Arrivava da Creta, Domínikos Theotokópoulos. L’isola dal 1211 era proprietà della Serenissima e non erano pochi gli artisti locali che tentavano fortuna nella capitale di una Repubblica estesa sui mari come un impero. Vi giunse intorno al 1567, a 26 anni. A differenza però dei suoi conterranei, che proseguivano a dipingere alla maniera “di casa” per la comunità greca, a Venezia Domenico iniziò a pensare la pittura in modo diverso. Inizia così la storia del Greco, raccontata in una mostra a Palazzo Reale a Milano (fino all11 febbraio), con una quarantina di opere dell’artista (tra cui la sola opera a soggetto mitologico da lui realizzata, il Laocoonte) e una serie di confronti con i maestri del Rinascimento italiano.
Creta era una delle centrali di produzione figurativa ortodossa per il Mediterraneo centrale, Adriatico e Balcani. A partire dalla metà del Quattrocento aveva sviluppato una scuola pittorica marcata dalla fusione di elementi bizantini e occidentali, molto apprezzata, e nella quale si era certamente formato. Sull’isola Theotokópoulos aveva certamente avuto modo anche di confrontarsi con l’immagine italiana, conosciuta per mezzo delle stampe che circolavano abbondantemente. Una dimestichezza che, una volta arrivato a Venezia, spinge il pittore a passare dal greco al latino.
Per quanto gli esordi possano apparire balbettanti, si riconosce bene il desiderio di uno straniero di parlare nella lingua della laguna: e non è solo un problema di mercato. A Venezia resta impressionato da Tiziano, in particolare dalla pittura estrema della vecchiaia, Tintoretto e i lavori più espressionisti di Jacopo Bassano – riferimenti (l’anziano Tiziano a parte) puntualmente richiamati in mostra. Tra i rimandi, decisivi in particolare sulla lunga durata e che invece la mostra non riprende, c’è Andrea Schiavone, outsider di successo appartenente a una generazione precedente alla sua, le cui figure febbricitanti hanno più di un grado di parentela con quelle del Greco.
Nel 1570 Theotokópoulos si trasferisce a Roma, dove avviene l’incontro con Michelangelo, così sconvolgente da accompagnarlo fino alla fine. Qui apre bottega ed entra nell’orbita del cardinale Alessandro Farnese, ma non resiste più di cinque anni. Sul campo italiano l’artista non può vincere. Progetta il salto a Madrid, la cui corte è affamata di pittura italiana e nello specifico veneta. Il soprannome che aveva guadagnato a Venezia o a Roma resta intatto, cambia solo l’articolo: El Greco. Un cretese (e tale si firmerà sempre, il più delle volte a lettere greche) che dipinge italiano. Ma all’incontro con Filippo II, rimasto vedovo di Tiziano, la scintilla non scocca. E così si sposta un po’ più in là, un po’ più a sud, a Toledo. È il giugno 1577. La peregrinazione di Domínikos Theòtokopulos è finita. La città sul Tago diventerà il suo regno.
Il suo tragitto, visto dall’Italia, sembra essere dalla periferia al centro alla periferia. La stessa Toledo non è Madrid. La città è popolata da una borghesia ricca e colta e da una aristocrazia emarginata da Filippo II. È un coté sociale legato nostalgicamente ai tempi di quando Toledo era capitale. La Spagna è nel suo Siglo de Oro. La sua è una committenza spiritualmente preparata, che legge Erasmo e conosce da vicino Teresa d’Avila e Giovanni della Croce. Qui rumina e macera tutto quello che ha veduto in Italia. Toledo è per El Greco le Galápagos. Nell’isolamento l’eterogeneità del codice genetico della sua pittura può svilupparsi in una linea evolutiva differente. Una linea che altrove non sarebbe germinata, in particolare in un’Italia pittoricamente ormai ossidata sui modelli di grandi maestri defunti o agli ultimi anni di carriera.
