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Reportage. Isole Aran: poesia dai confini del mondo

Nell’isola ai confini del mondo è facile smarrire del tutto la concezione del tempo. Da quando il traghetto molla gli ormeggi dal porticciolo di Rossaveel, immerso nelle nebbie eterne del Connemara, l’orologio segna tre quarti d’ora di traversata per raggiungere Inishmore, la più grande delle isole Aran. Ma forse è un’illusione, perché in questa striscia di roccia calcarea sferzata dal vento e sperduta nell’Atlantico il tempo sembra essersi fermato. Gli abitanti più anziani la chiamano ancora Inis Mór, e ricordano l’epoca in cui era considerata l’ultima roccaforte della cultura gaelica contro l’anglicizzazione dell’Irlanda. Una terra che dette i natali al più grande poeta in lingua irlandese, Máirtín Ó Direáin, e poi allo scrittore Liam O’Flaherty, l’illustre esponente del Rinascimento irlandese che sull’isola ambientò molti suoi romanzi. Al volgere del XIX secolo vi mise piede per la prima volta anche un drammaturgo dai baffi cadenti e dall’aria malinconica che sarebbe diventato uno dei grandi del teatro irlandese, John Millington Synge. A Parigi aveva incontrato William Butler Yeats, di qualche anno più vecchio ma già famoso, che gli dette uno di quei consigli che rivoluzionano la vita di un uomo: vai alle isole Aran, ci troverai una vita non ancora espressa in letteratura.

Racconti di fate e testimonianze di vita semplice e tragica

Synge seguì il suggerimento del grande poeta e vi trascorse varie estati e autunni, intrecciando rapporti con gli abitanti, approfondendo la conoscenza del gaelico, raccogliendo racconti di fate e testimonianze di una vita semplice e tragica. Legò per sempre il suo nome a quest’ultimo lembo primitivo d’Irlanda e alle persone che ci vivevano divenendo il cantore dell’Irlanda rurale e primordiale, il drammaturgo paragonato ai greci per la profonda adesione al dolore umano. «Sono a Inishmore, seduto accanto a un fuoco di torba, e ascolto un mormorio in gaelico che sale da un piccolo pub verso la mia stanza», scrisse nell’incipit della sua raccolta di racconti Le isole Aran, pubblicata per la prima volta nel 1907. Tutte le sue opere teatrali sono ambientate o fortemente influenzate dal periodo che trascorse a Inishmore e in un’altra delle isole Aran, Inishman. Li descrisse come luoghi magici ma assai poco adatti per viverci, come avrebbe confermato anche un grande classico del documentario della prima metà del ’900, L’uomo di Aran del regista statunitense Robert Flaherty. Ancora oggi, è proprio ciò che manca a rendere Inishmore un’isola dal fascino senza tempo. Le macchine sono una rarità, ci si muove a piedi, in bicicletta o a bordo di piccoli pulmini guidati dagli abitanti. L’elettricità è arrivata soltanto negli anni ’70. Intorno al villaggio si scorgono poche casette colorate, due pub e poi i viottoli che serpeggiano fra ali basse di muretti di pietra a secco che disegnano strade e confini. Piccoli appezzamenti di pascolo, ampi spazi incontaminati e rovine di antichi monasteri che si ergono lontane dal frastuono degli uomini. « L’interesse supremo dell’isola – annotò ancora Synge - risiede nella strana concordia che esiste tra le persone e gli impersonali impulsi limitati ma potenti della natura che è intorno a loro». In questa terra ricca di leggende, di silenzio e di echi letterari e cinematografici vivono oggi poco più di settecento abitanti fieri della loro storia e delle loro tradizioni. Due secoli fa erano circa tre volte tanti ma poi le carestie dell’Ottocento e le durissime condizioni di vita avrebbero costretto molti di loro a partire per non fare più ritorno. Gli odierni abitanti sono dediti a un turismo lento, sostenibile e rispettoso dell’ecosistema naturale. Quelle che incrociamo sono persone ospitali che salutano ancora alzando tre dita della mano, quasi per benedire, come facevano gli antichi monaci che si rifugiarono qui a meditare in cerca di silenzio e di spiritualità.

