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Mostre a Torino: retrospettiva per Erik Kessels

Fino al prossimo 30 luglio si svolgerà presso CAMERA la prima mostra retrospettiva dedicata al lavoro fotografico dell’artista, art director ed editore olandese Erik Kessels. Intitolata The Many Lives of Erik Kessels, la mostra curata da Francesco Zanot attraversa l’intera carriera fotografica dell’autore olandese attraverso un articolato percorso che include centinaia di immagini. Ricordiamo che Kessels si è affermato come riferimento primario e imprescindibile nel campo della cosiddetta ‘fotografia trovata’. Anziché riprendere nuove immagini, per la maggior parte dei suoi progetti raccoglie fotografie pre-esistenti e le riutilizza come tasselli all’interno di un proprio mosaico. Il risultato è una sorta di ecologia delle immagini, per cui nulla si aggiunge alla enorme quantità di rappresentazioni che ormai affolla il mondo e cresce esponenzialmente ogni giorno, ma al contrario viene recuperato e riciclato soltanto ciò che è già disponibile.   
 
PERCHE' ANDARE
 
Il percorso espositivo presenta ventisette serie dell'artista, oltre a numerosi libri e riviste pubblicati dall’ormai celebre casa editrice dello stesso Kessels (KesselsKramer Publishing) e da altri editori. In un percorso non-lineare e senza cronologia, si ritrovano lavori monumentali, serie più intime e private, autentiche icone dell’intero universo della ‘fotografica trovata’ così come produzioni recenti e ancora inedite. In mostra “ 24hrs of Photos” invade letteralmente lo spazio espositivo con una montagna formata dalle stampe di tutte le immagini, centinaia di migliaia, caricate in un solo giorno su Internet, mentre l'installazione My Feet, composta esclusivamente dalle immagini dei piedi di chi fotografa, introduce immediatamente i concetti di ripetizione e archiviazione.
 
DA NON PERDERE
 
Tra i lavori in esposizione segnaliamo “In Almost Every Picture”, ciclo di 14 progetti (fino ad oggi) centrati ogni volta su un soggetto ossessivamente ricorrente, ma anche My Sister un video musicato dal compositore giapponese Ryuichi Sakamoto tratto da un home-movie interamente dedicato a una partita di ping-pong tra l’autore e sua sorella, tragicamente scomparsa in un incidente stradale a soli 9 anni. Un intera stanza è inoltre  dedicata al fenomeno degli album di famiglia, tra i soggetti privilegiati da Kessels, che riabilita democraticamente il fotografo amatoriale proiettandolo sotto i riflettori della ricerca artistica.
 
THE MANY LIVES OF ERIK KESSELS
Fino al 30 Luglio 2017
Luogo: CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, Torino
Info: www.camera.to

turismo.it

Fish & Chips: street food anglosassone

Uno dei primi esempi di cucina fusion, il fish & chips combina elementi provenienti da diverse tradizioni culinarie. Il piatto tipico anglosassone abbina il filetto di pesce bianco (solitamente merluzzo, platessa o eglefino) fritto in pastella e accompagnato da abbondanti patatine, anch’esse fritte. Il piatto viene solitamente servito con sale e una spruzzata di aceto di malto. Le patatine inglesi hanno una consistenza spessa. Questo consente di mantenere relativamente più basso il contenuto di grassi perché l’olio di frittura viene assorbito in minore quantità.
 
Durante la seconda guerra mondiale il fish & chips è rimasto uno dei pochi alimenti nel Regno Unito a non essere soggetto a razionamento. Il piatto è uno dei più popolari esempi di street food, disponibile a tutte le ore, da mangiare tra una pausa di lavoro e un appuntamento. O anche a tarda notte, dopo una serata brava. E’ un piatto di origine popolare che risale al XVII secolo quando il pesce fritto è stato introdotto in Gran Bretagna da profughi ebrei provenienti da Portogallo e Spagna. Charles Dickens cita un “magazzino di pesce fritto” in Oliver Twist (1839) in cui il pesce era venduto con pane o patate al forno.

