentileschi a Quayola, fino alla 'protesta creativa' di quattro giovani artiste iraniane: sono le mostre di questa settimana,

BERGAMO - "Salto nel vuoto.

Arte al di là della materia" è allestita dal 3 febbraio al 28 maggio alla Gamec per esplorare il tema della smaterializzazione. Ultimo capitolo della Trilogia della materia, curata da Lorenzo Giusti e Domenico Quaranta, l'esposizione è divisa in tre sezioni tematiche - Vuoto, Flusso e Simulazione - e mette a confronto i lavori di alcuni grandi protagonisti e protagoniste della storia dell'arte del XX secolo e pionieri dell'arte digitale insieme ad autrici e autori delle generazioni più recenti.

BOLOGNA - Si intitola "Ways of seeing", la personale di Quayola in programma dal 3 febbraio al 31 maggio presso CUBO, il museo d'impresa del Gruppo Unipol, nella sede di Torre Unipol.

A cura di Federica Patti, la mostra propone 'Storms', una serie di video e stampe, tra cui sei inedite realizzate appositamente per l'occasione, in cui l'artista conduce la propria ricerca sulla tradizione della pittura di paesaggio, esplorandone la sostanza pittorica attraverso tecnologie avanzate. Le opere di quattro giovani artiste iraniane (Pegah Pasyar, Reyhaneh Alikhani, Golzar Sanganian e Khorshid Pouyan), formatesi all'Accademia delle Belle Arti di Bologna, compongono la mostra "Voci dall'abisso", dal 2 al 5 febbraio alla Galleria di Palazzo Fava - Palazzo delle Esposizioni. Concepita come gesto di ribellione creativa ai drammatici fatti accaduti negli ultimi mesi in Iran, la collettiva fa emergere le singole personalità delle artiste, declinate in lavori condotti con le più diverse forme, dalla pittura a olio alla scultura, dalla grafica alle installazioni, dal riuso dei materiali al recupero dell'antica tecnica di tessitura kilim.

MURANO (Ve) - Al Museo del Vetro di Murano fino al 7 maggio "Shattering Beauty", personale di Simon Berger curata da Sandrine Welte e Chiara Squarcina in collaborazione con la Fondazione Musei Civici di Venezia e Berengo Studio.
    Attraverso una selezione di circa 20 opere, tutte inedite e realizzate con un approccio alternativo al ritratto in vetro (ossia frantumando il materiale, in un processo che Berger definisce "morfogenesi"), l'artista si concentra sull'esplorazione della fragilità della condizione umana.

ROMA - A Palazzo Barberini fino al 10 aprile "Orazio Gentileschi e l'immagine di san Francesco. La nascita del caravaggismo a Roma", a cura di Giuseppe Porzio e Yuri Primarosa. Nel percorso viene esposto per la prima volta un dipinto di Orazio Gentileschi raffigurante San Francesco in estasi, messo a confronto con tre opere conservate a Palazzo Barberini e con un quadro proveniente dal museo del Prado: il San Francesco in meditazione attribuito a Caravaggio, il San Francesco sorretto da un angelo dello stesso Gentileschi, il San Francesco in preghiera del Cigoli e il San Francesco sorretto da un angelo di Madrid, altro capolavoro della fase giovanile di Gentileschi.
    All'Auditorium Conciliazione dal 6 al 21 febbraio "Donne di Roma. Mostra fotografica e documentale", ideata e organizzata dall'Associazione culturale Chelu e Mare: in un percorso cronologico che dall'antica Roma arriva ai giorni nostri, la mostra vuole raccontare le tante figure femminili che alla città eterna hanno dato un rilevante contributo storico, ripercorrendo le loro conquiste culturali, sociali, politiche ed economiche.

MILANO - "Duetto" è la doppia personale allestita dal 31 gennaio al 24 marzo negli spazi di Viasaterna che vede insieme l'opera radicale di Giuseppe Chiari (Firenze,1926-2007) e la pratica multidisciplinare di Luca Massaro (Reggio Emilia,1991). Nel percorso una selezione di opere su carta e collage realizzate da Chiari tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '90 e le "tele" metalliche di lineare purezza ed esuberanti sculture di Massaro tratte dal recente Dizionario Vol.1 (Art Paper Editions, 2023).