Hollywood è tornata agli "Spiriti dell'isola"

Un anno fa Hollywood si è affacciata di nuovo: il regista britannico Martin McDonagh vi ha portato il set del suo film candidato a nove Oscar, Gli spiriti dell’isola. Poi i riflettori si sono spenti di nuovo e la vita è tornata a scorrere come prima. Visitare quest’isola, oggi, è come risalire alle radici di un’esistenza che coinvolge solo i principi fondamentali: il confronto con un territorio ancora selvaggio in un fazzoletto di terra immutato da secoli, il rude contatto con una natura violenta che supera ogni immaginazione e può mettere i brividi, il ricordo di una lotta impari con il mare che in passato vedeva quasi sempre l’uomo soccombere. «Molti sono stati inghiottiti dalle acque dell’oceano in tempesta, che in alcuni casi non hanno neanche restituito i loro corpi », racconta un artista locale, Cyril Flaherty, indicandoci una serie di monumenti allineati di fronte al mare e sormontati da piccole croci. Tristi cenotafi senza nome, eretti in memoria di questi Malavoglia del nord. È lui ad accompagnarci in un paesaggio lunare che evoca quadri, poesie e un passato leggendario. Un paesaggio solcato da torbiere, minuscoli rivoli d’acqua e un terreno che è una lastra di pietra naturale. «Coltivarlo potrebbe sembrare un’impresa impossibile ma la gente del posto ha imparato da secoli a rendere fertile anche la pietra, collocandoci sopra uno strato di sabbia e alghe marine», ci spiega. Nella parte settentrionale dell’isola, però, non si incontra anima viva. I sentieri di roccia si fanno sempre più impervi e cominciano a salire finché non si scorgono, quasi all’improvviso, i contorni del Dún Aengus, il più celebre dei forti preistorici delle isole Aran. Costruito durante l’Età del bronzo e risalente al I millennio a.C., è formato da una combinazione di quattro cinte murarie concentriche, con uno spessore che in alcuni punti raggiunge i quattro metri. In lontananza si avvertono rumori inquietanti che sembrano esplosioni. Solo all’interno delle mura ci si rende conto che il forte è affacciato su una scogliera di calcare a picco sull’Atlantico alta oltre un centinaio di metri. Quelle che sembravano esplosioni sono in realtà le onde che si infrangono violentemente sulla roccia. Dal promontorio l’oceano risuona cupo, non si può non provare un brivido di vertigine di fronte all’immensità della natura. A separarci dall’abisso non c’è neanche una spalliera di protezione.

Sulla scogliera le grotte dei druidi

Un tratto di scogliera sotto al Dún Aengus è stato denominato “Wormhole” (“buco del verme”) perché è formato da ampie grotte scavate nei secoli dall’incessante forza delle acque. La posizione del forte suggerisce che la sua funzione principale non fosse di natura militare bensì religiosa e cerimoniale. Si pensa che sia stato usato dai druidi, gli antichi sacerdoti dei Celti, per riti stagionali. Lo scrittore Liam O’Flaherty – che nacque qui nel 1896 – scrisse: «quest’isola ha il carattere e la personalità di un Dio muto. Si è intimoriti dalla sua presenza, si respira la sua aria. Su di essa aleggia un senso travolgente di grande, nobile tragedia. L’instabilità della vita nell’isola trasforma gli amici in nemici e i nemici in amici con sorprendente rapidità». Quasi una metafora della guerra civile, che anticipa la trama del film Gli spiriti dell’isola.

avvenire.it

- Segnalazione web a cura di Giuseppe Serrone e Albana Ruci turismoculturale@yahoo.it

'Drive in' in mare per ascoltare poesie e musica

 