FISH & CHIPS: FUORI PASTO DEI LAVORATORI

Il fish & chips divenne popolare con lo sviluppo delle ferrovie nel diciannovesimo secolo. Il pesce fresco poteva essere commercializzato con più facilità e le classi lavoratrici potevano gustarlo durante le pause pranzo. I primi negozi di fish & chips erano provvisti di un calderone alimentato a carbone, am il concetto del piatto “popolare” era simile a quello di oggi. Il cibo era servito in confezioni di carta da giornale e i clienti attendevano in fila il loro turno per il gustoso pasto.
 
Il segreto di un buon fish and chips sta nella pastella preparata per impanare i filetti. L’ingtrediente con cui viene arricchita è la birra scura che solitamente accompagna anche il piatto. In Gran Bretagna e in Irlanda, merluzzo e eglefino rimangono i pesci più utilizzati, ma oggi sono disponibili versioni del piatto con altro pesce bianco, pollock, coley, salmone (soprattutto in Irlanda) e skate. Ecco la ricetta.
 
Ingredienti
500 gr di filetti di merluzzo fresco
500 gr di patata gialle
100 gr di farina bianca
1 bicchiere di birra Ale inglese
1 tuorlo
mezzo cucchiaino di lievito in polvere
olio di semi
un cucchiaio di aceto di malto
 
Lavare e pulire bene il merluzzo, asciugarlo con carta da cucina e tagliarlo a filetti. Pelare le patate, tagliarle a bastoncini spessi e lasciarle asciugare su un panno di cotone. In una ciotola mescolare la farina setacciata con un pizzico di sale. In un altro recipiente mescolare il lievito con un cucchiaio di aceto di malto. Mescolare e versare il composto, insieme alla birra e al tuorlo d’uovo. 
 
Fare attenzione che la pastella non risulti troppo densa. In questo caso, agggiungere acqua frizzante. Far scaldare in una padella dai bordi alti una buona quantità di olio. Quando avrà raggiunto la giusta temperatura friggere le patate, scolarle e tenerle al caldo. 
 
Immergere i filetti di merluzzo nella pastella e inserirli subito nell’olio bollente. Lasciare in immersione per tre minuti girandoli di tanto in tanto. Quando il pesce sarà ben dorato, estrarlo dalla padella e far assorbire l’olio in eccesso su carta da cucina. Servire il fish & chips con le patate e accompagnare con una birra scura fredda.

Spiritualità. Il viaggio, sintesi di vita cristiana


Il tempo costituisce fondamentalmente una sorta di coreografia interiore. Si direbbe che la vita stessa ci sollecita ad ascoltarla in un altro modo. È con questo imperativo che ognuno di noi è chiamato a confrontarsi: l'irresistibile necessità di ritrovare la vita nella sua forma pura. Per esempio: se la linea azzurra del mare ci seduce tanto, è anche perché questa immensità ci ricorda il nostro vero orizzonte; se saliamo sulle alte montagne, è perché nella visione chiara che di lassù si raggiunge del reale, in quella visione fulgida e senza cesure riconosciamo una parte importante di un appello più intimo; se andiamo in cerca di altre città (e, in queste città, di un'immagine, di un frammento di bellezza, di un non so che...), è anche perché stiamo inseguendo una geografia interiore; se semplicemente ci concediamo un'esperienza del tempo dilatata (pasti assunti senza fretta, conversazioni che si prolungano, visite e incontri), è perché la gratuità, e solo essa, ci dà il sapore protratto dell'esistenza stessa.

Prendiamo quel verso coniato da Rainer Maria Rilke che dice: «Attendo l'estate come chi attende un'altra vita». Questo verso non ci proietta al di fuori di noi, piuttosto ci inizia all'arte dell'immersione interiore. Davvero durante i lunghi inverni del tempo non è una vita strana e fantasiosa quella che dobbiamo attendere (e per la quale lavorare!), ma una vita che realmente ci appartenga. È di un'estate così che Rilke parla, e che può coincidere con qualsiasi stagione: una necessaria opportunità per immergerci più a fondo, più dentro, più in alto, accettando il rischio di cogliere la vita integralmente e di stupircene. Nella scarsità e nella pienezza, nella dolorosa imprevedibilità come nella saggezza fiduciosa.Pensiamo alla proposta che, più di una volta, Gesù fa ai discepoli: «Passiamo all'altra riva» (Mc 4,35). Passare all'altra riva non significa necessariamente il trasferimento a un altro luogo, diverso da quello in cui ci troviamo. 

