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La mostra. Gli antichi papiri di santa Caterina


Ci sono storie che si tramandano nei secoli e che sconfinano nella leggenda. Esemplare è il caso di santa Caterina d’Egitto, una delle sante più venerate al mondo, a cui sono intitolate chiese addirittura negli Usa e nelle Filippine, luoghi che Caterina nemmeno si immaginava esistessero. Senza andare troppo in giro per il mondo, vicino a Firenze, si trova l’Oratorio di santa Caterina delle Ruote, dove è conservato un ciclo di affreschi del 1300 dipinti da Spinello Aretino, che raccontano le vicissitudini della santa, fra cui il terribile supplizio delle ruote a cui fu sottoposta (e per cui è ancora oggi famosa). In questo ambiente suggestivo, dove è narrata per immagini la storia della giovane Caterina, sarà allestita una mostra di antichi papiri, testimonianze provenienti per la maggior parte dal luogo e dall’epoca in cui “visse” Caterina: l’Egitto attorno all’anno 300 d.C. Le virgolette sono d’obbligo in questo caso, perché le notizie storiche su questa santa sono così incerte, che gli studiosi nel XX secolo (e per primi i Bollandisti, gli 007 dell’agiografia cattolica) hanno messo in discussione la sua esistenza. 

La stessa Chiesa in anni recenti ha segnalato che le fonti sono poco attendibili: quindi l’esistenza di santa Caterina d’Egitto è problematica ed è possibile che si tratti di una storia fantastica che si perde nella notte dei tempi. Invece il problema dell’esistenza non si pone per l’Egitto di quei tempi, cioè la società attiva verso il 300 d.C. in particolare nella città di Alessandria, metropoli già famosa e illustre per molte ragioni (basti citare la biblioteca e il faro), prima di essere la patria della nostra santa Caterina. Ecco l’origine del titolo della mostraSanta Caterina d’Egitto. L’Egitto di santa Caterina, allestita proprio all’interno dell’Oratorio di Bagno a Ripoli, che sarà aperta da domani all’11 giugno 2017. L’esposizione, curata dall’Istituto papirologico “Girolamo Vitelli” dell’Università di Firenze, raccoglie documenti risalenti proprio al III e IV secolo d.C. Per quest’epoca i testi scritti su papiro sono abbastanza numerosi e costituiscono fonti di prima mano su molti aspetti della vita quotidiana: per esempio possiamo sapere quanto costava una casa, che cosa portava in dote una giovane moglie, qual era il programma degli spettacoli all’ippodromo e possiamo avere informazioni su tanti altri dati concreti (compreso, ovviamente, quante erano le tasse da pagare, allora come oggi argomento spinoso per tutti). Inoltre abbiamo anche molte informazioni sulla vita culturale dell’Egitto in questo delicato periodo di transizione fra paganesimo e cristianesimo: sono gli anni delle ultime persecuzioni nei confronti dei cristiani, che precedono di poco l’editto di Costantino (313 d.C.) che concederà la libertà di culto in tutto l’impero romano, di cui l’Egitto all’epoca faceva parte.

