Nell’anno del centenario, 1990, accompagnato da Maria Teresa, l’unica sorella superstite con cui Morandi visse in casa con la madre, entrai nel leggendario civico 36 di via Fondazza per respirare quell’aura che ancora circondava oggetti, vasi e bottiglie, sedie e tavoli, e il letto dove il pittore dormì avendo eletto quelle stanze una dimora di vita e di lavoro; il che parlando di Morandi è come se si dicesse la stessa cosa. Il monaco, così lo avevano soprannominato per la silenziosa ascesi verso la luce e le sue ebbrezze scandite sul movimento del globo terrestre. Leggenda vuole, ma con Morandi tutto pare sigillato in un tempo che decanta eppure anche conferma la verità dei fatti, che se stava dipingendo un quadro e non riusciva a finirlo con la luce su cui aveva avuto le sue percezioni cromatiche, il pittore lo metteva da parte per riprendere a lavorarci l’anno dopo nello stesso giorno e nelle stesse ore. Sappiamo bene che il nostro spazio e le luci naturali non sono mai identici a se stessi da un anno all’altro, la realtà non si ripete mai, certo non la luce che può avere la stessa incidenza ma non ha mai le stesse condizioni atmosferiche, e d’altra parte, anche lo spazio, pur essendo più stabile non resta uguale a se stesso: basta un velo di polvere a cambiare luci e percezione, per non dire degli oggetti su cui la luce si riverbera.
La mitologia di Morandi è fatta di cose minime, quelle di un’esistenza eccentrica alla storia apparentemente: ciò che governa quel mondo quasi archeologico è il tempo che l’uomo tenta di accelerare o di rallentare, secondo le rotazioni che la terra compie per reggersi nel suo equilibrio attorno al sole. La mostra che Milano dedica ora al maestro bolognese, a cura di Maria Cristina Bandera (Palazzo Reale, fino al 4 febbraio), è fondata su una conoscenza che mantiene intatta la mitologia e ne sdipana le ragioni storiche che sono strettamente intrecciate a quelle di poetica. Quanta tensione c’è dietro quell’apparente silenziosa stabilità di forme che si ripetono talvolta con poche variazioni? È una volontà poetica quella di limitarsi nei mutamenti di composizione.
Morandi cerca di nascondersi: «Lavoro costantemente dal vero», disse nel 1930 rispondendo a un questionario di Giovanni Scheiwiller; e qualche anno dopo, nel 1937, durante una intervista pubblicata dal “Frontespizio”, afferma che il pittore deve «toccare il fondo, l’essenza delle cose». Erano anni dove in Europa la fenomenologia andava per la maggiore e il realismo che si affermava nel ragionamento aveva ben poco a che fare col realismo pittorico che si opporrà all’astrattismo del dopoguerra. Uno degli equivoci che perdurò e forse ancora è diffuso, affonda le sue ragioni nella dialettica tra il “cosa” e il “come”. Lionello Venturi, cercando il segreto della pittura morandiana scoprì, in un certo senso, l’acqua calda: «Pochi motivi di cose ordinarie, qualche bottiglia o qualche casa in collina, perché gli importa non ciò che rappresenta, ma come dipinge». È un discorso fasullo, per quanto piaccia ai critici moderni. Possiamo dire che quadri come la Natura morta del 1916, quella dell’ovale 1919, o quelle della Fondazione Longhi del 1924 e del 1937, e così via, oppure, i bellissimi Paesaggi tra gli anni Trenta e Quaranta, come quello del 1932, sorta di lacerto staccato direttamente da muro oltre ogni reminiscenza cezanniana, si potrebbe dire che tutte le opere nascano nella piena indifferenza del pittore bolognese al referente che dà il soggetto, dichiara il fenomeno, al quadro.
Quando dall’America scoprono che esiste, e James Thrall Soby lo paragona all’olandese Mondrian (l’avanguardia che genera l’icona di una nuova religione visiva, astratta ma sulle strutture concrete della realtà: un tema che ha sedotto anche non pochi cattolici fin da quando è diventato pleonastico considerare l’immagine nelle chiese come biblia pauperum che insegna la storia della salvezza), ecco, in quel momento Morandi si stanca di essere tirato per la giacchetta e gioca un’altra delle sue pillole aforistiche: «Non vi è nulla di più astratto del reale». Ci si intenda una volta per tutte: Morandi non lavora dentro generi consolidati nei secoli moderni come nuovi luoghi rappresentativi oltre i generi della tradizione: il quadro di storia, quello parallelo di iconografia religiosa, il ritratto e il nudo. Tutto per lui si risolve in “architettura” di forme e di colori, e come architetto che compone con la luce, un paesaggio, i muri di un cortile, bottiglie e vasi, tutto lavora sugli stessi principi. Tanto che quando si legge ripetutamente “natura morta” o “paesaggio” viene quasi da pensare a una smentita ironica: se tutto è natura morta o paesaggio, niente lo è, tutto è altro.