A volte, tutto quel che ci serve è abitare la vita in un altro modo. È semplicemente camminare con un altro passo sulle strade che già ogni giorno percorriamo. È aprire la finestra quotidiana, ma lentamente, nella consapevolezza che la stiamo aprendo. È reimparare un'altra qualità per una quotidianità forse troppo abbandonata alla routine e ai suoi automatismi. È, in fondo, assaporare il gusto delle cose più semplici. Possiamo fare un viaggio indimenticabile, rapiti dal sapore dell'istante presente, dalla contemplazione del paesaggio che ci è più vicino, dalla saggezza di una conversazione, dal silenzio di un libro che già abbiamo tra le mani. Pensiamo a quanto scrisse Marcel Proust: «Non ci sono forse giorni della nostra infanzia che abbiamo tanto pienamente vissuti come quelli che abbiamo passato con un libro prediletto». Che sfida, questa nozione di "giorni pienamente vissuti", e come ci è necessario avvicinarci a essa!«Passiamo all'altra riva». I viaggi non sono solo esteriori. Non è semplicemente nella cartografia del mondo che l'uomo viaggia. Fare uno spostamento comporta un cambio di posizione, una maturazione dello sguardo, apertura al nuovo, un adattamento a realtà e linguaggi, un confronto, un dialogo, inquietante o incantato, che necessariamente lascia impressioni molto profonde. L'esperienza del viaggio è esperienza della frontiera e di nuovi spazi, di cui l'uomo ha bisogno per essere sé stesso. «Passiamo all'altra riva». 

Il viaggio è una tappa fondamentale nella scoperta e nella costruzione di noi stessi e del mondo. È la nostra coscienza che cammina, scopre ogni dettaglio del mondo e tutto guarda di nuovo come fosse la prima volta. Il viaggio è una sorta di propulsore di tale sguardo nuovo. Per questo è capace di introdurre nella nostra vita e nei suoi schemi, nella sua organizzazione, elementi sempre inediti che possono operare quella ricontestualizzazione radicale che, con un vocabolario cristiano, chiamiamo "conversione". Molti cambi di paradigma epocali (anche ecclesiali) hanno avuto a che vedere precisamente con l'accettazione di uno sguardo viaggiante sul nostro mondo abituale e le sue convenzioni. Lo scrittore Bruce Chatwin utilizza, al riguardo, l'espressione «alternativa nomade», espressione secolarizzata, ma che può ben essere ricondotta al campo teologico e biblico. 

Abramo è un errante. Mosè scopre la sua vocazione e missione come mandato di itineranza. Molti dei profeti d'Israele, da Elia a Giona, vissero da esiliati e proscritti. Gesù non aveva dove posare il capo (Lc 9,58) e abitava, dandogli senso, un transito permanente. I suoi discepoli sono inviati ai quattro angoli della terra (Mt 28,19). Il cristianesimo si definisce così attraverso una extraterritorialità simbolica, senza città e senza dimora, che permette la breccia, l'apertura alla rivelazione di un senso più grande. «Passiamo all'altra riva», ci propone Gesù.(Traduzione di Pier Maria Mazzola)

avvenire

Intervista. Harpur: «La poesia? Sacra come la preghiera»


Un secolo dopo il grande William Butler Yeats, c'è un altro poeta irlandese che ha legato la sua vita all'esplorazione di tutti gli aspetti del Sacro e che ha trasformato la sua arte in un'incessante ricerca spirituale nella tradizione dei grandi poeti metafisici e della mistica occidentale e orientale. «Scrivere poesie è per me un'attività sacra quasi quanto la preghiera – ci dice James Harpur – entrambe impongono di concentrarsi sui sentimenti e sui pensieri, sulla mente e sul cuore». Considerato uno dei più grandi poeti irlandesi contemporanei, Harpur si trova in Italia in questi giorni, sulle orme del suo illustre connazionale premio Nobel nel 1923, che viaggiò a lungo in Italia negli anni '20. 