Come risulta da diverse testimonianze non ci furono solo scontri (ancora circa un secolo dopo, nel 415 d.C., sempre ad Alessandria, la filosofa Ipazia venne uccisa durante tafferugli fra opposte fazioni), ma anche incontri: nelle aule dell’università cristiani e non cristiani insegnavano e studiavano uno accanto all’altro, confrontando le loro idee e le loro fedi. Libri simbolo della cultura greca, come l’Iliade con tutti i suoi dei, e libri contenenti riflessioni sulla nuova religione, come i trattati dei padri della Chiesa, erano scritti e letti dalle stesse persone: in mostra sono visibili testi greci originali appartenenti ad entrambe queste categorie. La figura di santa Caterina, come ci è descritta nei racconti quasi leggendari molto diffusi dal medioevo in poi, è perciò collocabile in un contesto storico molto preciso attraverso i papiri, ma anche attraverso i reperti archeologici, cioè oggetti concreti, come vestiti, contenitori e giocattoli risalenti a circa 1700 anni fa, e recuperati da scavi in Egitto. Si tratta di prodotti simili a quelli con cui una ragazza, ricca, elegante ed istruita, come Caterina, avrebbe potuto avere a che fare: reperti preziosi e testimonianze uniche che gli esperti del-l’Istituto papirologico di Firenze sono in grado di connettere fra loro e di collocare nello stesso contesto sociale, religioso e storico. Il fascino della storia, insomma, prima che si trasformi in leggenda. Un episodio su tutti: il momento terribile del supplizio inflitto alla giovane, il tormento delle ruote, è raccontato attraverso le immagini dei dipinti dell’Oratorio ed è parallelamente narrato attraverso le parole di un frammento di papiro in greco del 500-600 d.C. Ecco perché venire a visitare una mostra di questo tipo: per comprendere il valore di reperti unici e non sempre accessibili (come la trentina di papiri greci esposti e gli altrettanti oggetti provenienti da scavi archeologici di solito chiusi in magazzini) e per compiere un viaggio in un mondo lontano, ma ricostruito in tutti i suoi vividi dettagli e secondo angolature differenti.
da Avvenire

Pittura. Plautilla, la suora «pictora»


Ne scrive Vasari, e dunque dobbiamo drizzare le antenne quando leggiamo di una certa «Suor Plautilla». Di lei dice che era monaca e priora del monastero di Santa Caterina da Siena a Firenze, su piazza San Marco, e aggiunge che «cominciando a poco a poco a disegnare et ad imitar coi colori quadri e pitture di maestri eccellenti ha con tanta diligenza condotte alcune cose, che ha fatto maravigliare gl’artefici». Nota poi che era maestra nella miniatura, tanto da far cose più belle di quegli artisti da cui prendeva esempio. Il fatto è che Plautilla Nelli, al secolo Polissena de’ Nelli (1524-1588), si formò da autodidatta e continuò, vestendo molto presto l’abito di suora domenicana, a esercitare il suo talento di pittrice assieme alla vocazione religiosa. Molto celebrata già in vita – è probabile che facesse a tempo a leggere l’elogio di Vasari – di lei però si perde un po’ notizia fra Sei e Settecento, e verrà recuperata solo a partire dall’Ottocento. Non è un destino solamente suo. Diverse sono le artiste rimaste per secoli in ombra nelle memorie degli storici o addirittura cadute nell’oblìo. Il caso emblematico oggi è Artemisia Gentileschi la cui riscoperta è diventata una sorta di vessillo della riscossa femminista, ma è appunto l’esempio clamoroso di un’avanzata femminile nell’arte che conta altri nomi: nell’ambito bolognese, Properzia de’ Rossi, grande scultrice rinascimentale sulla quale lo scorso anno è uscita una monografia; dopo di lei Lavinia Fontana e la sublime Elisabetta Sirani, che nel suo atelier si circondò di allieve e collaboratrici, come Ginevra Cantofoli il cui corpus è stato ricostruito in anni recenti. A parte la figlia di Tintoretto, Marietta, morta prematuramente; e ancor prima la figlia di Paolo Uccello, Antonia la “pittoressa”, anche lei suora carmelitana, si stanno ritrovando le tracce di Lucrezia Quinistelli, allieva di Alessandro Allori, della discepola di Tiziano, Irene di Spilimbergo, mentre alle cronache sono ben note Sofonisba Anguissola e Fede Galizia. Ma anche all’estero non mancano artiste che hanno fatto concorrenza ai colleghi maschi: Lavinia Benning Teerlinc, miniaturista; Caterina van Hemessen; Roldana, alias Luisa Ignatia Roldan scultrice spagnola vissuta fra Sei e Settecento e autrice di veri capolavori; lo stesso si potrebbe dire della pittrice sivigliana Josefa de Ayala Figueira morta a Obidos, in Portogallo, nel 1684; più o meno nella stessa epoca in Francia si distinse per le sue straordinarie nature morte la pittrice Louise Moillon; e se vogliamo concludere questo elenco provvisorio, a monte di tutte sta quella Caterina de’ Vigri, clarissa bolognese vissuta nella parte centrale del XV secolo, che oltre a essere badessa era assai colta e aveva fin da giovane appreso a Ferrara l’arte della miniatura e della copiatura. 