PALERMO - Fino al 4 marzo a Villa Zito "Cesare Viel. Corpi estranei/Toccare un tesoro", a cura di Elisa Fulco e Giulia Ingarao, ultima tappa del progetto Corpi estranei. Utilizzando la scrittura nei suoi lavori, rendendo ossia la parola di volta in volta immagine, walldrawing, manoscritto, scrittura su striscioni, voce e performance, l'artista entra in relazione con la collezione di Villa Zito, tra cortocircuiti, avvicinamenti e riconoscimenti. 

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La mostra a Bergamo. Cecco non è solo di Caravaggio

 Francesco Boneri detto Cecco del Caravaggio, “Flautista”, 1615-1620. Oxford, Ashmolean Museum

Francesco Boneri detto Cecco del Caravaggio, “Flautista”, 1615-1620. Oxford, Ashmolean Museum – opera esposta nella mostra all’Accademia Carrara di Bergamo

Cecco, o Checco come talvolta era chiamato, non è in verità soltanto il diminutivo di Francesco. In quel nomignolo, associato al nome di Caravaggio, si condensa una storia di mistero e di torbide passioni che lo stesso interessato non mancò di rendere palesi in certi suoi quadri, facendo come si dice oggi outing, termine usato dal suo maggior studioso e massimo esperto dei caravaggeschi, Gianni Papi, per sottolineare la franca irrequietezza del pittore. A dire il vero, il primo a farne oggetto di ritratti dalla chiara inclinazione erotica e omoerotica fu lo stesso Caravaggio, che lo ebbe come amico e collaboratore, in una storia che ha fondato, tra l’altro, il mito omosessuale del Merisi – su cui, per esempio, Giovanni Testori scommetteva senza remore –, ma la faccenda oltre a non essere chiarita va inquadrata in un clima storico, culturale e ambientale come quello romano, dove la “promiscuità” di comportamenti e di costumi mista a sofisticate allegorie venne indagata qualche anno fa in una mostra a Villa Medici intitolata ai “Bassifondi del barocco” dove si sollevarono questioni sociali e morali, ma ben poco quelle che segnano la vicenda e le dicerie su Cecco del Caravaggio. Resta il fatto che, come ricorda Gianni Papi, a metà Seicento, quando ormai si sono perdute le tracce di quel Francesco Boneri, poi soprannominato Cecco del Caravaggio, un viaggiatore inglese, tale Richard Symonds, ne scrive ricordando la fama di amante del Merisi (“That laid with him”, che giaceva con lui, oppure “his owne boy”, il suo ragazzo) in relazione al dipinto Amor vincitore di Caravaggio, che era nella collezione di Vincenzo Giustiniani e oggi si trova alla Gemäldegalerie di Berlino. Furono Herwarth Röttgen e lo stesso Papi a dedurre da queste e altre controprove che il quadro caravaggesco dall’eros più ostentato aveva avuto come modello Cecco. A Berlino l’esibizione del nudo di Amore ragazzino sorridente e ammiccante, aveva scatenato ancora nel 2014 una feroce polemica – che la “Berliner Zeitung” definì “postmodernismo iconoclasta” – fondata sul presupposto che rendendosi ammirabile e accattivante quel quadro trasformava lo spettatore in virtuale pedofilo. Erano anni, quelli, dove la caccia al pedofilo si accaniva sull’immaginario artistico colpendo fotografie come quelle che Balthus aveva scattato a una sua modella poco più che bambina, al punto da far saltare una esposizione che doveva metterne in scena ben duemila.