Che El Greco nella nostra penisola non sarebbe mai potuto diventare ciò che è stato, lo si capisce dal suo capolavoro italiano, La Guarigione del cieco (1572), in collezione Farnese e ora alla Pilotta di Parma: un gioiello emblematico di una assimilazione compiuta. Paradossalmente di El Greco qui fatichiamo quasi a riconoscere la mano, marcata invece nei dipinti precedenti in virtù di una ambiguità linguistica, come nell’ibrido dell’Ultima Cena (1568-69), tra impianto alla Tintoretto e linguaggio dell’icona. Ormai Theotokópoulos ha imparato a parlare per citazioni, tra Buonarroti e Robusti, nella tecnica di Venezia fatta propria in maniera spettacolare.
In Spagna invece si trova a pensare la pittura in modo nuovo, la reimpasta, la rimeticcia. Il colore si fa totale, monumentale, fulminante. Ma stacca una luce diversa, che ora arriva da dentro. Riaffiorano, trasformate, le linee lunghe della pittura cretese. Le nuvole sono fiamme ossificate, i corpi roccia liquida. Addio alla mimesi? No, i dettagli sono di estremo realismo, il che spiega la forza del Greco ritrattista. Domìnikos Theotokòpoulos in terra iberica porta alle estreme conseguenze gli elementi seminali delle sue due anime. Resta illuminante la lettura di Lionello Puppi, che osservava come El Greco fosse determinato nel tradurre le icone, il tempo e lo spazio della pittura di matrice bizantina, nei modi di una dimensione naturale e storica occidentale: la sua metamorfosi è una scommessa con l’impossibilità. Da qui deriva la sua grandezza. Ne esce uno spazio altro, estremo, antinaturalistico nel senso classico. Uno spazio “cubista” perché mistico, mentale, in cui perde di senso ogni coordinata. È la notte oscura carmelitana. Qui si ritrova il senso del Greco spagnolo: che non è stilistico, ma estatico.
Si discute se Domìnikos fosse già di fede romana o si sia convertito. Certamente prende su di sé l’incarico di elaborare una pittura cristiana, cattolica, tridentina. Una pittura mistica e quindi, nella migliore accezione possibile e moderna, devota. Toledo è una delle capitali della Controriforma, della quale forse si è sottolineato in eccesso il valore normativo stilistico a fronte di una più determinante capacità di indirizzo nei contenuti. È impossibile non rilevare, dentro un linguaggio non convenzionale, l’assoluta ortodossia e l’eccezionale comprensibilità delle immagini del Greco. L’artista non si arresta all’elemento più semplicemente narrativo ma, restando fedele al dettato scritturale, entra nel punctum del momento sacro attraverso il colore, la luce, la forma. La mistica cattolica sposa la mistica bizantina. Esemplare in questo senso il Battesimo di Cristo dell’Hospital de Tavera di Toledo. Qui El Greco valorizza finalmente lo pneuma riuscendo a restituire la qualità del mistero dello Spirito Santo con il flusso impalpabile di un’aura di luce dorata che mette in comunione il Padre e il Figlio. Lo Spirito non è semplicemente la colomba, il simbolo automatico e mortificante della Terza Persona della Trinità, ma soprattutto il segno del vento di luce che inonda la scena e dà sostanza allo spazio continuo tra i corpi. In questo flusso si bagna il getto d’acqua del Battista, a richiamare esplicitamente il significato del sacramento Cristiano.
Questa qualità dello Spirito come vento di luce era già in nuce nel precoce Trittico di Modena e ritorna ad esempio nel dipinto che ha come soggetto l’Annunciazione ma che per titolo porta Incarnazione. Non è solo il momento che segue alle parole dell’Angelo ma anche al “sì” di Maria. Dopo l’accoglienza della Vergine lo Spirito Santo irrompe nella casa trascinando con sé uno spaziotempo altro, e tutto il Paradiso.
avvenire.it
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