Dunque Suor Plautilla. Un simposio nel 1998, a Fiesole (gli atti uscirono un paio d’anni dopo), rilanciò la misconosciuta pittrice; poi ancora un volume di saggi nel 2008; ora la prima mostra a lei dedicata, agli Uffizi, a cura di Fausta Navarro con l’apporto di Catherine Turrill Lupi, fra le maggiori studiose della “pictora” (come talvolta si firma). È stata proprio Catherine Turrill a fornirmi l’elenco esatto delle opere conosciute di Plautilla: comprese quelle indicate in documenti ma perdute o ignote persino nel soggetto, quelle attribuitele nell’Ottocento ma che oggi le sono state tolte e assegnate ad altri pittori, e quelle che sono passate in asta nel Novecento sotto il suo nome su cui però non c’è accordo: a voler stare larghi si tratta di 40-50 opere, ma è un lavoro in fieri , suscettibile, sottolinea la studiosa, di continue aggiunte e cambiamenti perché non esiste ancora un catalogo esaustivo dell’opera di Plautilla.

Naturalmente, viene la curiosità di cercare tracce della suora pittrice fuori dai nostri confini, vuoi anche per i rami europei dell’ordine domenicano; e allora si scoprirà che Plautilla nell’Ottocento non era un nome del tutto dimenticato: un rapido sondaggio nella pubblicistica francese, per esempio, testimonia della sua fama. Per esempio, in un numero della “Gazette des Beaux-Arts” del 1860, Léon Lagrange, compagno di studi di Hippolyte Taine e autore di saggi su Pierre Puget e Joseph Vernet, parla Du rang des femmes dans les arts, e cita appunto Marietta, Lavinia, Elisabetta, Artemisia e... Plautilla. Le chiamo per nome, come vorrebbe Vasari in segno d’eccellenza artistica. Qualche lustro dopo, nel 1874, il Grand Dictionnaire Universel di Pierre Larousse registra il nome di Plautilla e le dedica una trentina di righe (non poche tutto sommato): si dice di questa «donna interessante, che ha vero talento». Si aggiunge che non potendo invitare uomini a posare per le sue opere, quando doveva eseguire figure maschili si avvaleva dei disegni lasciati da Fra’ Bartolomeo al convento, e si fa notare che nel Compianto il Cristo sembra ispirato a quello della Deposizione di Daniele da Volterra. Si dice anche che nel disegno delle teste rivela una certa « grace naïve non priva di originalità» e si conclude che nell’insieme mostra una scienza, un vigore e un’audacia non comuni per una donna. A proposito dell’interdetto all’uso di modelli maschili, nel 1827 una guida in francese dell’Accademia fiorentina di Belle Arti, precisa che non potendo servirsi per i suoi quadri di modelli maschi, coinvolge le sue consorelle e per questo i santi «hanno forme e fisionomie femminine». 

La ricostruzione del caso Plautilla è soltanto agli inizi. Ma se è vero che si sentiva la necessità di una mostra che consentisse di vedere l’una accanto all’altra le opere certe e quelle riapparse recentemente e a lei attribuite, è anche vero che questa degli Uffizi è poco più che un antipasto, un assaggio in un pranzo sostanzialmente di magro. Pare che siano mancati prestiti importanti, anche di opere conservate in Italia e custodite da comunità religiose. Come mai? C’è poi da aggiungere che L’ultima cena al Convento di

Santa Maria Novella è in restauro: si tratta, quanto al soggetto, di una delle opere più grandi mai dipinte. IlCompianto è invece al Convento di San Marco, è una delle opere più riuscite di Plautilla, restaurata una decina d’anni fa. Anche le due lunette nel Museo del Cenacolo di Andrea del Sarto con la Consegna del Rosario a san Domenico e di Santa Caterina che riceve la visione di 

Cristo, sono state restaurate nel 2007: di qualità difforme vengono giustamente assegnate a Plautilla e bottega. Infine, le due Annunciazioni: non sono di straordinaria bellezza pittorica, e quella dei Musei Civici Fiorentini per ora è un’attribuzione (Catherine Turrill però è favorevole all’autografia). 

