La mostra a Milano. Con Brassaï il chiaroscuro di Parigi diventa colore

A Palazzo Reale una megaretrospettiva dell’opera del fotografo d’origini rumene, che amava la notte e ridisegnò la geografia umana della capitale francese
Brassaï, “Soirée Haute couture, Paris 1935” (particolare)

Brassaï, “Soirée Haute couture, Paris 1935” (particolare) - © Estate Brassaï successione/Philippe Ribeyrolles

  Milano, Palazzo Reale Brassaï L’occhio di Parigi Fino al 2 giugno Brassaï, “Couple d’amoureux dans un café parisien, Place Clichy” / © Estate Brassaï successione/Philippe Ribeyrolles Brassaï, “Soirée Haute couture, Paris 1935” / © Estate Brassaï successione/Philippe Ribeyrolles Sarà che la sua terra era la Transilvania, in Romania, circondata dai Carpazi, ma Brassaï (pseudonimo di Gyula Halász, che cambiando nome volle ricordare sempre le sue origini a Brassó), fotografo e molte altre cose, fra cui scrittore e pittore, si nascondeva di giorno e viveva e lavorava di notte, come un vampiro sarebbe fin troppo facile dire, pensando alla sua patria. Venuto via da Brassó e approdato a Parigi, non tornò mai più indietro, la ragione pare fosse che non voleva guastare nella sua memoria i ricordi d’infanzia che si era portato dietro fino in Francia. Perché non lo si giudicasse un figlio ingrato prese il cognome Brassaï, che vuol dire appunto “di Brassó”, come non volesse mai dimenticare il ventre materno da cui era uscito, ma anche per rendere omaggio davanti a tutti alla sua città d’origine. Sorprende l’ampiezza della mostra allestita in queste settimane a Palazzo Reale: oltre 220 fotografie, in gran parte stampate dallo stesso artista, che ci parlano della versatilità tecnica e creativa di Brassaï. Un’ampiezza tre volte tanto il numero delle fotografie di cui era composta al MoMA di New York tra il 1968 e il 1969 una sua retrospettiva, soltanto 75 appunto, eseguite tra gli inizi degli anni 30 e la fine dei 50. Il curatore, John Szarkowski, scrive che fino a quel momento la fotografia era stata polarizzata da due Maestri: Cartier-Bresson e Brassaï, definito “un angelo delle tenebre”, per la sua cultura fatta di senso del primitivo e del fantastico, di notti e vicoli tenebrosi, senza perdere niente di quel naturalismo che lo rendeva anche fedele alla realtà. Una mostra in corso come quella a Milano si può capire nella sua ampiezza sia per l’ovvia ragione che chi la organizza punta a fare pubblico, e oggi la quantità vince sempre, e talvolta annacqua la qualità; ma quelle duecento immagini sono ancora niente se si pensa che l‘archivio di Brassaï conta trentamila scatti. La notte era il bagno di mistero nel quale egli entrava, frequentando anche la Parigi vissuta dalla gente comune negli anni 30 e 40; i bistrot, i luoghi di svago, le strade popolate di falene, procacciatori e uomini sposati in cerca di distrazione e consolazione, le sagome nere delle statue che si stagliano sulle luci dei lampioni, i porticati solitari del Palais-Royal, le scalinate di Montmartre, le giornate di pioggia. Brassaï stampava da solo i suoi negativi perché affidarli a un altro gli sarebbe sembrato come far scorticare l’immagine della sua carne resa tangibile attraverso l’occhio, la cui membrana veniva stimolata dalla luce generando una sensazione profonda, materica quasi. Una parte decisiva nella sua fotografia aveva il volto dei personaggi, quelli propriamente ritratti, gli artisti per esempio, o le signore della moda, che produsse maggiormente nella seconda parte della propria vita, ma anche quelli che si trovavano nei quartieri più poveri, di fronte a una sala da ballo, nella varietà semplice e non troppo pretenziosa dei bordelli tra anni 30 e 40, e nondimeno i locali del bel mondo amante degli incontri romantici e del lusso mentre Parigi si sta preparando a un nuovo conflitto. Oltre la varia umanità Brassaï è attratto dalle cose naturali, anche le più ordinarie: oggetti usati, cose curiose, gocce d’acqua su una superficie, rami e alberi, porticati desolati, graffiti sui muri... Su questo segno ribelle e libertario dove l’umanità dichiara la propria volontà di incidere sui luoghi la traccia del proprio passaggio, fosse anche per una romantica dichiarazione d’amore, o per qualche atavico rifiuto del vivere civile, Brassaï ha inventato una sorta di quadro scolpito nella fotografia. I graffiti nelle metropolitane o quelli del Muro di Berlino e di altre pareti del disagio collettivo hanno allungato il tempo di quei gesti di allegria ma anche di opposizione di chi non accetta una certa invadenza del potere. Invece, Brassaï ha fatto tesoro di alcuni esempi della cultura pittorica moderna: dall’informale europeo che graffia proprio la tela dipinta, alle Tag che oltre trent’anni fa crearono un vero genere artistico teso ad arricchire gli spazi della libertà nella sfera pubblica: Brassaï ne riscatta con le sue fotografie la dignità che è poi quella