Mistero Pirosmani. Pressoché sconosciuto tanto al grande pubblico quanto a quello degli esperti, in Georgia, la sua patria, è considerato un eroe nazionale. “Artista per artisti”, è emerso e riaffondato più volte sotto la linea del tempo culturale. Alla favola triste dell’amore per la ballerina francese Marguerite è ispirata “Un milione di rose rosse”, una delle più fortunate canzoni pop dell’età sovietica. Pittore autodidatta di insegne di negozi e quadri da osteria, che scambiava le sue opere per vitto e alloggio, espose a Mosca con Malevic e Chagall. Carattere scontroso e orgoglioso del proprio lavoro, morì nel 1918 in povertà assoluta a Tbilisi, nelle cui strade compariva e spariva come un fantasma.
Non stupisce che attorno a lui si costruito rapidamente un mito. A Niko Pirosmani (Nikoloz Pirosmanishvili, o Piromanashvili, nel suo nome completo) la Fondazione Beyeler di Basilea dedica una mostra, la più completa mai realizzata a livello internazionale, fondamentale per restituire alla conoscenza di tutti questo grande artista, ma anche per ricondurne la figura alla reale dimensione storica, impresa resa difficile dai pochi e frammentari documenti e dalle testimonianze entro cui è difficile scindere verità e leggenda.
Pirosmani fu “scoperto” nel 1912 dai modernisti georgiani, che di ritorno da Mosca ne videro i quadri in una delle dukhan, le taverne che a Tbilisi avevano la funzione svolta in Europa dai café. Quegli artisti riconobbero in lui un “primitivista” e un primitivo in sé. Questo aspetto ha gettato una prospettiva duratura sull’artista: un nuovo Rousseau il Doganiere, parente stretto di Cézanne e Matisse, precorritore di movimenti come dada e surrealismo. Ma Pirosmani è una sfida per le abitudini della critica. Le sue immagini all’apparenza semplici si dimostrano complesse nelle strategie compositive e nella tecnica esecutiva. Sono popolate da animali come cervi, vacche, leoni, aquile, cinghiali dominati tutti da una totemica giraffa. E poi banchetti e feste. Ritratti e immagini di figure storiche e leggendarie. Madri che allattano. Pescatori. Battute di caccia e scene militari. Paesaggi notturni. Nature morte. Ci sono dentro la pittura di insegne e quella devota (si respira un’aria di famiglia con la pittura popolare, insieme mistica e narrativa, che ha avuto in Europa una storia peculiare negli ex voto), come anche i lubki, le stampe popolari russe. Ma Pirosmani è pittore colto. Ha una vita borghese alle spalle, conosce bene la poesia georgiana antica e contemporanea. Ed è un artista che sa guardare. In catalogo la storica dell’arte Ana Shanshiashvili ricostruisce la vastità delle fonti iconografiche di Pirosmani: fotografie, cartoline, affreschi, lapidi ma anche tappeti, tovaglie stampate e oggetti d’uso, come l’argenteria del XIX secolo: vassoi e coppe degli orefici di Tbilisi presentano infatti un repertorio di immagini fortemente affine a quello dell’artista. « L’arte pittorica di Pirosmani – osserva Shanshiashvili – mescola le tradizioni estetiche dell’arte medievale e dell’arte popolare».
Pirosmani si inserisce nel percorso di una tradizione locale, propria del Caucaso, collocata ai margini estremi della sfera bizantina e in contatto con la tradizione persiana. Le sue immagini appaiono dunque come la manifestazione di una Nachleben warburghiana, la sopravvivenza di forme simboliche incistate ai fondamenti della memoria collettiva nazionale – e che restano a uno sguardo occidentale (ma non solo, a causa di lunghi decenni di sovietizzazione dell’area) di difficile accesso. È evidente come questa dimensione insieme colta e popolare sia intrisa di religiosità. I soggetti, per quanto “laici”, contengono in gran parte una memoria sacra: ultime cene, ingressi a Gerusalemme, cerve alla sorgente, agnelli… Nel medesimo tempo l’artista registra però i vettori delle trasformazioni portate dalla modernità in una Tbilisi che vive la sua Belle Époque: la teleferica, il café chantant... L’uso stesso della fotografia come fonte radica Pirosmani nel suo tempo. La mescolanza dei costumi (l’artista stesso si sarebbe sempre vestito alla europea) rivela la complessità di questa geografia culturale.
Niko Pirosmani potrebbe essere indicato come un campione della maladresse maritaniana, la goffaggine (cercata, nei pittori che arrivano dall’accademia) capace di aprire lo spazio della poesia e dello stupore, ma bisogna intendersi: non c’è nulla in Pirosmani di “maldestro”, piuttosto la cura tecnica è altissima. A colpire in questi dipinti è l’integrazione del fondo nel corpo dell’immagine, come nel Pescatore in camicia rossa o nella straordinaria natura morta in cui fluttuano come in un sogno pesci, quarti di bue, spiedi, bottiglie, vassoi di pere, cipolle, senza preoccupazioni di scala. Pochi precisi colpi di pennello evocano la figura dal nero, che può essere sfondo, primo piano, volume, chiaroscuro. Il fondo scuro abbassa tutti i toni e colloca ogni immagine in un crepuscolo o in un plenilunio. Questo nero, che è quello della tela cerata usata come supporto, priva di preparazione, è il segreto ipnotico della pittura di Pirosmani. Una non-luce misteriosa, analoga dell’oro dell’icona. Un nero come da una profondissima notte, nero come da un sogno. La continuità di fondo e corpo, persino la consustanzialità di fondo e corpo, è la continuità dell’essere.
Pare interessante allora capire in che termini si possa parlare di modernità per Pirosmani. Anzi in un certo senso la sua arte mette in crisi ciò che siamo abituati a considerare come modernismo, ossia un superamento dei canoni dell’arte occidentale così come li aveva disegnati la tradizione storiografica: perché il canone è una scelta, non la totalità della storia. Pirosmani avrebbe usato per sé questo aggettivo, “moderno”? E “tradizionale”? Certamente Pirosmani dipinge in termini comprensibili al suo pubblico principale, osti e frequentatori di taverne, che lo apprezza altamente. Il suo dunque è un linguaggio condiviso negli assunti culturali e nei portati estetici. Solo che Pirosmani lo interpreta con una capacità immaginativa e una sprezzatura tecnica alle quali i suoi colleghi più diretti, gli altri pittori di dukhan, non sono in grado di accedere. Una tecnica costruita da solo, con l’intelligenza dell’occhio, che cancella ogni traccia di ingenuità dai suoi quadri. In un certo senso l’esperienza di Pirosmani sembra dirci allora che la modernità non è un problema intrinseco al linguaggio o all’idea, ma dipende dalla direzione impressa dallo sguardo all’immagine. O forse, ancora, aveva più semplicemente ragione l’oste Bego: «C’era un angelo nel suo pennello».
Basilea, Fondation Beyeler
Niko Pirosmani
Fino al 28 gennaio
avvenire.it
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