La questione della “bottega” è centrale per dirimere il caso Plautilla, come osservano sia Catherine Turrill sia Fausta Navarro. Fin da piccola eccelle nel disegno (arte che affina potendo avvalersi dei disegni di Fra’ Bartoloneo passati in eredità a Fra’ Paolino e infine al convento della “pictora”); entrando nell'ordine e divenendo priora (tre volte a intervalli prolungati) organizza una vera e propria squadra coinvolgendo le consorelle nel lavoro pittorico, un’opera collettiva al servizio della devozione per Santa Caterina da Siena e, in sovrapposizione, per l’altra santa Caterina, la de’ Ricci, morta a Prato nel 1590, con la quale viene persino a sposarsi nella fisionomia (volutamente).

Organizzando un atelier già moderno nel modus, dove il segno del maestro viene gestito, come oggi nella moda, quasi fosse un brand (interprete supremo del genere fu il divino Raffaello), anche Plautilla realizzò qualcosa di molto simile a una factory dell’immagine devozionale: in mostra troviamo subito dopo alcune miniature a lei attribuite, una batteria di ritratti della “duplice” Caterina (da Siena / de’ Ricci). La santa appare chiusa nel suo abito chiaro, col velo bianco, di profilo con le mani incrociate sul petto che mostrano i segni delle stigmate e portano l'attenzione sul la ferita al costato (tema di dibattito nella Chiesa dell’epoca), tiene in pugno il crocifisso, e versa lacrime. Il suo aspetto non è drammaticamente lacerato, ma come introverso in una meditazione sul dolore di Cristo. Solo le lacrime testimoniano la compassione della santa traslando la percezione della sua sofferenza su quella di Cristo (un interessante gioco di empatia per immagine). La Santa stringe in pugno il crocifisso e in quella posa appare anche Savonarola in una medaglia di Fra’ Mattia della Robbia. La mostra, infatti, vuole illustrare il tema dell’arte e la devozione «sulle orme di Savonarola», il testimone che lega le due Caterine sottintese nei dipinti. 

Come nota Fausta Navarro questi ritratti tutti molto simili (anche se non tutti della stessa qualità pittorica) e vennero realizzati probabilmente a partire da un unico cartone che Plautilla aveva predisposto; a unirli il verde dello sfondo, su cui si spande una luminosità che sembra emanare dal corpo della santa, «come se fossero raggi di luce». Nella bottega o atelier che dir si voglia della priora domenicana si faceva infatti largo uso di cartoni, si ricorreva alla tecnica dello spolvero e al repertorio ereditato da Fra’ Bartolomeo. Forse nella serie notevole dei disegni esposti agli Uffizi c’è soltanto la mano di Plautilla, o forse può esserci, in sottofondo, anche quella di altri, magari qualche abbozzo in quei fogli ereditati su cui lei stessa potrebbe essere intervenuta. Aspettiamo le adeguate conferme dagli storici su questo caso degno di detective come Giovanni Morelli.