dell’umanità che intende certificare anarchicamente su un muro i propri sentimenti, i propri buoni o cattivi pensieri, l’appartenenza a un luogo. Col suo occhio interiore Brassaï ha creato un genere. Ma il dono dell’immaginazione lo aveva spinto a fare ben altro e a tenere sempre aperti i legami con le arti visive. Quanto alla fotografia, la moglie Gilberte, anima gemella anche nella sua ricerca estetica, questa verità espressa dal marito: «Un negativo non significa nulla per un fotografo come me. È solo la stampa dell’autore che conta». Brassaï sviluppava i negativi, preparava i bagni di fissaggio e realizzava da solo le stampe e gli ingrandimenti nel suo laboratorio. «Aveva decine di bottiglie contenenti diversi preparati, e al muro erano appese molte formule chimiche. Restava sveglio e lavorava a lungo, soprattutto di notte». Brassaï cantore di Parigi, non fu però in senso assoluto un fotografo della Ville; il suo occhio e il suo interesse per l’umanità fu pari a quello per la natura, e in ogni sua fotografia, anche la più soppesata riguardo al contesto urbano, si trova spesso un angolo dove la natura entra e rende miracoloso l’insieme. In questo senso, Brassaï è propriamente un alchimista dell’immagine, con un’attenzione precisa per i dettagli (anche nelle foto che contemplano l’alta moda) il senso magico della realtà si unisce, tra l’altro, a una sua propria Cabbala del numero 9. Appassionato di numerologia, sosteneva di essere nato il 9-9-99 alle ore 9 di sera... Aveva una passione per il Bosco di Bomarzo con le sculture grottesche e surreali (tra l’altro sviluppò forti legami col gruppo dei surrealisti) e collezionava, come ricorda la moglie, reliquie naturalistiche: piccoli teschi e scheletri di polli o di tritoni, nell’ambito dei minerali, cristalli e ciottoli, oggetti di legno recuperati in qualche bottega di bric-à-brac, dipinti naif e opere d’Art brut; possedeva anche un San Sebastiano in pietra dove, quasi esorcizzandone l’immagine, al posto delle frecce aveva infilato delle sigarette. Una ironia nata dal senso perturbante del martire. Lavorò molto per la rivista “Harper’s Bazaar”, dove – diceva – andava in scena il mondo dell’America a colori. Amava circondarsi di giovani di talento, e fra i suoi frequentatori si trovavano Calder e Miró, Jean Dubuffet; amava leggere e rileggere Proust, e in fondo si capisce dalla sua fotografia quanto contasse il discorso del romanziere sulla Madeleine: la fotografia di Brassaï è una sorta di Recherche dell’esperienza che comincia prima che il ricordo si sia diluito, e culmina in una immagine che fissa la memoria in qualcosa che sembra duro come la base litografica. Nella sua lunga vita frequentò molti artisti e scrittori e il suo ultimo libro fotografico, nel 1982, lo dedicò a loro. Su tutti ebbe un peso l’amicizia con Picasso, che cominciò a frequentare nel 1932, e che portò alla realizzazione delle Conversations avec Picasso, con la numerosa serie di fotografie e lo scambio di esperienze verbali, di cui troviamo prova in mostra. Un’amicizia fra due uomini pieni di esperienza della vita, che durerà fino alla morte di Picasso nel 1973. Il curatore della mostra di Milano, Philippe Ribeyrolles, conclude la sua introduzione in catalogo (Silvana) notando che Brassaï «è stato soprattutto un camminatore». E ha ragione, perché la realtà ti sorprende dove non ti aspetti mentre le stai andando incontro, e Brassaï – che non ha quel senso dell’istantaneità che aveva Cartier-Bresson – ma cerca ogni volta di entrare in osmosi con l’aura notturna di Parigi, deve saper divinare l’imprevisto avvolgendosi nelle tenebre della città irradiate dai lampioni. Che sia il testimone di un mondo scomparso, è difficile dirlo; si potrebbe rovesciare la posizione e sostenere che in fondo è lui che lo rende occulto avvolgendolo in quel chiaroscuro che, per certi versi, fa di ogni sua fotografia un quadro d’ambiente caravaggesco dove il bianco e nero si carica, grazie alla sensibilità interiore di Brassaï, di una luminosità esistenziale che si tempera di colore. Come Caravaggio ogni sua foto chiama il personaggio all’ipnosi: “a me gli occhi”. E in effetti diceva che era necessario eliminare tutto il superfluo e guidare l’occhio come un dittatore. La Cabbala del nove ha finito col guidare il curatore a una ripartizione dei temi principali in nove sezioni: le foto di gioventù, tre sono su Parigi, una sui graffiti e una sulla donna, non potrebbe infine mancare la moda e due sezioni dedicate all’incontro profondo fra Brassaï e gli altri. E accanto anche alcune prove artistiche di disegno, pittura e scultura. È forse il caso di concludere ricordando che anche Cartier-Bresson era partito dalla pittura e concluse la sua vita disegnando e realizzando acquerelli. Due storie straordinarie che spiegano molte cose della fotografia. 
avvenire.it

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