Domani sarà ospite d'onore alla cerimonia conclusiva del premio di poesia San Sabino che si terrà alla parrocchia di Torreglia, nel padovano a pochi passi da Arquà, dove sono custodite le spoglie di Francesco Petrarca. Domenica 28 maggio terrà una lectio magistralis al teatro Perla di Torreglia (ore 17), infine martedì 30 incontrerà il pubblico alla libreria Laformadelibro di Padova (ore 18). Sessantenne, originario di una famiglia angloirlandese, James Harpur è molto conosciuto e apprezzato in patria, in America e in Australia, dove le sue raccolte poetiche hanno ottenuto anche importanti riconoscimenti – tra cui il Vincent Buckley Poetry Award – ma è ancora poco noto in Italia, dove la sua antologia Il vento e la creta, curata e tradotta da Francesca Diano, sta per uscire adesso con La Finestra editrice. 

Il suo è un linguaggio poetico originale che fa un uso frequente della prima persona, nel quale si fondono culture ed epoche differenti, che trae ispirazione dai miti classici, dalla mitologia celtica e dalla tradizione del primo Cristianesimo irlandese, ricco di riferimenti a Omero, Virgilio, Eschilo e Dante ma anche a opere non poetiche come gli scritti di Carl Jung. Tratta temi che spaziano dall'Irlanda celtica a quella protocristiana, con un misticismo profondamente legato alla modernità. Nell'interazione tra antico e moderno, tra paganesimo e cristianesimo, Harpur decifra il passaggio fra due epoche e due culture, ma anche il confronto fra natura e spirito. «Proprio come Yeats, che sosteneva di non appartenere a nessuna confessione religiosa ma di essere interessato a qualsiasi manifestazione spirituale, anch'io cerco di tenere la mente e il cuore ben aperti, cercando di esplorare differenti tipi di spiritualità, dal Cristianesimo a quello del grande filosofo indiano Krishnamurti». 

Può spiegarci in che senso scrivere poesie è per lei un'attività sacra, quasi una forma di preghiera?
«Perché sento la poesia come una specie di missione attraverso la quale posso cercare di comprendere il senso della vita e i grandi temi dell'esistenza. Credo che per un poeta con una vocazione spirituale la poesia svolga una funzione simile a quella della preghiera, imponga cioè di incanalare i sentimenti e i pensieri nella scrittura. D'altra parte ci sono stati uomini di chiesa, ministri della Church or Ireland, fra i miei antenati».

Umberto Eco sosteneva che il Libro di Kells, il codice miniato medievale compilato dai monaci irlandesi nel IX secolo, avesse ispirato Joyce per il suo Finnegans Wake. Anche lei è legato a quel famoso evangeliario, tanto da avergli dedicato il suo poema Voci del Libro di Kells.
«Sì, ritengo importantissimo il modo in cui i monaci irlandesi sono stati capaci di preservare la tradizione spirituale del Cristianesimo dall'antichità fino al Medioevo e il Libro di Kells è paradigmatico di quello sforzo. Giraldo Cambrense disse che quel manoscritto così elaborato e misterioso non poteva essere stato realizzato dagli uomini, ma era opera degli angeli. Le sue linee dorate che attraggono gli occhi sono un simbolo dell'infinito. La sua spiritualità astratta è resa più terrena dalla relazione tra le linee dorate e le immagini dei santi e degli apostoli del Nuovo Testamento».

Con quale sguardo il suo misticismo le consente di osservare i tempi nei quali stiamo vivendo?
«Credo che in Occidente stiamo vivendo in un mondo sempre più razionale, scientifico e computerizzato, dove a scuola i bambini imparano automaticamente il valore e il potere della ragione e della logica. È un peccato, perché stiamo perdendo sempre più il contatto con l'irrazionale, con tutto ciò che non può essere spiegato, con i grandi misteri della vita come l'amore, il sogno, il dovere, il soprannaturale. Penso che i poeti abbiano il dovere di ricordare alla gente il valore dell'immaginazione e di esplorare i grandi misteri di un mondo multidimensionale».

Perché Yeats e Eliot sono i poeti contemporanei che l'hanno maggiormente influenzata?
«Yeats era molto interessato all'idea dell'Anima mundi, al modo in cui la mitologia conferiva identità a un popolo, e alla mitologia irlandese tanto che cercò di attualizzarla, di rendere contemporanea. Eliot era invece alla costante ricerca di un'identità: era nato negli Stati Uniti ma si sentiva più a suo agio in Inghilterra. Il suo capolavoro, I quattro quartetti, è una meditazione sui momenti in cui sentì la presenza dell'infinito. Sia Yeats che Eliot, ma anche William Blake, hanno esplorato a fondo lo spirito, hanno scritto poesie che incarnano gran parte della spiritualità occidentale e mi hanno insegnato la loro visione immaginativa del mondo».