Un leudo, tipica imbarcazione ligure, in mezzo al Golfo dei Poeti diventa il palco da cui leggere versi, davanti a un pubblico disposto su barche e gommoni. La cornice sarà l'anfiteatro naturale dell'insenatura della Spezia, con Porto Venere e Lerici ai due capi. Musica e poesia saranno protagoniste di 'Sail-in', un drive-in sulle acque del mare, il 10 agosto, in occasione della notte di San Lorenzo. Nel golfo amato da Shelley e Byron, ma frequentato anche da Montale, Petrarca, Marinetti, la poesia si riprende uno spazio. 'È ancora un golfo per poeti' lo slogan del gruppo Mitilanti, gioco di parole tra militanza e mitili, il prodotto tipico della Spezia. Gli organizzatori sono cinque giovani appassionati di scrittura che da tempo provano a riportare il discorso poetico al centro di una delle terre, e dei golfi, che ispirò e accolse il talento di grandi letterati. Tanto che Sem Benelli indicò il golfo spezzino come 'Golfo dei Poeti'. "Non vogliamo solo celebrare una tradizione, ma anche rinnovarla - spiega Filippo Lubrano, uno dei Mitilanti -. L'obiettivo è prenderne il testimone e renderla contemporanea. La poesia è una materia viva e ce n'è ancora un grande bisogno". L'evento Sail In era stato giù proposto nell'estate del 2020, in piena pandemia, con l'idea di realizzare uno spettacolo poetico in completa sicurezza. Quest'anno la manifestazione verrà riproposta: sono previste circa 150-200 spettatori che arriveranno con 30-40 imbarcazioni pronte ad avvicinarsi al suggestivo leudo Nuovo Aiuto di Dio, che domani arriverà da Sestri Levante e sarà in rada nei pressi della diga foranea spezzina. La partecipazione è gratuita, e per chi non ha una imbarcazione sono stati messi a disposizione i contatti di una società di noleggio cui rivolgersi che fornirà dei gommoni per raggiungere il leudo, indicato con le coordinate nell'invito. L'appuntamento è alle 19, quando Manuel Picciolo introdurrà la serata con alcuni brani musicali, dopodiché partiranno le letture di poesie dedicate al mare. Saranno presenti le telecamere della tv inglese Channel Four, che "inserirà questo momento in un documentario in stile grand tour dell'Italia che è in corso di realizzazione" spiegano gli organizzatori. Tra le iniziative già realizzate di Mitilanti le poetry slam, cioè gare poetiche, laboratori di scrittura creativa, masterclass con scrittori come Giulio Mozzi e Walter Siti (premio Strega) e le 'Poetry take away & delivery': consegne a domicilio o da asporto di poesie, lette al citofono o consegnate nelle box, pensate per il periodo del lockdown.
ansa

Cultura: 10 poeti italiani del Novecento da leggere assolutamente

Proprio per soddisfare la curiosità di chi legge e ama le poesie, abbiamo preparato una lista di 10 poeti italiani del Novecento, alcuni più noti (perché spesso studiati a scuola), e altri meno conosciuti (ma non per questo meno importanti). Certo, questa nostra breve selezione non ha la pretesa di essere esaustiva (ci sarebbero moltissimi altri nomi da citare e ricordare), ma ha la speranza di diffondere un po’ di bellezza e di meraviglia, se è vero che, come diceva Walt Whitmanla poesia salverà il mondo.

E se poi a qualcuno venisse voglia di approfondire altre figure di questo periodo storico, rimandiamo alla lettura di una nuova raccolta, Il verso giusto. 100 poesie italiane (collana i Robinson/Letture, Laterza), scritta dal grande linguista e filologo Luca Serianni, che ha scelto cento poesie del Novecento per valore assoluto, rappresentatività e, naturalmente, gusto personale.