La mostra dedicata ora a Cecco del Caravaggio, evento temporaneo che tiene a battesimo, nel primo piano, la nuova organizzazione e l’ampliamento dell’Accademia Carrara a Bergamo, è la prima e unica antologica dedicata finora al pittore caravaggesco (fino al 4 giugno): raccoglie una ventina di dipinti, su un catalogo che, come ricorda Papi, ne conta se va bene meno di trenta (manca in mostra la Resurrezione oggi a Chicago, perché considerata troppo fragile, e poco altro). Papi corona con questa mostra trent’anni di ricerche. Ci sono artisti che diventano figure elettive a cui, in un certo senso, uno storico o un critico si votano per tutta la vita inseguendone le tracce fin nei più piccoli meandri. È come se lo storico cercasse il dna che gli consentirà di far risorgere un personaggio vissuto secoli fa, così da poterlo finalmente incontrare. Questa mostra più che scoprire il dna di Cecco del Caravaggio, insegue i “resti umani” che egli ha disperso là dove è stato: la data limite è il 30 giugno 1620, dopo la quale non si hanno più riscontri della sua presenza in qualche luogo, magari in Lombardia o a Bergamo – dove sarebbe nato, mentre fino a che Papi non ne ha documentato le tracce si pensava che fosse di origini nordiche, tant’è che Roberto Longhi lo definì «una delle più notevoli figure del caravaggismo nordico» attribuendogli il quadro su cui poi ha fondato una serie di altre attribuzioni, La cacciata dei mercanti dal tempio. Viceversa, in un primo momento, aveva assegnato uno dei quadri più “scandalosi” di Cecco, Amore al fonte, al fiammingo Louis Finson, e nel 1951 lo portò a Milano nella grande retrospettiva su Caravaggio. Papi sottolinea che questa anagrafe nordica sembrava possibile a Longhi perché non teneva conto della «clamorosa novità delle iconografie, l’aura misteriosa e anticonformista che così prepotentemente lo connota».

Vedremo fra poco che Amore al fonte è veramente un quadro scabroso e controverso. Ma a proposito delle allusioni del viaggiatore inglese a Cecco come “boy” di Caravaggio, alla luce del quadro Amor vincitore, è bene che si tenga a mente che il titolo riprende un verso della X Egloga di Virgilio che recita: “Amor vincit omnia” (Amore vince tutto), che ha una sfumatura ben diversa dal titolo che si è soliti trascrivere, e infatti il verso si conclude “et nos cedamus amori” (arrendiamoci anche noi all’amore). Nella Roma del tempo e con due figure “libertine” come quelle di Caravaggio e Cecco, dire che amore ha la meglio su tutto, da un lato può avere una sfumatura cattolica, e quindi prestarsi all’allegoria; dall’altro, qualcuno potrebbe obiettare che questo sia in contrasto con la sapienza e la forza dell’intelletto, e consenta dunque una fuga dalla morale nelle ragioni affettive. Fuor di metafora, Caravaggio dipinge Cecco come un ragazzino che, con quel sorriso accondiscendente, lo autorizza a farne il proprio amante sfidando l’autorità che riteneva certi comportamenti erotici come reati gravi e vizi perseguibili (il sesso orale, per esempio). La mostra che Papi ha composto, accostando a quelle del pittore alcune opere di altri artisti che, secondo lo studioso, hanno avuto con lui rapporti di ispirazione e di collaborazione o addirittura trovarono in Cecco il loro maestro – il grande caravaggesco francese Valentin de Boulogne –, resta però in gran parte una ricostruzione indiziaria: le opere esposte sono quasi tutte frutto di attribuzioni, ma le conferme nei documenti per ora latitano. Si tratta, insomma, di un catalogo fondato sull’occhio del conoscitore e sulle sue associazioni formali che confermano una sorta di “familiarità” fra dipinti riconducibili a una stessa mano. Non tutte le attribuzioni convincono, ma è così che si muove il conoscitore, e Papi ha lavorato pazientemente negli anni su intuizioni sostenibili alla prova dell’occhio.