Avvenire

#SwissPop Art Mostra. Quando la #Svizzera a sorpresa fece Pop

Ha aperto sabato scorso, sino al 6 agosto, alla Kunsthaus di Aarau – cittadina capoluogo del cantone svizzero Argovia – l’antologica, curata da Madeleine Schuppli, “Swiss Pop Art. Forme e tendenze della pop art in Svizzera dal 1962-1972”. Cinque anni di preparazione, cinquantuno artisti presenti, dai più anziani Jean Tinguely e Friedrich Kuhn, a Markus Müller (1943 Suhr) e Barbara Davatz (1944 Zurigo). Tinguely (Friburgo 1925-Berna 1991) apre con la scultura Frigo Duchamp( 1960) di grande forza espressiva – si dedicherà solo più tardi alle macchine dada e ludiche. Kuhn dalla breve vita (Gretzenbach 1926Zurigo 1972) è la presenza più originale dell’intera mostra. Eccentrico al movimento pop, in polemica si direbbe con il movimento stesso e la “servitù” americana dei contemporanei, Kuhn carica l’immagine di forti venature melanconiche, di ironia e disincanto e inventa forme. Markus Müller – forte anche di una formazione italiana – è, in questa mostra, con Peter Stämpfli (Deisswil/Stettlen 1937) l’artista svizzero più proprio al movimento internazionale.
A Müller e Stämpfli i curatori della mostra dedicano gli spazi più ampi, sia per la loro importanza di merito sia per le dimensioni delle loro opere, sia infine perché le due appartenenze artistiche più esplicite alla poetica pop. Stämpfli più concettuale. Müller più pittore, carico di proprie autonome invenzioni. Qualcosa ancora in questo preambolo per la pittrice Davatz. Barbara Davatz è, non l’unica, ma la più esplicita leader di una pittura swiss pop, di un pop-cartolina elvetica (oh mia patria, oh mia Elvetia) tutto coniugato sulla manipolazione delle icone e loghi abusati dalla folk-art della piccola patria. Boschi carichi tuttavia di inquietudine, montagne, animali da cortile, fattorie immerse nel silenzio e nel mistero. In mostra c’è un polittico della Davatz che si apre con un uomo in costume tradizionale (il trachtpangermanico: calzoni di cuoio, cappello con la piuma eccetera), e procede, con un rovesciamento iconico dell’Heimatschutz, per quadretti con paesaggi, animali da cortile, che diventano immagini cariche di suspense, mondo chiuso, xenofobico, incestuoso anche, anteprima del delitto.
Sì, c’è una “via elvetica” alla pop. È quella della Davatz, di Emilienne Farny che spostatasi a Parigi ne dipinge le periferie con un approccio quasi naif, del più anziano e autorevole Samuel Buri qui presente con le tele condotte per pixel: montagne, montanari nudi e atletici alla Hodler che soffiano dentro il corno della Alpi al sole di un avvenire. Allora, per mettere ordine, c’è voluto un notevole coraggio a imbarcarsi in questa impresa. Se c’è uno spazio del mondo anti- pop questo si chiamerebbe Svizzera, se c’è un assenza di panorama urbano questo è per i laghi, gli alpeggi e per le valli svizzere, le tante tal. Il pop è – di contro – la resa artistica della oggettificazione del mondo, il panorama urbano dove dominano i manufatti d’uso comune (la bottiglia di Coca, la scatola di spaghetti, l’interno dell’automobile, il vagone della metropolitana...) e attorno a loro si genera un racconto, un’epica addirittura, del quotidiano. Lo sguardo – nostro, del pittore – non può che fermarsi sull’artificio. Bob Indiana, artista pop americano in mostra a Locarno, dipinge segnali, frecce, numeri, e dice: «Ci sono più segnali che alberi in America. Ci sono più segni che foglie. Per questo penso a me stesso come a un pittore del paesaggio americano».
Il pop va in parallelo allo sviluppo industriale degli anni Sessanta e lo dipinge. Dopo il rifiuto di ogni dato oggettivo del linguaggio informale, dopo l’insorgenza anarchica e antistorica della fine anni Quaranta e anni Cinquanta (Gorky, Wols, Pollock), l’arte si accende negli anni Sessanta di una nuova rappresentazione della oggettività. L’immagine muta intrinsicamente, alla radice. Il processo di modificazione della immagine del dato reale (lo sguardo attorno a noi) inizia a fine Ottocento con la fotografia, procede con le sequenze del cinema e infine con i frames e la trasmissione per pixel televisiva. Giustamente il catalogo curato dalla Schuppli inizia il racconto-pop nel 1957, con la installazione della televisione in bianco e nero in circoli, luoghi pubblici collettivi, poi a colori nove anni dopo. Molti degli artisti presenti ad Aarau aderiscono sia alle modalità di una “immagine televisiva”, come alle cronache e all’iconologia del tempo. E sono automobili, traffico, frigoriferi, grandi pomodori e pudding. Si partecipa alle cadenze del movimento internazionale ma non se ne vive la condizione.
Sono qui – ma indistinti, usurati dal tempo – gli storyteller, i partecipi della figurazione in voga: l’allunaggio, i piloti dello spazio con caschi e tute, l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, di Martin Luther King, la guerra in Vietnam con pure intense immagini e una impaginazione concitata. In un anfratto della mostra – si snoda per due piani – è collocato un juke-box d’antan: monumentale, simbolo, icona e oggetto del tempo. E sono i Simon&Garfunkel con le musiche per Il laureato, i Rolling Stones, i Beatles con Yellow submarine e Sgt. Pepper,John Lennon con Imagine… Americana e inglese la musica pop così come fu prima di tutto americana e anche londinese la pittura, l’opera pop. Nel 1964 la Biennale di Venezia sancisce la vittoria dell’opera d’arte dell’oggetto sulla pittura esistente (informale, materica, espressionismo astratto). Il padiglione americano è dei grandi artisti pop e il premio della Biennale è per Robert Rauschemberg, caposcuola pop e mediatore. Milano e Parigi da sempre poli di formazione e gravitazione per gli artisti svizzeri – o direttamente negli Usa come per lo scultore Metzler – favoriscono l’approccio al nuovo movimento artistico. Così è per il ticinese Renzo Ferrari (Cadro 1939) formatosi a Milano, presente in mostra con una propria partecipazione alla immagine- oggetto e alla vicenda pop: riflette sulla mutazione bionica della figura umana e sarà questa una costante del suo lavoro.
Avvenire

