La mostra a Orani. Bona de Mandiargues, la Donna-lumaca che ricamò la pittura

Bona de Mandiargues, nome d’arte di Bona Tibertelli, come recita la breve biografia riportata alla fine del catalogo che accompagna la mostra appena inaugurata al Museo Nivola di Orani, nasce a Roma da padre ferrarese e madre veneziana. La sua vita, alla spasmodica ricerca di un modo di essere artista, cioè di sentirsi essa stessa opera d’arte, la porta impressa, insomma, fin dalle sue origini familiari ancorate alle terre della grande arte italiana (Cosme Tura, per esempio). Tibertelli, per chi ha buon orecchio, non sarà passato inosservato: era il cognome di Filippo De Pisis, suo zio e mentore, che la guida sulla strada della pittura portandola con sé anche a Parigi, dove Bona conosce l’uomo con cui si sposerà nel 1950, lo scrittore parigino André Pieyre de Mandiargues che le darà dunque anche il cognome d’arte.

Dopo una tumultuosa separazione, nel 1961 Bona si lega a Octavio Paz e va in Messico, dove poi vive anche un relazione col pittore Francisco Toledo. Bona era bellissima (si prega di astenersi da facili e prosaici sottintesi sul nome); André se ne innamora pazzamente e scrive su di lei vari saggi, commenti e il volume Bona l’amour et la peinture, edito da Albert Skira a Ginevra nel febbraio 1971. Il libro è forse il ritratto più profondo che ci è stato dato di Bona, artista e donna, musa e figura perturbante. André lo chiude a Venezia il 4 settembre 1969. Due anni prima, lo ricorda nel libro, nella galleria Il Cavallino di Carlo Cardazzo, Bona allestisce fra settembre e ottobre del 1967 una mostra personale intitolata Foderografie, che verrà replicata alla Galleria L’Argentario di Trento poche settimane dopo.

Quell’anno è davvero decisivo: Bona risposa André dopo aver chiuso l’anno prima la lunga parentesi messicana con Paz (che l’aveva convinta a seguirlo nel 1963 a Dehli, dove lo scrittore si recava come ambasciatore) e anche con Toledo. In luglio mette al mondo Sibylle, la figlia che oggi si occupa del suo lascito artistico e ha dato un contributo fondamentale a questa retrospettiva, curata da Giuliana Altea e Antonella Camarda (Orani ( Nuoro), Museo Nivola: Bona de Mandiargues. Rifare il mondo; fino al 5 febbraio​, catalogo Allemandi), la prima che si tiene dopo la morte di Bona nel 2000.

La rassegna, meritoria e puntuale, espone oltre 50 opere, ed è importante per varie ragioni. Come ricorda Giuliana Altea si immette nella scia della rinnovata attenzione verso le “donne surrealiste”, di cui ha dato conto nel 2022 la Biennale di Venezia di Cecilia Alemani incardinata su una espressione di Leonora Carrington (che Bona conobbe), Il latte dei sogni, dove si presentavano opere di Leonor Fini, Carol Rama, Dorotea Tanning, Mary Wigman e altre; discorso in qualche modo affrontato, sempre lo scorso anno, alla Collezione Guggenheim nella mostra su Surrealismo e magia, il cui incipit mentale pare sia venuto sem-pre dall’opera della Carrington. Il fatto è che, come ben sottolinea Altea, in queste due vaste rassegne veneziane Bona de Mandiargues non c’era (e sì che in Laguna aveva esposto varie volte). Ma avrebbe ben figurato, sia come “donna surrealista”, sia come “donna maga”. Che il 1967, quarantunesimo anni di vita dell’artista, sia stato una soglia sulla quale Bona ha trovato e messo a registro il punto di sintesi delle proprie ossessioni e della propria arte, non è affatto casuale. A cominciare dalla stessa tipologia “pittorica” che elabora in quegli anni e nei successivi: dipinge infatti componendo una sorta di patchwork di tessuti.

Li sceglie, nei modi più disparati (anche pezze usate e marcate dal passaggio della vita), secondo colori, ruvidità, riflessi, e cucendoli insieme genera il quadro, inizialmente astratto-informale, ma poi sempre più figurativo-totemico. Concludendo il libro del 1971 André nota che Bona «si serve della macchina per cucire come un apparecchio per disegnare o per dipingere ». Si potrebbe anche dire che la macchina per cucire mette i punti a ciò che il telaio ha sciolto dal groviglio esistenziale, ovvero lo rivela nelle forme e lo rende visibile, ma, come nella sinopia, sarà la tessitura preparatoria a rendere possibile l’opera nel profondo. Che Sibylle nasca dopo il secondo matrimonio di André e Bona è certo la prova di un amore voluto per sempre, ma che questo avvenga mentre la madre ha abbracciato quella speciale pittura che chiama “foderografie”, ha anche un significato ancestrale. Forse testimonia il senso più vicino alla pratica surrealista, se non altro perché nella gestazione è compresa anche la sostanza dei “sogni ipnotici” e un certo automatismo che, si perdonerà il gioco verbale, genera l’enfant exquis.

