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La mostra a Bergamo. Cecco non è solo di Caravaggio

 Francesco Boneri detto Cecco del Caravaggio, “Flautista”, 1615-1620. Oxford, Ashmolean Museum

Francesco Boneri detto Cecco del Caravaggio, “Flautista”, 1615-1620. Oxford, Ashmolean Museum – opera esposta nella mostra all’Accademia Carrara di Bergamo

Cecco, o Checco come talvolta era chiamato, non è in verità soltanto il diminutivo di Francesco. In quel nomignolo, associato al nome di Caravaggio, si condensa una storia di mistero e di torbide passioni che lo stesso interessato non mancò di rendere palesi in certi suoi quadri, facendo come si dice oggi outing, termine usato dal suo maggior studioso e massimo esperto dei caravaggeschi, Gianni Papi, per sottolineare la franca irrequietezza del pittore. A dire il vero, il primo a farne oggetto di ritratti dalla chiara inclinazione erotica e omoerotica fu lo stesso Caravaggio, che lo ebbe come amico e collaboratore, in una storia che ha fondato, tra l’altro, il mito omosessuale del Merisi – su cui, per esempio, Giovanni Testori scommetteva senza remore –, ma la faccenda oltre a non essere chiarita va inquadrata in un clima storico, culturale e ambientale come quello romano, dove la “promiscuità” di comportamenti e di costumi mista a sofisticate allegorie venne indagata qualche anno fa in una mostra a Villa Medici intitolata ai “Bassifondi del barocco” dove si sollevarono questioni sociali e morali, ma ben poco quelle che segnano la vicenda e le dicerie su Cecco del Caravaggio. Resta il fatto che, come ricorda Gianni Papi, a metà Seicento, quando ormai si sono perdute le tracce di quel Francesco Boneri, poi soprannominato Cecco del Caravaggio, un viaggiatore inglese, tale Richard Symonds, ne scrive ricordando la fama di amante del Merisi (“That laid with him”, che giaceva con lui, oppure “his owne boy”, il suo ragazzo) in relazione al dipinto Amor vincitore di Caravaggio, che era nella collezione di Vincenzo Giustiniani e oggi si trova alla Gemäldegalerie di Berlino. Furono Herwarth Röttgen e lo stesso Papi a dedurre da queste e altre controprove che il quadro caravaggesco dall’eros più ostentato aveva avuto come modello Cecco. A Berlino l’esibizione del nudo di Amore ragazzino sorridente e ammiccante, aveva scatenato ancora nel 2014 una feroce polemica – che la “Berliner Zeitung” definì “postmodernismo iconoclasta” – fondata sul presupposto che rendendosi ammirabile e accattivante quel quadro trasformava lo spettatore in virtuale pedofilo. Erano anni, quelli, dove la caccia al pedofilo si accaniva sull’immaginario artistico colpendo fotografie come quelle che Balthus aveva scattato a una sua modella poco più che bambina, al punto da far saltare una esposizione che doveva metterne in scena ben duemila.