eugenio montale Getty novembre 2020

Satura, Eugenio Montale

  Nato a Genova nel 1896 da una famiglia di commercianti, Eugenio Montale (Premio Nobel nel 1975) inizia a frequentare fin da giovanissimo gli ambienti culturali e letterari. La sua prima raccolta di liriche, Ossi di seppia, risale al 1925, e subito si fa notare per l’originalità del linguaggio e dei temi trattati. A questa pubblicazione seguono poi Le occasioni, in cui è evidente l’adesione alla poetica dell’ermetismo, La bufera e altroLa farfalla di Dinard e Auto da fé. È nel 1971 che esce Satura, che contiene gli Xenia, un gruppo di liriche dedicate al ricordo della moglie, Drusilla Tanzi, deceduta nel 1963, e chiamata con l’appellativo affettuoso di “mosca”. Tra queste compare la celebre Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, una poesia dal sapore diarisitico e prosaico, che esprime tutto il dolore della perdita e della mancanza attraverso un linguaggio scorrevole e diretto. Giorgio Caproni

Il seme del piangere, Giorgio Caproni

È il 1912 quando Giorgio Caproni nasce a Livorno. Ancora bambino si trasferisce a Genova con la famiglia, e qui compie i suoi studi. Diventa maestro elementare e inizia a pubblicare i primi volumi di poesia, tutti rivolti alla ricerca di una musicalità della parola, come tipico della sua scrittura: è il periodo in cui nascono Come un’allegoriaBallo a FontanigordaFinzioni e Cronistoria. Dal 1945 si stabilisce a Roma dove continua a insegnare e a scrivere. Nel 1959 esce Il seme del piangere, centrato sulla costruzione del personaggio della madre defunta, Annina. Sempre caro gli fu infatti il tema del lutto e della comunicazione con essenze invisibili (morti, ricordi, figure fantasmagoriche), uniche possibili interlocutrici con cui affrontare la tranisitorietà e la provvisorietà della vita umana.

Antonia Pozzi

Desiderio di cose leggere, Antonia Pozzi

È sempre del 1912 Antonia Pozzi, poeta di origini milanesi, venuta a mancare all’età di ventisei anni, quando decide di togliersi la vita avvelenandosi con barbiturici. Ipersensibile, dolce e dotata di un’intelligente brillante: l’autrice ha attraversato un’esistenza piena di conflitti, dapprima quello con il padre, che le vieta di proseguire una relazione amorosa con il suo insegnante di italiano, e poi quello religioso. Praticamente sconosciuta al grande pubblico per molto tempo, Antonia Pozzi ha lasciato più di trecento composizioni, mai pubblicate in vita. Tutte le sue poesie sono state raccolte e pubblicate postume in diverse antologie, attraverso le quali possiamo conoscere la voce unica, “leggera, pochissimo bisognosa di appoggi, che tende a bruciare le sillabe nello spazio bianco della pagina“, come scrisse Eugenio Montale.  

Nel magma, Mario Luzi

Mario Luzi nasce a Firenze nel 1914. Si laurea in letteratura francese e inizia a insegnare in varie scuole, medie e superiori, e poi presso l’Università di Firenze. Esordisce con la raccolta di poesie La barca, nel 1935, nel pieno degli anni dell’ermetismo, che condiziona all’inizio molto il suo stile di scrittura. Si sposta però poi verso espressioni più aperte, colloquiali e discorsive, in un raro equilibro fra recitativo e canto. È di molto tempo più tardi una delle sue opere più memorabili, Nel magma, del 1963, da cui emerge tutto il suo tratto malinconico e drammatico: i versi si esprimono in una forma più ampia e immediata, assumendo le forme di un pensiero poetante su istanze essenziali della natura e sugli interrogativi dell’umano.