Nell'Atelier di Reggio Emilia. L'arte che non cancella l'errore

La Fenice inclina il lungo collo assumendo la posizione inconfondibile di tanti bestiari medievali. Un’immagine così non sfigurerebbe nel Libro di Kells, il capolavoro della miniatura irlandese. Invece è stata dipinta di recente qui, a Reggio Emilia, da due giovani artiste che si chiamano Giulia Zini e Laura Aurelio: alla prima si deve il disegno, gigantesco, di quasi due metri per tre; alla seconda – che per tutti è Lauretta – la campitura minuziosa delle ali, in una trama fittissima di segni e colori. «Mi piace pensare che la nostra sia una bottega rinascimentale, nella quale ciascuno presta la sua opera secondo le capacità proprie e le necessità comuni», spiega Luca Santiago Mora, fotografo e artista visivo, lettore di Simone Weil e Cristina Campo, ideatore e anima dell’Atelier dell’Errore, la realtà alla quale appartengono Giulia, Lauretta, Giorgia Ballabeni, l’altra Giulia che di cognome fa Gaiti e ancora Francesca, Matteo, Gianluca, Dieolhak, Lorenzo, Nico, Nuru, Francesco e Valentina.
Maggiorenni o poco più, sono entrati a far parte dell’Atelier negli anni scorsi su segnalazione del servizio di neuropsichiatria infantile della Ausl di Reggio Emilia. Ciascuno di loro è portatore di una disabilità più o meno accentuata, più o meno riconoscibile. C’è un dislivello tra il loro sguardo e il mondo come comunemente lo percepiamo. Ma a osservarli mentre disegnano accucciati per terra, nello spazio messo a disposizione dalla Collezione Maramotti nella storica sede di Max Mara lungo la via Emilia, viene da chiedersi se quel dislivello, quello scarto, non vada a loro vantaggio. «Vedono più in profondità, perché non hanno paura a tenere gli occhi aperti anche nelle zone più oscure, che noi di solito scegliamo di ignorare – afferma Santiago Mora –. Per questo le loro opere risultano così inquietanti, a volte addirittura spaventose. Io preferisco considerarle profetiche: mostrano qualcosa che ancora non conosciamo, ma che presto o tardi arriveremo a scoprire».
Animali, più che altro, come quelli catalogati e commentati nell’Atlante di zoologia profetica edito da Corraini a cura di Marco Belpoliti con i contributi di Luigi Zoja, Massimiliano Gioni, Gabriella Caramore, Ermanno Cavazzoni e di tanti altri che si sono lasciati appassionare e interrogare da questa esperienza unica e difficilmente classificabile. «Non è arteterapia e neppure Art Brut – precisa Santiago Mora –, non c’è nessuno che dall’esterno indirizzi o valuti. Gli artisti sono loro, i ragazzi e le ragazze, ognuno con il suo talento particolare. A me spetta solo il compito di trovare i materiali e gli strumenti più adatti. Anche fissando le regole, che sono molto semplici e uguali per tutti». Non si cambia foglio, per cominciare. Casomai se ne aggiungono, per ampliare l’opera. E non si cancella. Correggere è consentito, tornando con la matita su un dettaglio in modo da renderlo più aderente alle intenzioni dell’artista. Nel peggiore dei casi il lavoro può essere rifiutato e ceduto a qualcun altro, che provvederà a completarlo. «Sono i tre passaggi fondamentali – elenca Santiago Mora –: riconoscere le abilità, liberarle, metterle al servizio di un’impresa collettiva».
L’Atelier dell’Errore è nato nel 2002. Presso la Ausl reggiana era già attivo un laboratorio di attività espressive per minori con disabilità psichiatrica, ma la responsabile aveva preso un anno di aspettativa e Santiago Mora si era offerto di sostituirla, senza avere ben capito quale fosse esattamente l’impegno. «Perché non proviamo a disegnare?, ho detto un giorno – ricorda –. Uno dei ragazzi mi ha risposto di no, che lui non poteva disegnare. Mi è sembrata un’espressione tremenda, quel non potere, nella quale si stratificavano anni di critiche, di rifiuti, di irrisioni e di scarti. Ho pensato che, quando non si può, è allora che si deve. Abbiamo cominciato così». Prendere