Il tempo costituisce fondamentalmente una sorta di coreografia interiore. Si direbbe che la vita stessa ci sollecita ad ascoltarla in un altro modo. È con questo imperativo che ognuno di noi è chiamato a confrontarsi: l'irresistibile necessità di ritrovare la vita nella sua forma pura. Per esempio: se la linea azzurra del mare ci seduce tanto, è anche perché questa immensità ci ricorda il nostro vero orizzonte; se saliamo sulle alte montagne, è perché nella visione chiara che di lassù si raggiunge del reale, in quella visione fulgida e senza cesure riconosciamo una parte importante di un appello più intimo; se andiamo in cerca di altre città (e, in queste città, di un'immagine, di un frammento di bellezza, di un non so che...), è anche perché stiamo inseguendo una geografia interiore; se semplicemente ci concediamo un'esperienza del tempo dilatata (pasti assunti senza fretta, conversazioni che si prolungano, visite e incontri), è perché la gratuità, e solo essa, ci dà il sapore protratto dell'esistenza stessa.
Prendiamo quel verso coniato da Rainer Maria Rilke che dice: «Attendo l'estate come chi attende un'altra vita». Questo verso non ci proietta al di fuori di noi, piuttosto ci inizia all'arte dell'immersione interiore. Davvero durante i lunghi inverni del tempo non è una vita strana e fantasiosa quella che dobbiamo attendere (e per la quale lavorare!), ma una vita che realmente ci appartenga. È di un'estate così che Rilke parla, e che può coincidere con qualsiasi stagione: una necessaria opportunità per immergerci più a fondo, più dentro, più in alto, accettando il rischio di cogliere la vita integralmente e di stupircene. Nella scarsità e nella pienezza, nella dolorosa imprevedibilità come nella saggezza fiduciosa.Pensiamo alla proposta che, più di una volta, Gesù fa ai discepoli: «Passiamo all'altra riva» (Mc 4,35). Passare all'altra riva non significa necessariamente il trasferimento a un altro luogo, diverso da quello in cui ci troviamo.
A volte, tutto quel che ci serve è abitare la vita in un altro modo. È semplicemente camminare con un altro passo sulle strade che già ogni giorno percorriamo. È aprire la finestra quotidiana, ma lentamente, nella consapevolezza che la stiamo aprendo. È reimparare un'altra qualità per una quotidianità forse troppo abbandonata alla routine e ai suoi automatismi. È, in fondo, assaporare il gusto delle cose più semplici. Possiamo fare un viaggio indimenticabile, rapiti dal sapore dell'istante presente, dalla contemplazione del paesaggio che ci è più vicino, dalla saggezza di una conversazione, dal silenzio di un libro che già abbiamo tra le mani. Pensiamo a quanto scrisse Marcel Proust: «Non ci sono forse giorni della nostra infanzia che abbiamo tanto pienamente vissuti come quelli che abbiamo passato con un libro prediletto». Che sfida, questa nozione di "giorni pienamente vissuti", e come ci è necessario avvicinarci a essa!«Passiamo all'altra riva». I viaggi non sono solo esteriori. Non è semplicemente nella cartografia del mondo che l'uomo viaggia. Fare uno spostamento comporta un cambio di posizione, una maturazione dello sguardo, apertura al nuovo, un adattamento a realtà e linguaggi, un confronto, un dialogo, inquietante o incantato, che necessariamente lascia impressioni molto profonde. L'esperienza del viaggio è esperienza della frontiera e di nuovi spazi, di cui l'uomo ha bisogno per essere sé stesso. «Passiamo all'altra riva».
Il viaggio è una tappa fondamentale nella scoperta e nella costruzione di noi stessi e del mondo. È la nostra coscienza che cammina, scopre ogni dettaglio del mondo e tutto guarda di nuovo come fosse la prima volta. Il viaggio è una sorta di propulsore di tale sguardo nuovo. Per questo è capace di introdurre nella nostra vita e nei suoi schemi, nella sua organizzazione, elementi sempre inediti che possono operare quella ricontestualizzazione radicale che, con un vocabolario cristiano, chiamiamo "conversione". Molti cambi di paradigma epocali (anche ecclesiali) hanno avuto a che vedere precisamente con l'accettazione di uno sguardo viaggiante sul nostro mondo abituale e le sue convenzioni. Lo scrittore Bruce Chatwin utilizza, al riguardo, l'espressione «alternativa nomade», espressione secolarizzata, ma che può ben essere ricondotta al campo teologico e biblico.
Abramo è un errante. Mosè scopre la sua vocazione e missione come mandato di itineranza. Molti dei profeti d'Israele, da Elia a Giona, vissero da esiliati e proscritti. Gesù non aveva dove posare il capo (Lc 9,58) e abitava, dandogli senso, un transito permanente. I suoi discepoli sono inviati ai quattro angoli della terra (Mt 28,19). Il cristianesimo si definisce così attraverso una extraterritorialità simbolica, senza città e senza dimora, che permette la breccia, l'apertura alla rivelazione di un senso più grande. «Passiamo all'altra riva», ci propone Gesù.(Traduzione di Pier Maria Mazzola)
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