La mostra dedicata ora a Cecco del Caravaggio, evento temporaneo che tiene a battesimo, nel primo piano, la nuova organizzazione e l’ampliamento dell’Accademia Carrara a Bergamo, è la prima e unica antologica dedicata finora al pittore caravaggesco (fino al 4 giugno): raccoglie una ventina di dipinti, su un catalogo che, come ricorda Papi, ne conta se va bene meno di trenta (manca in mostra la Resurrezione oggi a Chicago, perché considerata troppo fragile, e poco altro). Papi corona con questa mostra trent’anni di ricerche. Ci sono artisti che diventano figure elettive a cui, in un certo senso, uno storico o un critico si votano per tutta la vita inseguendone le tracce fin nei più piccoli meandri. È come se lo storico cercasse il dna che gli consentirà di far risorgere un personaggio vissuto secoli fa, così da poterlo finalmente incontrare. Questa mostra più che scoprire il dna di Cecco del Caravaggio, insegue i “resti umani” che egli ha disperso là dove è stato: la data limite è il 30 giugno 1620, dopo la quale non si hanno più riscontri della sua presenza in qualche luogo, magari in Lombardia o a Bergamo – dove sarebbe nato, mentre fino a che Papi non ne ha documentato le tracce si pensava che fosse di origini nordiche, tant’è che Roberto Longhi lo definì «una delle più notevoli figure del caravaggismo nordico» attribuendogli il quadro su cui poi ha fondato una serie di altre attribuzioni, La cacciata dei mercanti dal tempio. Viceversa, in un primo momento, aveva assegnato uno dei quadri più “scandalosi” di Cecco, Amore al fonte, al fiammingo Louis Finson, e nel 1951 lo portò a Milano nella grande retrospettiva su Caravaggio. Papi sottolinea che questa anagrafe nordica sembrava possibile a Longhi perché non teneva conto della «clamorosa novità delle iconografie, l’aura misteriosa e anticonformista che così prepotentemente lo connota».

Vedremo fra poco che Amore al fonte è veramente un quadro scabroso e controverso. Ma a proposito delle allusioni del viaggiatore inglese a Cecco come “boy” di Caravaggio, alla luce del quadro Amor vincitore, è bene che si tenga a mente che il titolo riprende un verso della X Egloga di Virgilio che recita: “Amor vincit omnia” (Amore vince tutto), che ha una sfumatura ben diversa dal titolo che si è soliti trascrivere, e infatti il verso si conclude “et nos cedamus amori” (arrendiamoci anche noi all’amore). Nella Roma del tempo e con due figure “libertine” come quelle di Caravaggio e Cecco, dire che amore ha la meglio su tutto, da un lato può avere una sfumatura cattolica, e quindi prestarsi all’allegoria; dall’altro, qualcuno potrebbe obiettare che questo sia in contrasto con la sapienza e la forza dell’intelletto, e consenta dunque una fuga dalla morale nelle ragioni affettive. Fuor di metafora, Caravaggio dipinge Cecco come un ragazzino che, con quel sorriso accondiscendente, lo autorizza a farne il proprio amante sfidando l’autorità che riteneva certi comportamenti erotici come reati gravi e vizi perseguibili (il sesso orale, per esempio). La mostra che Papi ha composto, accostando a quelle del pittore alcune opere di altri artisti che, secondo lo studioso, hanno avuto con lui rapporti di ispirazione e di collaborazione o addirittura trovarono in Cecco il loro maestro – il grande caravaggesco francese Valentin de Boulogne –, resta però in gran parte una ricostruzione indiziaria: le opere esposte sono quasi tutte frutto di attribuzioni, ma le conferme nei documenti per ora latitano. Si tratta, insomma, di un catalogo fondato sull’occhio del conoscitore e sulle sue associazioni formali che confermano una sorta di “familiarità” fra dipinti riconducibili a una stessa mano. Non tutte le attribuzioni convincono, ma è così che si muove il conoscitore, e Papi ha lavorato pazientemente negli anni su intuizioni sostenibili alla prova dell’occhio.