Un bambino meraviglioso che è il genio stesso della creazione. Considerava così la sua arte: «La mia ricerca è alchemica voglio fare dell’oro a partire dagli escrementi. (...) Rifaccio il mondo: là sono altrove, vedo le cose da più lontano» (lo sosteneva anche Dalí). Bona così si è stabilizzata? André sostiene nel suo libro che «la maternità cambia la donna assai meno di quanto essa non la confermi». A voler continuare questo gioco verbale, si può ricordare che nelle lingue semitiche, arabo ed ebraico per esempio, il vocabolo comune che lega il generare al ricamo – racham o rechem – definisce anche il grembo materno, e la radice viene da tessere, per cui si potrebbe anche dire che la madre gravida è, in tal senso, ricamatrice (un tema che calza anche per le tessiture dell’artista sarda Maria Lai).

Ed è nel momento della sua maternità che Bona incentiva le sue “foderografie”, le opere-tessuto con cui dipinge e che, come vediamo nella mostra di Orani, raccolgono ispirazione anche da Burri nei primi anni 60, con composizioni materiche- astratte, per poi evolvere verso una figurazione mitopietica che ha qualcosa di primitivo e richiama certe forme di Klee (come nello straordinario Trittico della nascita che unisce nel quadro un segno tribale, un pensiero animistico, dove i fantasmi che ossessionano Bona culminano quasi nel feticcio “bambino”, col riferimento alla Mater del medioevo cristiano, la sua ieratica frontalità che espone sul grembo il figlio divino).

Di lei hanno detto poeti come Francis Ponge e Giuseppe Ungaretti, pittori come Severini, scrittori come Paz e Calvino. Ma chi si è più avvicinato all’essenza “primitiva” dell’immaginario di Bona, da intendersi come terra vergine, per quanto assediata dagli spiriti maligni della modernità che premono dai confini esterni alla sua psiche, è Alain Jouffroy nel 1972, quando osserva che l’artista «non avendo mai aderito a un sistema formale, è passata da una concezione tutta italiana della pittura metafisica a ricerche più parigine di materie e texture, fino alla sua trovata dei tessuti, o piuttosto questa lingua di cuciture, fodere e tagli che l’avvicina nuovamente alla pittura italiana (quella di Baj in particolare)… La mostruosità dei personaggi rinvia, in Bona, a una visione tutta barocca, in cui il circo risuona delle molteplici e invisibili tragedie della vita sociale».

Il riferimento a Baj è palmare nel ritratto, piuttosto lubrico, intitolato Monsieur Teste, che vuole essere appunto l’effigie teratomorfa del pittore dei “Generali”. La donna- escargot, come comincia a pensarsi Bona negli anni 60, è l’ermafrodito che trascina sulle spalle la sua casa-memoria (la spirale della chiocciola). Le sue antenne captano i sogni ipnotici secondo la visione onirica surrealista. E il ritrarsi o l’erigersi delle antenne è un segno sia del perturbante che l’artista-lumaca coglie nell’aere dove fluttuano i sogni, sia un rivelatore erotico. Il viaggio in India è anche una risalita ai simboli della memoria, del tempo e della coscienza preculturale.

Chimera mai raggiungibile perché sul corpo come nella psiche si vedono i solchi, i relitti, le cose trovate, senza alcuna premeditazione; sono in realtà pietre celesti cadute sulla nostra terra, così che, scrive André Pieyre de Mandiargues, il tessuto della memoria agisce su di noi come un principio vegetativo. Il tema ricorre in una serie di acrilici del 1968, L’Univers est serpent, dove ciclico, mostruoso e fatale diventano materie di una tessitura che imbriglia i mali del mondo. Bona ha una mente molteplice, che tiene insieme vari momenti e linguaggi della storia dell’arte: la materia informale, l’Art brut di Dubuffet, l’onirico della Metafisica e poi della pittura postmoderna (Ontani, per esempio, nel Canto della creazione, ma anche Fabrizio Clerici; e transavanguardisti come Clemente); tutto, suggerisce Altea, verte verso una reintegrazione degli stati naturali: uomo e animale si trovano, come fossili, proiettati nelle sfere vegetale e minerale.

E il quadro è lo spazio del sogno che lavora come wunderkammer. Se nel 1970 deve curarsi con gli psicofarmaci, subendo vari ricoveri in ospedale, il confine fra sanità e malattia, come scrive Antonella Camarda, è una forma di pazzia sana, quella ribellione che mi ricorda, a suo modo, la tenacia di Artaud. Non finzione, ma erosione dello spazio di realtà nella quale ci rinchiudiamo, un recinto della normalità che, per tanti di noi, è sinonimo di salute. L’ultimo decennio di vita, gli anni 90, sono per Bona una rivisitazione di se stessa e della memoria, con autocitazioni (l’Autoritratto del 1952 ritorna in quello del 1994), dove pittura e tela sono ormai in simbiosi. E questa mostra è soltanto il buon inizio di un lavoro critico ancora da svolgere sulla dimensione alchemica scritta nella stessa femminilità di Bona.

avvenire.it

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