L'Irlanda è oggi un paese profondamente diverso rispetto al recente passato. Crede che la modernità stia distruggendo la specificità della sua tradizione culturale?
«Di sicuro il mio paese sta attraversando una fase storica di grande cambiamento materiale e spirituale. Per vari motivi, l'influenza della Chiesa cattolica che ha caratterizzato l'ultimo secolo ha iniziato a indebolirsi lasciando un grande vuoto spirituale. Al momento non è chiaro chi possa colmarlo. Credo però che esista ancora un forte legame istintivo con la terra, con le tradizioni, con la mitologia e un'eredità culturale molto forte che si è consolidata a causa della dominazione inglese. Ma sono fiducioso e non penso che la sua identità e la sua tradizione siano minacciate».

Quale crede che dovrebbe essere il ruolo della poesia di fronte agli orrori del nostro tempo?
«Ci sono poeti che reagiscono in modo diretto agli eventi naturali o agli atti terroristici, scrivendo di getto. A mio avviso quello è compito dei giornalisti e degli scrittori. I poeti devono invece impegnarsi in un lavoro di lungo periodo, cercare di trasmettere flussi empatici con la loro scrittura. È quello l'unico modo in cui, forse, possono essere in grado di cambiare il contesto sociale e umano in cui vivono».

avvenire

Reportage. Tra le ferite di Odessa

Nella "piccola San Pietroburgo" sul Mar Nero nevica in aprile, una neve dai grandi fiocchi, spinta da un vento gelido che poco dopo si placa per lasciare posto ad un cielo grigio, fermo e senza nuvole. Sotto quel cielo Odessa sembra come vivere momenti di normalità lungo i suoi viali alberati e nei giardini ordinati che sono il vanto della settecentesca città portuale, fortemente voluta e fondata dalla zarina Caterina di Russia e dal suo favorito, il governatore e militare d'alto rango Grigorij Potëmkin. La statua di Caterina, sebbene accesamente contestata dai nazionalisti ucraini oggi al potere che, paradossalmente non la riconoscono come legittima fondatrice in quanto russa, troneggia ancora nella piazza Katerynynska e, crediamo, vi starà ancora per molto tempo. In città si respira l'aria di un Est di confine, specialmente se ci si spinge fin dentro i vecchi cortili che hanno conservato i medesimi odori, i silenzi delle cose semplici che resistono alle ingiurie del tempo.
Dietro l'apparente tranquillità, si covano sospetti, risentimenti e odi tra cittadini di origine ucraina e cittadini russi o di ascendenze russe, perfino di una stessa famiglia (dove, talora avvengono le separazioni), mentre nella regione del Donbass (immortalata dal grande regista sovietico Dziga Vertov nel film Sinfonia del Donbassa/Entusiasmo, 1931), il conflitto perdura nell'indifferenza dei media internazionali. La frattura definitiva tra le due etnie si è consumata tra la rivoluzione "arancione" e un golpe. Si assiste, dunque, al paradosso di un Paese post-comunista retto su principi nazionalistici e in realtà controllato da una oligarchica economica, dove, però, tutti parlano tranquillamente la lingua russa. Non si dimentichi che all'origine dello stato Russo vi era la Rus' di Kiev (Kyïv in ucraino) del principe Vladimiro. Alla caduta dell'ex Urss e alla definitiva separazione dalla Russia di Putin è corrisposto un sentimento legittimo di riappropriazione delle proprie radici nazionali che tuttavia si è presto trasformato in nazionalismo che, come tutte le malattie, ha avuto il proprio incubatoio nelle strade della città e negli stadi, a opera di ultrà reclutati per le azioni più violente dalla compagine ultranazionalista di estrema destra dei Pravyi Sektor. La giovane Svetlana, dell'università di Odessa, rammenta che perfino il noto cantautore ucraino Oleh Skrypka, molto amato dai ragazzi, ebbe a dire che quelli che non sanno o non vogliono parlare ucraino meritano di finire in un ghetto come malati di mente...