Già trent’anni fa, lo studioso aveva colto le sembianze di Cecco in alcuni dipinti di Caravaggio: la Conversione di san Paolo (Odescalchi), il Sacrificio di Isacco (ora agli Uffizi) il David e Golia della Borghese e quello del Kunsthistorisches. Cecco, però, farebbe la sua prima apparizione nel Martirio di san Matteo della Contarelli: sarebbe il chierichetto urlante che fugge verso destra; nondimeno, questo è anche il quadro dove Caravaggio si è dipinto con aria perplessa, quasi fosse colto da un dubbio etico. Ma sono le numerose domande che lo storico si pone, nel saggio nel catalogo Skira, a proposito di Savoldo di cui sono esposte tre opere (Cecco lo vide prima di Caravaggio?); su Bartolomeo Manfredi, che si ritrae mesto accanto all’amico (un’ombra dettata dal ricordo funebre di Cecco?); sul soggiorno del pittore a Napoli (forse già quando vi era fuggito Caravaggio, dopo l’omicidio Tomassoni?); e ancora: su Agostino Tassi, l’influenza che Cecco ebbe su Pedro Núñez del Valle, il possibile riscontro del bergamasco Baschenis sugli strumenti musicali dipinti da Cecco; in generale, Papi s’interroga sull’importanza delle sue nature morte, che rivelano «una pittura così disperatamente votata all’iperrealismo». Un’ansia generata probabilmente dalla condizione omosessuale e dalla promiscuità esistenziale che fondano la fama di Cecco del Caravaggio, procurandogli una malinconia da emarginato: se è vero che i pittori lo chiamavano “Checco” o “Chechia” di Caravaggio, forse con tono dispregiativo, insinuando che fosse la “bardassa” del Merisi (del resto, quando si legge nei documenti di un “Francesco garzone” che abitava con Caravaggio in vicolo San Biagio nel 1605, forse s’intende qualcosa di più di un aiutante).

Sappiamo dai documenti che nella sua cerchia di amici e amiche Caravaggio era una sorta di “maschio alpha”: il Malvasia nel 1678 scrive a proposito di Leonello Spada: «Queste fur le cagioni per le quali poi così volentieri fu accolto e accarezzato dal Caravaggio, ch’ebbe a dire aver pur finalmente trovato un uomo secondo il cuor suo; non so se perché, buttadosegli sotto Leonello, non altro procurò che di compiacerlo in tutto, sino a farsi nudo e servigli di modello… » e via di questo tono. Non potendo essersi verificato l’incontro del Merisi con Spada, Gianni Papi ritiene che gli elementi documentari – fra cui l’affermazione secondo cui portò il suo modello a Napoli – corrispondano meglio alla figura di Cecco, e quindi che quello di Malvasia sia un equivoco. In ogni caso, le parole del Malvasia, dicono come Caravaggio si comportasse da maschio dominante con i suoi “ragazzi”, forse esprimendo anche una inclinazione sadica.

Possiamo pensare che Amore al fonte sia una risposta tardiva a quegli “abusi”. Per quanto Cecco fosse insofferente alle regole, disinibito e causa di inimicizie, secondo Papi egli fu «il più intellettuale fra gli artisti del secondo decennio»; e resta fedele al metodo caravaggesco di rendere tale e quale il modello che ha davanti. Forse è una conclusione un po’ generica, ma indubbiamente Cecco sposta il naturalismo caravaggesco verso un realismo più mentale. Concordo con Anne Marie Lecq che nel 1982 definì Amore al fonte «la pittura forse più impudica che l’epoca e l’ambiente abbiano prodotto»; d’altra parte lo studioso tedesco Julius Kliemann nel 1995 aveva tentato di leggere il quadro fuori dallo schema omoerotico, prevalente nella critica, vedendoci un’allegoria spirituale (del desiderio di Dio) rivolta a un pubblico ristretto di sapienti. Ma questo, secondo Fabrizio Rubini, renderebbe fallimentare il metodo di Caravaggio e Cecco, perché inadeguato a palati ipercolti. Troppo ambigua, sottolinea Rubini, la posa che Amore assume per abbeverarsi alla fonte, vista come immagine scabrosa. Certo i simboli sparsi ovunque sulla scena (Rubini nota che riprende la tradizione dei parergon) e la freccia che interseca il piano pittorico con l’illusione di entrare nello spazio reale, così il cartiglio bianco e senza scritte sopra la testa di Amore, questi simboli rimandano a pensieri non ancora svelati che innervano, da un’opera all’altra, questa mostra coraggiosa e importante.

avvenire.it

Belzec, Sobibor e Treblinka, mostra sull'orrore

 

Belzec, Sobibor e Treblinka, ovvero i tre campi in cui tra il 1942 e il 1943 si è consumata un'operazione omicida senza precedenti, la cosiddetta Aktion Reinhardt, l'uccisione rapidissima e implacabile della popolazione ebraica concentrata nei ghetti del Governatorato Generale, il cuore dell'ex territorio della Polonia: racconta una storia poco nota al pubblico italiano la mostra "L'inferno nazista.