Già trent’anni fa, lo studioso aveva colto le sembianze di Cecco in alcuni dipinti di Caravaggio: la Conversione di san Paolo (Odescalchi), il Sacrificio di Isacco (ora agli Uffizi) il David e Golia della Borghese e quello del Kunsthistorisches. Cecco, però, farebbe la sua prima apparizione nel Martirio di san Matteo della Contarelli: sarebbe il chierichetto urlante che fugge verso destra; nondimeno, questo è anche il quadro dove Caravaggio si è dipinto con aria perplessa, quasi fosse colto da un dubbio etico. Ma sono le numerose domande che lo storico si pone, nel saggio nel catalogo Skira, a proposito di Savoldo di cui sono esposte tre opere (Cecco lo vide prima di Caravaggio?); su Bartolomeo Manfredi, che si ritrae mesto accanto all’amico (un’ombra dettata dal ricordo funebre di Cecco?); sul soggiorno del pittore a Napoli (forse già quando vi era fuggito Caravaggio, dopo l’omicidio Tomassoni?); e ancora: su Agostino Tassi, l’influenza che Cecco ebbe su Pedro Núñez del Valle, il possibile riscontro del bergamasco Baschenis sugli strumenti musicali dipinti da Cecco; in generale, Papi s’interroga sull’importanza delle sue nature morte, che rivelano «una pittura così disperatamente votata all’iperrealismo». Un’ansia generata probabilmente dalla condizione omosessuale e dalla promiscuità esistenziale che fondano la fama di Cecco del Caravaggio, procurandogli una malinconia da emarginato: se è vero che i pittori lo chiamavano “Checco” o “Chechia” di Caravaggio, forse con tono dispregiativo, insinuando che fosse la “bardassa” del Merisi (del resto, quando si legge nei documenti di un “Francesco garzone” che abitava con Caravaggio in vicolo San Biagio nel 1605, forse s’intende qualcosa di più di un aiutante).

Sappiamo dai documenti che nella sua cerchia di amici e amiche Caravaggio era una sorta di “maschio alpha”: il Malvasia nel 1678 scrive a proposito di Leonello Spada: «Queste fur le cagioni per le quali poi così volentieri fu accolto e accarezzato dal Caravaggio, ch’ebbe a dire aver pur finalmente trovato un uomo secondo il cuor suo; non so se perché, buttadosegli sotto Leonello, non altro procurò che di compiacerlo in tutto, sino a farsi nudo e servigli di modello… » e via di questo tono. Non potendo essersi verificato l’incontro del Merisi con Spada, Gianni Papi ritiene che gli elementi documentari – fra cui l’affermazione secondo cui portò il suo modello a Napoli – corrispondano meglio alla figura di Cecco, e quindi che quello di Malvasia sia un equivoco. In ogni caso, le parole del Malvasia, dicono come Caravaggio si comportasse da maschio dominante con i suoi “ragazzi”, forse esprimendo anche una inclinazione sadica.

Possiamo pensare che Amore al fonte sia una risposta tardiva a quegli “abusi”. Per quanto Cecco fosse insofferente alle regole, disinibito e causa di inimicizie, secondo Papi egli fu «il più intellettuale fra gli artisti del secondo decennio»; e resta fedele al metodo caravaggesco di rendere tale e quale il modello che ha davanti. Forse è una conclusione un po’ generica, ma indubbiamente Cecco sposta il naturalismo caravaggesco verso un realismo più mentale. Concordo con Anne Marie Lecq che nel 1982 definì Amore al fonte «la pittura forse più impudica che l’epoca e l’ambiente abbiano prodotto»; d’altra parte lo studioso tedesco Julius Kliemann nel 1995 aveva tentato di leggere il quadro fuori dallo schema omoerotico, prevalente nella critica, vedendoci un’allegoria spirituale (del desiderio di Dio) rivolta a un pubblico ristretto di sapienti. Ma questo, secondo Fabrizio Rubini, renderebbe fallimentare il metodo di Caravaggio e Cecco, perché inadeguato a palati ipercolti. Troppo ambigua, sottolinea Rubini, la posa che Amore assume per abbeverarsi alla fonte, vista come immagine scabrosa. Certo i simboli sparsi ovunque sulla scena (Rubini nota che riprende la tradizione dei parergon) e la freccia che interseca il piano pittorico con l’illusione di entrare nello spazio reale, così il cartiglio bianco e senza scritte sopra la testa di Amore, questi simboli rimandano a pensieri non ancora svelati che innervano, da un’opera all’altra, questa mostra coraggiosa e importante.

avvenire.it