Frammento tessile con Artemide e Atteone, Egitto, V-VII secolo - Metropolitan Museum, New York
La circospezione con cui ci muoviamo nell’analisi della storia dell’arte, ma anche della storia stessa, ha spiccatamente un carattere temporale, rigidamente progressivo, marcatamente occidentale. Procedendo verticalmente nel passato, raccogliamo qua e là ciò che ci pare utile a tracciare un sentiero evolutivo, o quantomeno causale. Maggiori resistenze, scaturite da un’indagine più ampia e complessa, subentrano se la stessa operazione dobbiamo condurla sulla direttrice spaziale. Che sia una forma di narcisismo eurocentrico o la cronica mancanza dell’esercizio della geografia e della storia nelle nostre esistenze, resta il fatto che spostarsi anche solo di qualche meridiano o parallelo sembra uno sforzo inconcepibile. A smarcarsi, efficacemente, ha provato il Metropolitan Museum di New York con la mostra “Africa & Byzantium” (sino a domenica, poi traslocherà al Cleveland Museum of Art dal 14 aprile). Il cuore del progetto risiede proprio in quello scarto spaziale: la storia dell’arte ha a lungo enfatizzato l’importanza dell’Impero Bizantino (circa 330-1453), nelle canoniche giurisdizioni europee e asiatiche (da Ravenna a Salonicco, fino a Damasco, passando per l’epicentro Costantinopoli, ora Istanbul) ma si è poco dedicata ai profondi contributi artistici che l’Africa – le odierne Egitto, Algeria, Tunisia, Libia, Sudan, Etiopia – ha dato alla cultura mediterranea.
Su questo valore gravita l’intera impresa espositiva, coordinata dalla Associate curator of byzantine art di casa, Andrea Achie. Da questo spessore la curatrice ha fissato tre macro obiettivi, ambiziosi e non perfettamente risolti. Il primo, doveroso, sfida la comprensione convenzionale della separazione di Bisanzio dall’Africa, accendendo un faro sull’osmosi reciproca tra l’arte delle due sponde opposte del Mediterraneo. Il secondo si chiede dove e quando Bisanzio finisca. Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, le maestranze etiopi e copte dell’Africa orientale proseguirono sul solco dell’arte romana e bizantina fino al Ventesimo secolo, contribuendo alla costruzione dell’immaginario estetico occidentale. Una tesi non del tutto convincente, che fa il paio con il terzo intento, traballante: rappresentare l’unicità della “nuova” fattura. Se l’esposizione ha infatti il pregio di illustrare il sincretismo e l’emanazione culturale dei continenti in gioco, non circoscrive le specificità peculiari della produzione africana in questione, significativa ma ancillare. Parlano le opere esposte. Centottanta manufatti, soprattutto d’epoca medievale (con una breve appendice legata alle creazioni contemporanee, interessante ma ininfluente ai fini della mostra), provenienti da trenta Paesi nel mondo, perlopiù mai esposti, che mostrano l’importanza dell’Africa nello sviluppo intellettuale del tempo. Dall’Egitto, e ai centri di potere e sapere come Alessandria e il monastero di Santa Caterina nel Sinai, a Tunisi, capitale nella produzione dei mosaici, o la Valle del Nilo con il suo fertile fermento culturale. Storie di regni che si perdono sulla via dell’acqua verso il Sahara, solcando la Nubia, anello di congiunzione tra le genti del bacino Mediterraneo e quelle dell’Africa nera. Il limite, però, è non riuscire a dimostrare come queste regioni divengano un nuovo cuore propulsore, una nuova officina delle arti che influenzerà a sua volta il Vecchio Continente, come predisposto dalla mostra.
Ma a dire il vero, tutto ciò, poco importa. Ciò che importa, ed è sublime, è questo insieme di preziosi oggetti – mosaici, sculture, ceramiche, tessuti, dipinti, monili, manoscritti – che raramente si assimilano in unico corpo organico. Testimonianze di un pezzo di storia che si è “perso”, l’Impero romano che trapassa in quello bizantino condividendo le coste meridionali del Mare Nostrum, che si bagna nell’Oasi del Fayyum e percorre il regno di Kush, Axum, Makuria, passando per la cattedrale di Faras, ora sommersa dalle acque del Lago di Nasser. Una regione estremamente cosmopolita, costellata di società multietniche ed eterogenee.
Ne sono limpide sentinelle due opere chiave, entrambe eseguite durante il periodo tardo antico (dal 284 al 641 circa), la prima delle tre parabole temporali in cui si sviluppa l’esposizione. Una si impone al visitatore appena varcato l’ingresso alle sale, la Gallery 199. Monumentale e magnetica, si propaga in una riproduzione illustrativa anche sulla facciata del museo. Si tratta del frammento di un mosaico a pavimento risalente alla fine del II secolo, parte di una grande sala da pranzo di una villa tunisina. Dal carattere dinamico e realistico, l’opera mostra quattro uomini (e il braccio di un quinto), finemente drappeggiati e seguiti dalle loro stesse ombre, intenti a portare il necessario per allestire un banchetto: vino, pane, carne, pietanze varie. Ognuno di loro ha un colore della pelle differente, una pettinatura e un abbigliamento diverso, proviene da zone disparate dell’Impero. Ma tutti sono romani, e tutti saranno da lì a poco bizantini, fanno parte di un unico e sfaccettato mondo. «Chi sa ora – chiese sant’Agostino nel 416 alla sua comunità di Cartagine – quali popoli dell’Impero Romano fossero cosa, dal momento che tutti sono diventati romani e tutti si chiamano romani?»