I campi della morte di Belzec, Sobibor e Treblinka", allestita alla Casina dei Vallati, sede espositiva della Fondazione Museo della Shoah a Roma, a partire dal 27 gennaio, Giorno della Memoria.

Giorno Memoria, a Roma inaugurata la mostra 'L'inferno nazista'

Un progetto di alto valore scientifico, a cura di Marcello Pezzetti, ma anche molto duro ed emozionante, che attraverso documenti, foto, filmati (anche materiale realizzato dai nazisti), interviste e ricostruzioni racconta per la prima volta in modo completo lo sterminio avvenuto, mediante gas di scarico, in questi campi. All'inaugurazione oggi, presenti le istituzioni, dal Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, al sindaco di Roma Roberto Gualtieri, da Mario Venezia, presidente Fondazione Museo della Shoah, a Sami Modiano, testimone sopravvissuto al lager, e poi l'ambasciatore di Israele in Italia Alon Bar, Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma.

Se per Sangiuliano, che ha ammesso di essere stato provato emotivamente dal percorso, serve "ribadire l'unicità della Shoah, che è stata il male assoluto", per Gualtieri "Lo sterminio del popolo ebraico è stato un esercizio burocratico e inumano, lo condanniamo per rendere omaggio alle vittime e ai sopravvissuti ma anche per tenere tutta l'umanità in guardia".

    Toccanti le parole di Sami Modiano, 92 anni, sopravvissuto e ancora desideroso di testimoniare: "Fino a quando avrò forza e vita trasmetterò ai ragazzi quello che è stato", ha detto con emozione, "Ho fiducia e speranza in chi verrà dopo di noi".

    La mostra comprende inoltre una sezione multimediale e immersiva che documenta, anche presentando la ricostruzione di un plastico del campo di Treblinka, gli atroci procedimenti di messa a morte con il gas perpetrati nei tre lager. L'approccio scelto è quello della 'verità', senza nascondere nulla agli occhi del pubblico, neppure i materiali più drammatici: per questo, ha assicurato Mario Venezia, "Staremo attenti a non far entrare i bambini alla mostra. Io stesso, pur avendo visitato Treblinka, vedendo rappresentato il campo nella mostra sono stato colpito emotivamente".

    Nel percorso i materiali restituiscono una tragedia che fa ancora rabbrividire: bambini denutriti e quasi nudi dei ghetti, una vita logorata da una quotidianità priva di dignità tra violenza e fame, la feroce e sistematica deportazione e infine le tante, troppe masse di uomini, donne e bambini mandate a morire nelle camere a gas, in luoghi senza più speranza né umanità: perché andare nei campi dell'Aktion Reinhardt (in onore del capo della polizia di sicurezza, Reinhardt Heydrich, giustiziato dai resistenti cechi) significava, come spiega all'ANSA il curatore Pezzetti, "essere ammazzati. Vi si entrava solo per quello. In soli 100 giorni nei tre campi sono state uccise più di un milione e mezzo di persone. L'attenzione in Italia è tutta concentrata su Auschwitz, perché lì ci sono stati deportati del nostro Paese, ma si dimentica che questa è stata la più grande operazione omicida compiuta dai nazisti, il cuore della Shoah".    

(segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone - turismoculturale@yahoo.it)

A Firenze 'Sauro Cavallini. L'opera di un internato'

 


Dal 26 gennaio fino al 28 febbraio 2023 le sale di Palazzo Strozzi Sacrati ospiteranno la mostra 'Sauro Cavallini. L'opera di un internato' Sauro Cavallini, uno degli artisti più significativamente prolifici della seconda metà del Novecento, si spiega in una nota, conobbe l'orrore dei campi di internamento durante la Seconda Guerra Mondiale: nel settembre del 1943 all'età di 16 anni fu arrestato dalla polizia fascista e recluso nel campo di Gradaro a Mantova, dove rimase per circa un anno.