a soggetto il mondo animale è stata una scelta pressoché istintiva, rafforzata dall’apertura di un’altra sede dell’Atelier a Bergamo, negli ambienti del museo di Scienze naturali. Si sono sviluppate in questo modo la serie degli “animali custodi”, ai quali gli artisti consegnano i loro timori e il loro desiderio di giustizia (la protezione più invocata è quella contro i bulli), ma anche la fantasmagorica avventura delle “Cervie Eustachee”, creature ispirate alla leggenda di sant’Eustachio e protagoniste nel 2012 di un importante allestimento nella chiesa veneziana di San Stae. E qualche settimana fa, durante la festa della rivista online Doppiozero, l’Atelier ha presentato al Teatro Rasi di Ravenna, ex chiesa di Santa Chiara, una struggente Piccola liturgia con una sequenza di testi scritti dai ragazzi in una lingua aulica e plebea che ricorda le invenzioni di Giovanni Testori: Patrum lostres / che s’è le ciels / si santificatum l’om…
In questi quindici anni gli artisti dell’Atelier sono cresciuti, in tutti i sensi. Hanno esposto in Italia e all’estero, a Milano in occasione di Expo (la mostra si intitolava Uomini come cibo) e alla Moretti Gallery di Londra, dove le loro visioni abissali stavano a fianco a fianco dei dipinti di Andrea de Bartoli, Luca Signorelli e Carlo Dolci. I loro disegni si trovano sulle copertine dei libri della maceratese Quodlibet e all’interno di molte altre pubblicazioni, compresa quella relativa all’edizione 2015 di Euward, il maggior riconoscimento europeo destinato al rapporto fra arte e disabilità. Il premio è andato a Giulia Zini, ma alla cerimonia ha partecipato tutto l’Atelier, la bottega al gran completo nella sua versione Big. Sì, perché nel frattempo i ragazzi sono cresciuti anche d’età e allo scoccare dei diciotto anni i servizi di neuropsichiatria infantile non possono più occuparsi di loro. Insieme con la moglie Simonetta, a sua volta coinvolta nelle attività dell’Atelier, Santiago Mora ha cercato una soluzione e l’ha trovata grazie a Luigi Maramotti – attuale presidente di Max Mara e della collezione di arte contemporanea istituita dal padre Achille – e alla Fondazione Alta Mane Italia, che finanzia il progetto. Lo scopo è, anzitutto, quello di permettere alle ragazze e ai ragazzi di continuare a disegnare, esprimersi, ricercare, elaborando tecniche di incredibile efficacia, come quella escogitata da Dieolhak per il suo mirabolante Trapus Murtorus: la corazza della bestia è resa porosa da una serie di buchi realizzati utilizzando contemporaneamente due matite, una durissima che lascia il segno e l’altra, un po’ più morbida, che lo ribadisce con un leggero contorno. Il risultato è un carapace di favolosa consistenza, la corazza di una creatura di sogno che sia riuscita a varcare la soglia dell’invisibilità.
«Il vero obiettivo – avverte Santiago Mora – è che gli artisti ricevano un riconoscimento economico, che li renda almeno in parte autonomi». Fuori la giornata è grigia, scende una pioggia fuori stagione, ma le stanze dell’Atelier Big sono comunque luminose. Si lavora per portare a termine una commissione arrivata da Milano, ma il tempo per una pausa si trova lo stesso. Si passano in rassegna i disegni appesi alle pareti bianche, si rievocano episodi e si illustrano significati nascosti. È una specie di anteprima della giornata di domenica 7 maggio, quando per la prima volta le stanze della bottega si apriranno ai visitatori nell’ambito della manifestazione Fotografia Europea 2017. Non tutti gli artisti partecipano a questo vernissage improvvisato. Giorgia preferisce continuare a disegnare. Le riesce benissimo, come dimostrano le sue opere. Su una, in particolare, erano cadute due o tre lacrime. Quando se n’è accorta, lei ha lasciato che si asciugassero, dopo di che ha preso la matita ed è tornata su quelle minuscole macchie con un tratto leggero. Ci sono perle, adesso, al posto delle lacrime.
Avvenire