Pier paolo pasolini

Poesia in forma di rosa, Pier Paolo Pasolini

Nato a Bologna nel 1922, Pier Paolo Pasolini è uno degli intellettuali più splendenti del Novecento. Romanziere, poeta, giornalista, regista, drammaturgo, pubblica all’età di vent’anni la sua prima raccolta, Poesie a Carsara, che confluiranno poi nel volume La meglio gioventù, e poi ancora ne L’usignolo della chiesa cattolica. Nel 1947 si iscrive al Partito comunista ed esercita un’attiva militanza politica, nel frattempo inizia a insegnare, ma quasi subito viene sospeso dal mestiere ed espulso dal PCI perché accusato di corruzione di minori. Si trasferisce quindi a Roma ed entra a contatto con la vita del sottoproletrariato: è questo il momento in cui viene alla luce uno dei suoi romanzi più celebri, Ragazzi di vita, e a seguire, Una vita violenta. Intanto inizia a lavorare come sceneggiatore cinematografico, ma non abbandona la scrittura di versi: escono Le ceneri di GramsciLa religione del mio tempo e Poesia in forma di rosa. Quest’ultima è un vero e proprio romanzo autobiografico in versi che – osservava l’autore in un’intervista – “racconta punto per punto i progressi del mio pensiero e del mio umore” in quegli anni. È in questa antologia che compare l’indimenticabile Supplica a mia madre: “Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data”. Tutte le poesie (>>>Pasolini in offerta su Amazon)   (Giovanni Giudici - Tutte le poesie in offerta su Amazon)

La vita in versi, Giovanni Giudici

Poeta prolifico, poeta del quotidiano: Giovanni Giudici nasce a Le Grazie (La Spezia) nel 1924. Come Pasolini, anche lui si dedica all’attività politica e intanto si guadagna da vivere come giornalista. Lavora per molto tempo nell’ambito pubblicitario della Olivetti e si afferma come autore con L’educazione cattolica e La vita in versi, due raccolte che mostrano la capacità dell’autore di rappresentare il reale, con assoluta grazia, delicatezza e semplicità. Quest’ultimo, in particolare, è un libro che esprime alla perfezione il disagio dell’intellettuale e dell’uomo rispetto ai modi di vita del neocapitalismo nella Milano del boom, e soprattutto l’urgenza di vivere di poesia come unica via per sopravvivere davvero: “Inoltre metti in versi che morire è possibile a tutti più che nascere. E in ogni caso l’essere è più del dire”.  

Gli strumenti umani, Vittorio Sereni

Anche Vittorio Sereni, nato a Luino (Varese) nel 1925, condivide con i colleghi poeti il mestiere dell’insegnante. Durante gli anni della maturità, si trasferisce a Milano e frequenta circoli letterari che fanno capo alla rivista Corrente. Nel 1941 viene pubblicato il suo primo libro, Frontiera, ma è del suo terzo volume che vogliamo parlarvi, Gli strumenti umani, opera che segna in Italia il definitivo superamento della corrente ermetica e l’apertura verso un modo di scrittura sospeso ed errante, continuamente forato dai disvelamenti, epifanie, segreti ed ombre.  Una poesia fatta di bisbiglii, voci e vibrazioni, dove la tradizione viene conservata e rielaborata per aprire la strada alla sperimentazione degli anni successivi.

Laborintus, Edoardo Sanguineti

Tra i più noti nomi del gruppo ’63, Edoardo Sanguineti nasce a Genova nel 1930. Docente di letteratura italiana e studioso di Dante, è un critico e poeta della neoavanguardia. Le sue opere di versi sono il manifesto della sperimentazione poetica di cui parlavamo poc’anzi, mostrando la disgregazione del linguaggio e del senso. Come la prima, Laborintus, del 1956, raccolta audace ed estrema, che rivela già la vocazione profonda di quello che Romano Luperini definisce “l’ultimo intellettuale del Novecento”.  