I mesi di prigionia segnarono profondamente sua la vita e quando iniziò a praticare la scultura, gli incubi della prigionia presero forma e si tradussero nelle sue prime opere d'arte che non avrebbe più ripetuto negli oltre 50 anni successivi. Oggi quelle opere assumono un valore di testimonianza di un passato particolarmente doloroso e 16 di quei lavori, realizzati tra il 1961 e il 1963 in ferro e in ottone, saranno esposti per la prima volta a Firenze nelle sale della sede della presidenza della Giunta regionale della Toscana. Le sculture, alcune delle quali misurano anche due metri d'altezza, furono realizzate durante i primi anni '60 con la tecnica della 'goccia su goccia' ovvero sciogliendo scarti metallici mediante fiaccola ossidrica fino a creare l'opera, e sono dedicate unicamente alla figura umana dove l'angoscia, la sofferenza, il grido di aiuto, sono leggibili in modo inequivocabile. (ANSA).


A Cuneo i capolavori di Tiziano, Tintoretto e Veronese

 

Ospitate in una architettura medievale ora monumento nazionale, le opere del periodo compreso tra il 1560 e il 1565 si confrontano con temi fondamentali nell'iconografia cristiana: l'Annunciazione e l'Incarnazione, il Battesimo di Cristo, l'Ultima Cena, la Crocifissione e la Resurrezione.

"Questa mostra rappresenta un appuntamento unico e imperdibile per il grande valore delle opere esposte, mai mostrate insieme e in pochissime altre occasioni uscite da Venezia: cinque capolavori di tre maestri del Rinascimento veneziano trovano casa a Cuneo" spiega Ezio Raviola, presidente della Fondazione Crc. "Con la Fondazione Crc ricorre un intenso rapporto di collaborazione, il cui esito sono iniziative come questa mostra che porta a Cuneo straordinari capolavori dei maestri del Rinascimento. Due delle opere in mostra sono state restaurate nell'ambito del programma Restituzioni, il progetto di Intesa Sanpaolo che, lavorando con le soprintendenze e gli enti di tutela, riporta opere di arte italiana all'originaria bellezza" commenta Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa Sanpaolo.

Ansa

Banksy, il 'grande comunicatore' in mostra a Trieste

 

TRIESTE - Banksy, il grande comunicatore. Un aspetto forse ancora poco indagato del writer di Bristol ma che diventa filo conduttore di "The Great Communicator.

    Banksy-Unauthorized exhibition", la mostra inaugurata oggi al Salone degli Incanti di Trieste. I fari sono tutti puntati sulla grande capacità di comunicare dell'artista, peculiarità quanto mai attuale anche alla luce delle opere recentemente rivendicate in Ucraina.
    Il percorso artistico, a cura di Gianni Mercurio, apre domani al pubblico e sarà visitabile fino al 10 aprile 2023. Promosso dalla Regione Friuli Venezia Giulia e dal Comune di Trieste e organizzato da PromoTurismoFVG, in collaborazione con Madeinart, l'allestimento si compone di cinque sale con oltre una sessantina di opere originali che ripercorrono il notevole lavoro di Banksy: dalle sue radici e ispirazioni, fino ai giorni nostri. Si parte quindi dalle opere di artisti e movimenti a cui l'autore si è ispirato, tra cui Keith Haring, Andy Wharol e Blek le Rat, oltre ai poster del maggio francese dai quali Banksy ha ripreso il minimalismo, la comunicazione delle rivolte e l'uso dello stencil, ma anche le opere legate ai situazionisti e al concetto di comunicazione di massa.
    Si passa poi a una riproduzione dello studio di lavoro di Banksy e all'esposizione di opere che criticano la società britannica. Ne sono la prova un iconico Winston Churchill con cresta punk e un parlamento inglese composto da scimmie (Devolved Parliament).
    Il "grande comunicatore" affronta quindi temi come proteste e capitalismo - con, tra le altre, il celebre "lanciatore di fiori" - e guerra e violenza. Le racconta anche attraverso "Napalm": la bambina vietnamita in fuga dal bombardamento mano nella mano con due mascotte dell'entertainment nel mondo contemporaneo. Il perno di Banksy rimane l'occhio umano di denuncia.
    La mostra dedica infine anche un'area alle più celebri performance del writer come il "Walled Off Hotel" a Betlemme situato di fronte al muro che separa Israele e Palestina, e poi un negozio, ironicamente denominato Wallmart che fornisce i materiali necessari ai clienti che vogliono dipingere sul muro adiacente. Un percorso dunque interamente improntato sulla sua abilità di comunicare e di utilizzare in modo unico i canali di comunicazione del tempo per raccontare l'arte. (ANSA)