Ad Arezzo il Museo dell'Oro. Esposta anche statua Minerva ritrovata nel Cinquecento


AREZZO - "Un'eccellenza della produzione artigianale ed industriale del posto e di tutto il comparto italiano. Un percorso che dalla dea Minerva accompagna fino si nostri giorni dimostrando la valenza dell'ingegno aretino è italiano". Così il presidente del parlamento europeo Antonio Tajani ha accompagnato l'inaugurazione del Museo dell'Oro nel trecentesco palazzo di Fraternita di Arezzo dove trovano spazio 82 capolavori in oro firmati dai maestri italiani ed internazionali e realizzati ad Arezzo. Contemporaneamente è stata inaugurata l'esposizione che ospita la statua il bronzo della Minerva ritrovata nel 1541 ad Arezzo e conservata a Firenze .Presenti, oltre al sindaco Alessandro Ghinelli, il presidente della Camera di Commercio di Arezzo Andrea Sereni e il presidente della regione Toscana Enrico Rossi.
    "Il museo è un polo attrattivo forte - ha detto Rossi - che attrarrà ad Arezzo molti turisti ed un progetto che vede finalmente la luce e a cui abbiamo contribuito volentieri". "La Minerva è stata la 'madrina' del museo - ha commentato il sindaco Ghinelli - e siamo molto orgogliosi di ospitarla qui".
    (ANSA).

ECCO LE BANDIERE BLU, LA LIGURIA E' ANCORA REGINA

MARE PIÙ PULITO, IN ITALIA LE SPIAGGE DA SOGNO SONO 342 Mare più pulito, quest'anno, sulle coste italiane: salgono infatti a 342 le spiagge sulle quali sventolerà la bandiera blu assegnata dalla Foundation for Environmental Education per questa 30/a edizione a 163 Comuni e 67 approdi turistici sulla base di 32 criteri relativi alla gestione sostenibile del territorio. La Liguria si conferma regina del mare eccellente arrivando a 27 località, seguono come lo scorso anno la Toscana con 19 località e le Marche con 17. (ANSA).