L’altra testimonianza tangibile risiede in un frammento tessile decorato, ritrovato in Egitto, che mostra la dea greca della caccia Artemide e il cacciatore Atteone raffigurati con la pelle nera, sintomo di un’integrazione trasversale e senza confini, che coinvolge figure classiche senza frapporre intermediazioni. Siamo tra il V e il VII secolo nella città di Akhmim, sulla riva orientale del Nilo. Sempre di area egiziana è un dipinto di una Vergine col Bambino, Santi, Angeli e la Mano di Dio, un’opera emblematica che racconta come queste regioni siano state tra le prime a convertirsi al cristianesimo. Tanto che questa è una delle icone più antiche del mondo, probabilmente donata al monastero di Santa Caterina da Giustiniano tra il 548 e il 565, quando l’imperatore bizantino ordinò che il sito fosse fortificato e dotato di una chiesa. L’importanza dell’immagine, e del luogo come culla paleocristiana, è certificata dal fatto che un numero indefinito di artisti la usarono come modello dopo averla osservata. Manifesto, ad esempio, il debito figurativo di una Vergine sul Trono finemente intessuta nella lana risalente al VI secolo.
Ancora più interessante è il rapportoiconografico che la mostra allaccia prendendo in considerazione opere realizzate nella stessa area ma con matrice pagana. Oggetti cristiani e pagani non solo coesistono durante la tarda antichità, ma interagiscono tanto da destabilizzare il nostro consolidato pensiero sull’arte religiosa. Per esempio, non è da escludere che il culto egizio di Iside sia nei secoli confluito nella devozione cristiana verso la Vergine Maria. Del resto, un dipinto su tavola egiziano di Iside del II secolo assomiglia curiosamente a un’icona della Vergine del VI secolo, forse dipinta a Costantinopoli. I lineamenti allungati, la posizione degli occhi e la resa della figura in uno spazio poco profondo suggeriscono non solo affinità artistiche ma una memoria culturale profonda e persistente delle tradizioni precristiane.
Poi fu Islam, ma solo a Nord. Alla fine del VII secolo, gli eserciti arabi musulmani sottrassero l’Africa settentrionale al controllo bizantino e stabilirono la nuova capitale a Kairouan, in Tunisia. Nel frattempo, in Egitto, i monasteri cristiani copti persistevano anche sotto il nuovo dominio religioso. La seconda fase della rassegna traccia l’ascesa del cristianesimo in Africa tra l’VIII e il XVI secolo, epoca in cui fiorirono peculiari comunità artistiche lungo la valle del Nilo, interconnesse con Roma e Bisanzio. Tra i punti salienti di questa sezione troviamo una serie di croci etiopi, realizzate dal XII al XVII secolo. Pezzi che rivelano una stupefacente gamma di forme e motivi geometrici, a dimostrazione del virtuosismo progettuale degli artisti del tempo. Realizzati per condensare i molteplici significati simbolici della croce, le opere si traducono in una sorta di reticolato mistico, quasi astratto. A queste si accompagnano altre glorie del periodo: i monumentali dipinti nubiani. Lasciti murali mossi dall’estremo sincretismo linguistico e sociale, una miscela di mondi (arabo, greco, bizantino, copto e nubiano stesso) che si riverbera in documenti come il Salterio poliglotta (XII-XIV secolo), composto da cinque colonne di testo e alfabeti diversi – etiopico, siriaco, copto, arabo, armeno – e nellerappresentazioni di vescovi e dignitari della Nubia provenienti da Faras. Concepita cronologicamente, la terza e ultima parte della mostra affronta l’eredità di Bisanzio in Africa ed esplora i modi in cui gli artisti africani continuino a trovarvi ispirazione.
Su un arco temporale di quasi due millenni, “Africa & Byzantium”, oltre a restituire il corretto ruolo del continente africano nel Medioevo globale, semina il campo critico di una miriade di evidenze visive per le analisi a venire. Suggestioni e contaminazioni che aprono a future indagini iconografiche e a una più complessiva ricalibrazione delle coordinate spazio-temporali, andando oltre le latitudini convenzionali del terreno bizantino. Come ha fatto eloquentemente il Met. Perché rispetto, conoscenza e consapevolezza si coltivano guardando e muovendosi verso qualche parallelo o meridiano differente. Attraversando il Mediterraneo o, in questo caso, l’Oceano Atlantico.
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