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Biennale Venezia. Padiglione vaticano: quello che c’è da sapere, dalla prenotazione alla visita

 
L'installazione di Sonia Gomes nella cappella del carcere femminile della Giudecca, tappa finale del Padiglione della Santa Sede alla 60a Biennale di Venezia - Ansa

Da oggi 20 Aprile è aperto al pubblico il Padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia. Intitolato “Con i miei occhi” e curato da Bruno Racine e Chiara Parisi, è ambientato all’interno della Casa di reclusione femminile della Giudecca. Si tratta di un percorso unico e senza precedenti: le opere sono il frutto dell’incontro tra gli artisti e le ottanta detenute e la stessa visita è un incontro tra il pubblico avviene e le ospiti dell’istituto di pena.

Come si accede al Padiglione vaticano?
Proprio per la particolarità del contesto, la visita richiede di essere preparata in anticipo. Non è possibile presentarsi semplicemente davanti all’ingresso (all’indirizzo Fondamenta della Convertite 713, Giudecca) ma è necessario prenotarsi su una piattaforma web. Ogni giorno è previsto l’accesso di quattro gruppi di 25 persone, alle 11, alle 12, alle 15 alle 16. Il Padiglione vaticano è aperto tutti i giorni tranne il mercoledì, con una chiusura straordinaria domenica 28 aprile, in occasione della storica visita di papa Francesco, la prima di un pontefice in una Biennale. Non è possibile portare all’interno effetti personali e cellulari (di fatto è una vera e propria visita in carcere), che verranno riposti al momento della accettazione dentro cassette di sicurezza. L’esclusione dei cellulari, oltre a essere una questione “tecnica”, è anche provvidenziale. “Con i miei occhi” richiede una partecipazione totale e la disponibilità a condividere un’esperienza forte. L’assenza dello smartphone obbliga a una immersione con tutto il corpo. A guardare con i propri occhi, lasciando fuori dalla porta ogni giudizio e pregiudizio, per non riprenderlo più.

Come avviene la visita del Padiglione?
Si accede all’interno della Casa accompagnati dal personale penitenziario e si viene accolti da un gruppo di detenute, vestite con una divisa bianca e nera disegnata e realizzata da loro stesse nei laboratori del carcere. Saranno loro ad accompagnarci, restituendoci con i loro occhi l’esperienza dell’arte, le domande che suscita e il suo potenziale liberatorio. È importante sapere che è possibile, anzi auspicabile, dialogare con le guide ma è vietato fare loro domande sui motivi della loro reclusione. Proprio a motivo della relazione che si instaura tra visitatori e ospiti, ogni visita è destinata a essere unica: quello che leggerete qui sono le parole raccolte nelle visite dei giorni inaugurali.

Cosa accade durante il percorso?
La sola opera visibile dall’esterno è il grande dipinto di Maurizio Cattelan sul muro della cappella, la riproduzione della fotografia di due piedi sporchi e polverosi. È un’iconografia allusiva, che rimanda istintivamente al Compianto sul Cristo morto di Andrea Mantegna e ai piedi dei pellegrini di Caravaggio (o, perché no, ai piedi di Cristo lavati dalla Maddalena, la santa a cui è dedicata la cappella) ma l’artista non ha cercato una precisa corrispondenza, lasciando che l’opera risuoni in modo diverso in ognuno. Sono piedi che proiettano il corpo all’interno del carcere. Per una delle ospiti “i piedi, insieme al cuore, portano la stanchezza e il peso della vita”.

Il primo ambiente a cui si accede all’interno della Casa è la caffetteria, in cui sono esposte opere di Corita Kent, una suora americana che negli anni 60 e 70 realizzava esplosivi manifesti pop su temi sacri e contro la guerra e la violenza. Segue un lungo corridoio all’aperto con una serie di lastre di lava sulle quali l’artista Simone Fattal ha dipinto poesie e testi, brucianti, delle detenute: “I nostri sentimenti sono scritti qui – commentano a voce – un pezzo di noi è scritto su queste opere d'arte”.
Al termine del corridoio, fissato a una torretta di guardia, si trova la prima delle due opere del collettivo Clarie Fontaine. È un neon che rappresenta un grande occhio attraversato da una sbarra. Per la nostra guida simboleggia “le cose che non si vogliono vedere. Le persone preferiscono chiudere gli occhi, o peggio guardano, ma hanno una cecità dentro”.
Grosse chiavi di ottone aprono e chiudono pesanti porte blindate. Una stanzetta si apre sull’orto attraverso un finestra: “Guardate che bello – dice la nostra ospite mentre la spalanca – è la sola senza sbarre di questo luogo. Qui possiamo sognare altre cose; possiamo quasi dimenticare di essere in prigione”. Si arriva nel cortile dell’ora d’aria, dove campeggia un secondo neon di Claire Fontaine: “Siamo con voi nella notte”. È la ripresa di una scritta apparsa fuori dalle carceri italiane negli anni Settanta, in sostegno dei detenuti per ragioni politiche, ma portata all’interno ha una potenza inedita. “Di notte illumina tutto di blu, riempie le nostre celle”, osserva la nostra guida. Ma è anche un messaggio rivolto ai visitatori, una prospettiva ambivalente. Il carcere cessa di essere un mondo separato dal mondo.
Da un piccolo giardino con giochi per i bambini, allestito quando nel carcere c’era una sezione per detenute con figli, si accede alla saletta dove è proiettato il cortometraggio dell'artista Marco Perego e dell’attrice Zoë Saldaña, sua moglie. È il toccante racconto dell’ultimo giorno di una donna da detenuta, girato all’interno della Casa della Giudecca con la partecipazione delle ospiti, che così si mettono a nudo. La star di Hollywood osserva che il lavoro è stato concepito “non come un documentario ma abbiamo incoraggiato le detenute a fare un'opera d'arte con noi”. Questo è vero per tutto il percorso: “Il Padiglione della Santa Sede – sottolineano le donne che ci accompagnano – ci ha dato la possibilità di essere protagoniste e non solo spettatrici passive, di essere parte di qualcosa, anche se di temporaneo. Ci siamo messe in gioco e abbiamo vinto. Vincere significa sentirsi liberi, anche se per un istante”.

Siamo all’ultimo tratto del percorso. In una piccola stanza bianca troviamo appesi una serie di ritratti realizzati da Claire Tabouret a partire dalle foto delle detenute da bambine. Immagini serene, uguali a tante altre a noi famigliari, di vite che appaiono ancora tutte da scrivere. “Questa sono io con mia madre a 11 mesi – ci fa notare con la voce rotta una delle nostre guide – sono i miei primi passi”. Da lì si accede alla cappella. Un edificio quadrato, alto, dalla decorazione ottocentesca. Dal soffitto sono sospese sulle nostre teste le morbide e colorate sculture di Sonia Gomes. C’è chi farà poi notare che assomigliano alle corde di lenzuola per evadere. Nel gruppo c’è anche l’artista, che ha seguito per tutto il tempo in silenzio. Abbraccia le accompagnatrici e prende la parola: “È uno dei momenti più emozionanti della mia vita, un punto irripetibile della mia carriera. Mi sono resa conto grazie a questa installazione di quale sia il senso dell’arte. Queste sculture sono per ricordare alle donne qui residenti di guardare in alto”. Alziamo anche noi lo sguardo e l’occhio cade sopra l’iscrizione incisa sull’architrave di un coretto: REMITTUNTUR EI PECCATA MULTA QUONIAM DILEXIT MULTUM. I suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato.
Restiamo soli. Usciamo, dietro di noi si chiude l’ultima porta.

avvenire.it

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