La città si dispiega, viale dopo viale, palazzo dopo palazzo, nel suo chiaro impianto ortogonale. I colori, verde pallido, rosa e azzurro, ricordano l'architettura sanpietroburghese, ma non la magniloquenza – qui tutto è ben più modesto, fatta eccezione per il sontuoso e magnifico Teatro dell'opera e del balletto e di qualche bel palazzo museale. Il linguaggio del liberty, invece, diventa lo stile dominante in un periodo storico di particolare floridezza mercantile della città portuale, che va pressappoco dal 1880 al 1920. Sebbene non si possa parlare di una vera e propria Belle Époque, come a Riga, in Lettonia, (dove esiste un intero quartiere Art Nouveau dove spiccano le architettura di Michail Osipovic Ejzenstejn, padre del grande regista), vi sono, tuttavia, nella vecchia città esempi di una certa eleganza. Chi conosce bene Odessa la ricorda come città di scrittori e di marinai, di prostitute e di malfattori. Ma sono, forse, ricordi legati a un'altra epoca, quella descritta da Isaak Babel' nei Racconti di Odessa(1923-1933). Di certo si ricorderà di Puskin che ci visse a lungo, di grandi scrittori come Bulgakov e di Gogol'. Percorriamo l'elegante strada fino al palazzo in stile eclettico dove visse l'autore delle Anime morte che, inspiegabilmente, è in totale stato di abbandono. Mentre dalla piattaforma della grande marittima portuale lo sguardo insegue la prospettiva grigio bianca della celebre Scalinata Potëmkin protesa verso il mare, che un tempo la lambiva. Ufficialmente è chiusa, transennata per lavori in corso di rinnovamento delle superfici di pietra. 

La meraviglia di rivedere con lo sguardo della memoria filmica del capolavoro di Sergej Ejzenstejn, inutilmente ridicolizzato dal ragionier Fantozzi del film omonimo e rievocato quasi come un sogno nella bella sequenza diC'eravamo tanto amati di Ettore Scola (1974), con l'occhio ferito della vecchia e l'incombere della carrozzina giù per i gradini, e gli spari immaginati e le grida strazianti come di un mondo e di un secolo scomparsi, le cui tracce sono ancora forti e ben visibili nella Storia e in noi stessi. Per raggiungere Arcadia, il nuovo "paradiso" commerciale di massa della nuova Odessa dove troviamo i simboli delle oligarchie economiche, i palazzi multipiano e i grattacieli costruiti in riva al mare, percorriamo un lunghissimo viale rinserrato da boschi e giardini; in uno di essi c'è un vecchio ex sanatorio formato da diverse palazzine fine secolo immerse in un silenzio che non è più di questo tempo, ma di un altro lasciato ormai alle spalle. 

Nel passeggiare tra i suoi vialetti adorni di fiori, panchine e di qualche statua, si ha come un segreto rimpianto per un mondo meno affannato a produrre profitto e cemento. Arcadia, un nome soave per una bruttura edilizia che ha l'odore rancido della corruzione, è, invece, l'affacciarsi aggressivo della globalizzazione in un corpo estraneo dove prima non vi erano che boschi e villini. Oggi c'è il divertimento a buon mercato, unito allo shopping e al lusso volgare di un imponente e minaccioso residence dalla forma circolare, ma dalle fragili fondamenta che vanno lentamente sgretolandosi verso il basso. Nel luna park sottostante, in prossimità della casa consueta degli orrori, uno scheletro riposa dondolandosi placidamente su una sedia a dondolo¿ Quasi senza saperlo, scivoliamo silenziosamente, a ritroso, verso il centro cittadino, verso piazza Maidan, grande spiazzo dominato dalla mole staliniana dell'ex Palazzo dei Sindacati. È un luogo triste, ma per gli abitanti di Odessa, terribile. Dentro e fuori dal perimetro dell'enorme edificio, si è consumata una strage.

Era il 2 maggio 2014 quando, in seguito all'omicidio di un giovane nazionalista, le compagini estremiste del Pravyi Sektor organizzano una violentissima caccia ai filorussi asserragliatisi all'interno dell'edificio. Ci avviciniamo ai cippi funebri posti dai parenti e dagli amici delle vittime sopra una transenna. Svetlana non riesce a trattenere l'emozione: due suoi amici sono morti proprio lì, dove nei giorni che precedettero la strage di maggio con i suoi quarantotto morti (alcuni dei quali bruciati vivi) c'erano le loro tende. Oggi ci sono papaveri rossi posati sull'asfalto. Quel luogo, al pari di altri che popolano come cimiteri il vecchio e il nuovo secolo, è diventato nel tempo, un simbolo di resistenza all'ottusità e alla ferocia. Luogo, dunque, di elaborazione di un lutto collettivo che ovunque e per ciascuno di noi, ha nella memoria il suo detonatore.
avvenire