Era lontanissimo Morandi da quella “attualità aggressiva” di cui parlava Arcangeli per dire che era artista immerso nel suo tempo senza essere d’avanguardia; e si potrebbe anche mettere in campo una definizione di Edoardo Persico, “storicità della fantasia”, che aggiornando Croce offre anche il senso con cui risolvere il quoi di Baudelaire. Morandi è troppo antico e troppo moderno per perdersi nelle discussioni che segnarono gli anni del Dopoguerra dove la sua fama cresceva con valori di mercato altissimi (alla Biennale di Venezia del 1948 gli conferirono il Primo premio). Flavio Fergonzi nel catalogo della mostra (24 ore Cultura) sviluppa alcune interessanti questioni legate alla valorizzazione di mercato della pittura di Morandi dalle prime quotazioni a quelle della piena maturità, con opere inizialmente vendute a prezzi bassissimi, che restano tali un po’, ma grazie la malleveria di alcuni grandi collezionisti (fra tutti il critico e imprenditore di spezie Lamberto Vitali, che curò anche una antologia della critica morandiana) e dei letterati amatori d’arte che, come sottolinea lo storico, comprendono il valore di Morandi prima della critica paludata (i Longhi, i Brandi, gli Argan), decuplicano il loro valore economico. Il pittore, che nell’animo resta un dotto provinciale, si schemisce quando nel 1952 gli allungano un assegno da centomila lire, perché lo considera “troppo”, pensando forse che riduca l’importanza del valore formale ed estetico, trasformando il quadro appunto in un bene d’investimento. E ci vuole l’antieroico minimalismo di un artista come Morandi per rispondere all’acquirente: «Sarà necessario che c’intendiamo perché non mi è possibile accettare tanto denaro per un dipinto ».
Morandi, da ieratico provinciale qual era, sapeva bene che l’aura del denaro avrebbe ucciso quella dell’arte, come vediamo oggi quando un’opera è più un idolo o un feticcio della ricchezza che un valore ascetico di bellezza intangibile di fronte alle profferte del mercato e alle dispute dei magnati dell’alta finanza internazionale. Sono cambiati i contesti, ma il saggio di Fergonzi, illuminante come “caso di scuo-la”, dimostra che se prima i collezionisti bolognesi e toscani, e poi negli anni Trenta e Quaranta quelli milanesi e quelli americani, portano Morandi in alto, accanto a un altro mito italiano, Fontana (ma questo è forse più vero con le aste internazionali dagli anni Ottanta in poi), tutto ciò ormai è indipendente dalle investiture che il pittore dava alla sua opera, quadro dopo quadro, da onesto lavoratore che tutti i giorni continua a fare ciò che sa fare. Vorrei dire che questa mostra milanese, molto bella anche perché concepita con opere che testimoniano la lungimiranza del collezionismo, in particolare milanese che si riversa con le donazioni dentro le istituzioni museali, ha una sua distillata misura che fa vedere il sottofondo astratto della poetica morandiana.
Un pittore quasi plotiniano nel modo con cui celebra l’“essenza delle cose” nella trasfigurazione della luce; e anche quando negli anni Trenta i confini su cui le forme dialogano sono più febbricitanti, meno metafisici, e la matericità degli impasti potrebbe far pensare a una incertezza di Morandi sui fini della sua pittura – uno dei motivi del dissidio con Arcangeli –, egli invece non ha affatto perso il controllo della barca, che veleggia sempre e fino alla fine verso orizzonti astratti come architetture moderne. Certo è che Morandi fu sempre un costruttore di forme, un erede di quella sintesi di forma-colore che Longhi aveva colto nella novità di Piero della Francesca (venerato dal bolognese), ma plastico come Giotto. E la sostanza pittorica si arricchiva degli aggiornamenti della seduzione materica derivata dal Seicento, Chardin appunto, nel gioco delle ombre che diventano le presenze attive nella pittura morandiana (come le bagnanti di Cezanne in uno sfondo teatrale). Si cadrebbe nell’errore se si scomodasse il termine “leggerezza”: Morandi è come se dipingesse non sul muro, ma dentro, usando il colore come intonaco nel quale impastare le sue “figure”: torri, come quelle che in numero ben maggiore di oggi aveva Bologna nel Medioevo, cupole e volumi di chiese, muri di cortili che disegnano spazi ordinari ma la cui solida opacità si accende di una luce interna che sarebbe piaciuta al Proust di Bergotte. Una diversa scena del mondo, ma non priva di senso drammatico.
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