La Terra Santa, Alda Merini

Nata nel 1931, il 21 marzo, in primavera, come fa notare in una delle sue poesie più celebri: Alda Merini è milanese doc, ed è proprio nel capoluogo lombardo che cresce e studia, appassionandosi fin da subito alla poesia. Esordisce infatti all’età di 15 anni, grazie ad un’insegnante delle medie che ne scova e ne apprezza il talento. La raccolta La Terra Santa (Scheiwiller), del 1979, la rivela come grande autrice e segna l’inizio del suo successo, con un’opera che racconta l’esperienza vissuta in ospedale psichiatrico. In questo volume, la scrittrice utilizza la vicenda dell’esodo del popolo ebraico in Terra Santa come metafora del periodo trascorso in manicomio, tracciandolo con toni esasperati, e ossessivi che restituiscono una sensazione di tormento e claustrofobia. Con La Terra Santa, Alda Merini vince nel 1993 il Premio Librex Montale.   poeti italiani novecento

Cento quartine e altre storie d’amore, Patrizia Valduga

Poetessa e traduttrice, Patrizia Valduga nasce a Castelfranco Veneto nel 1953. Studia medicina, ma cambia percorso per intraprendere gli studi letterari. Vive a Milano e si dedica allo studio di Mallarmé, Valery, Donne, Molière, Céline, Cocteau e Shakespeare. Intanto si afferma come autrice, attratta da una poesia che molto ha a che fare con il teatro: la sua raccolta Cento quartine e altre storie d’amore è del 1997 e ospita cento quartine che raccontano, senza censure, quello che succede fra un uomo e una donna nel “tempo reale” di un incontro d’amore. Nel finale, mille versi per raccontare la metamorfosi di una sopraffazione erotica in un’esperienza o visione iniziatica: due storie diversissime e complementari, racchiuse entrambe nello spazio di una sola notte.

Poesia per LetterAltura 2019

"Librarsi in aria, volare lontano".

Volo
guardo sul molo
nel cielo l'aria
soffia bonaria
il vento
lo sento
vibra libero
un cuore vero
senza prigioni
quante vibrazioni
la montagna porta profumi
accendono lumi
nuovi indizi
nuovi inizi
basta amare
provo a volare
coi venti del ricordo
lascio il sordo
letto e ripartono
senza suono
le vele della fantasia
verso il porto della poesia...
(di Giuseppe Serrone Verbania 1 Settembre 2019)

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Leopardi: al Cairo l'Infinito in arabo In Egitto partono celebrazioni 200 anni celebre canto

SERRAPETRONA (MACERATA) - Partono dal Cairo le celebrazioni per i 200 dalla scrittura e pubblicazione dell'Infinito di Leopardi, che cadono nel 2019. Una ricorrenza onorata anche con il progetto 'Infinito 2000' nato da un'idea del poeta Davide Rondoni e del Centro di Poesia Contemporanea di Bologna e promosso dalla Fondazione Claudi di Serrapetrona e dal Cesma (Centro Studi Marche) di Roma. Due gli eventi in programma il 17 e il 18 marzo al Cairo in collaborazione con l'Istituto Italiano di cultura: il 17 la lettura e il commento da parte di Davide Rondoni della poesia 'festeggiata' con la traduzione in arabo nel quartiere popolare del Moqattam con la comunità dei copti Zabalin (i raccoglitori di immondizia). Domenica 18 marzo, presso la sede di Italianistica dell'Università di Helwan, si terrà l'evento letterario "Italia culture Mediterraneo-Infinito Mediterraneo", in collaborazione con l'Istituto Cervantes del Cairo. In serata al Geek Campus del Cairo un concerto mediterraneo di Eugenio Bennato.
ansa

Lorca, l'usignolo della bellezza


Con questa ricchissima monografia Gabriele Morelli riporta il fuoco dell’attenzione su Federico García Lorca(1898-1936), che in diverse fasi della nostra cultura entrò nella poesia e nel teatro italiani con la forza prorompente della sua musica variatissima (Garcia Lorca, Salerno, pp. 320, € 16). 