Moda e lusso, ecco cosa preferiscono i nuovi ricchi

(di Agnese Ferrara) Le imprese del lusso sono in fermento, i potenziali clienti sono cambiati, in particolare i Millennials che di spendere come i loro genitori proprio non ne vogliono sapere. Per inseguire i sogni di shopping dei più ricchi sono perciò triplicate le acquisizioni e le fusioni fra aziende che operano nel lusso e tanti sono anche i ‘saldi’ di società di nicchia leader nel mercato dall’alta gamma ora assorbite dai grandi gruppi a caccia di prodotti e servizi graditi ai nuovi Paperon de Paperoni di tutto il mondo (così nel 2016 il gruppo L’Oreal ha acquisito IT Cosmetics, l’Estée Lauder ha inglobato TooFaced, LVMH ha puntato Rimowa che fabbrica valigie in alluminio e policarbonato e Samsonite le eleganti valigie Tumi). Le imprese più vivaci si rivelano essere quelle del ramo cosmetico e del digital di alta gamma, perché camaleontiche e capaci di monitorare immediatamente gusti e richieste dei nuovi potenziali clienti. 
Cosa gradiscono i nuovi ricchi? Le crociere di lusso (in calo però il Mediterraneo, i ricchi puntano a navigare sui fiumi e puntano all’Antartide per viaggi no-stop), lo shopping ‘esperenziale’, gli acquisti online (se le consegne sono rapide), il mondo digital (che aggiunge prestigio a qualsiasi cosa), i trattamenti estetici gratificanti e, udite-udite, ricevere campioncini e minisize di cosmetici e profumi. Lo attesta il nuovo report ‘Global fashion & luxury private equity and investire survey 2017’ di Deloitte che analizza i trend del mercato del lusso includendo nell’indagine Cina, Francia, Germania, Hong Kong, Italia, Lussemburgo, Singapore, Spagna, Svizzera, Gran Bretagna e Stati Uniti.
Da qualche anno ai nuovi ricchi piace più fare esperienze gratificanti che possedere e sfoggiare oggetti (è infatti stabile il mercato di orologi, gioielli e yacht) e il 2016 ha confermato tale modus vivendi regalando profitti alle imprese che hanno capito e cavalcato il cambiamento.
Nel fashion and luxury (che include i cosmetici, i profumi, orologi e gioielli, mobili, jet privati, mega-yacht, macchine di lusso e hotel di lusso) il mercato crescerà complessivamente del 5% nei prossimi 3 anni e fino al 10 % per il segmento dei prodotti di bellezza. Lo scorso anno sono state fatte oltre 200 acquisizioni di imprese, 70 in più rispetto all’anno precedente e i ricavi del comparto hanno superato i 3 miliardi di dollari.
“Le nuove tecnologie ridisegnano il settore, le crociere sono in crescita esponenziale, la domanda aumenta per tutte le destinazioni ad eccezione del Mediterraneo. Molto apprezzati i sistemi di prenotazione digitale di charter per barche e yacht di lusso, così come la rimessa a nuovo di barche storiche e di piccole barche e l’accesso alle forme di finanziamento tipo leasing. In calo invece il ricorso a jet privati, ” - spiegano gli analisti Deloitte. Nel segmento delle automobili di lusso l’attenzione sale per le macchine elettriche e l’automazione di tanti meccanismi alla guida, in chiave digital naturalmente. 
Curiose le interviste che gli autori del report hanno fatto ai clienti spendaccioni che hanno raccontato le loro esperienze d'acquisto più gradite che dimostrano che lo shopping online si farà sempre di più ma una passata nei negozi, in particolare i monomarca si fa sempre volentieri per vedere e toccare la merce ambita. "Una cosa è la borsa comprata online, altra quella acquistata in Via Monte Napoleone a Milano o sulla Fifth Avenue a Manhattan" è uno dei commenti ricorrenti fra le donne più spendaccione. In tutti i settori merceologici lo shopping ha successo se abbinato ad una qualche forma di esperienza gratificante.

ansa