Nella bibliografia sterminata su Lorca conferiscono a questo libro una preziosa unicità la frequentazione di Morelli con i suoi eredi (la sorella Isabel e Manuel Fernandez-Montesinos García, figlio dell’altra sorella Concha e di Manuel, il cognato fucilato poco prima di lui) e con gli ultimi testimoni: la passione critica che accompagna ogni istante il farsi della poesia nella vita pubblica e privata, nella condizione drammatica dell’omosessualità e in tante zone d’ombra non risolte, che culminano con la morte: la viva descrizione degli ambienti, dall’infanzia di Federico immersa nella natura di Fuente Vaqueros a Granada, Madrid, New York, Cuba, il Sudamerica, la Spagna cupa che lo martirizza.La parola di García Lorca nasce con la musica, una trasmissione materna che include lo zio Baldomero, il maestro Segura, e dal 1919 il grande Manuel de Falla: pianoforte e chitarra classica fusi nella ricerca sul campo di motivi popolari, gitani e moreschi. Ma essi diventano subito un’invenzione assoluta, una cosa nuova, mai conosciuta, su cui fioriscono tutte le sperimentazioni che Lorca prova instancabilmente.

Il poeta va a caccia: caccia notturna in un bosco lontanissimo. Prova «comprensione simpatica dei perseguitati. Del gitano, del negro, dell’ebreo... del moro che tutti noi portiamo dentro». Nel giugno 1936, quasi allo scoppio della guerra civile confessa che in quei momenti tragici l’artista deve «ridere e piangere col suo popolo. ... rinunciare al mazzo di gigli e tuffarsi nel fango fino alla cintola per aiutare quelli che cercano i gigli».Federico coglie come un’ape ora la libertà d’associazioni del surrealismo senza le sue gratuità (dopo il primo Libro de poemas 1921, nel Poema del cante jondo 1921/2-1931, nelle Canciones 1924, nel Romancero gitano 1928).

Ora acuisce e dilata suoni e fantasmagorie dell’America nell’età del jazz, della cultura negra che lo appassiona, e della mostruosità di Wall Street alla vigilia del crollo nel Poeta en Nueva York 1929/30-1940: e che meraviglia la fluente, liberata “Oda a Walt Whitman”. Ora assorbe l’eros di Hafiz incarnato in El Andalus nel Diván del Tamarit(1936). Ora trasforma Shakespeare, Góngora, san Juan de la Cruz e il Cantico nei portentosi Sonetos del amor obscuro che vennero scoperti dopo la morte, editi nel 1984: poesia d’amore di una bellezza quasi inarrivabile.In un testo non bello del 1818, “El canto del miel”, Lorca dichiara l’ascendenza mitica del poeta ape: i Greci chiamano api le Muse. 

La sua arnia è una stella casta, pozzo di ambra che alimenta il ritmo delle api. La poesia è il miele, che addensa metafore: parola di Cristo, oro fuso del suo amore, la cui perfezione di nettare è mummia della luce del paradiso: materialità dell’infinito, anima e sangue dolente dei fiori condensata attraverso un altro spirito: canto dell’età dell’oro, liquore divino dell’umiltà, incarnazione dell’armonia, essenza geniale e dorata del lirismo, dolce come il ventre delle donne, gli occhi dei bambini, le ombre della notte, una voce, un giglio: supremo sole che illumina, consola, equivale a tutte le bellezze, al colore, alla luce, ai suoni: liquore divino della speranza dove l’anima e la materia in unità raggiungono equilibrio perfetto come nell’ostia il corpo e la luce di Cristo. 

“El canto del miel” esalta la lirica: musica dolcezza che viene dal dolore. Una scelta sacra, sacrificale, per niente di moda oggi.Come espone ampiamente Morelli, intorno a Lorca sin dagli anni Venti e non solo in Spagna, s’irradiano interessi e scambi di un ambiente internazionale con al centro Jiménez, Ortega y Gasset, Unamuno, Valle-Inclán, i Machado. Vi si uniscono i più giovani Salvador Dalí e Luis Buñuel, Jorge Guillén, Rafael Alberti, Pablo Neruda, Vicente Aleixandre, Damaso Alonso, Gerardo Diego, Luis Cernuda. Le arti si fondono con le lettere, il teatro le riassume, e prima l’attività della Barraca con la diffusione dei classici nelle campagne, poi i tour oltreoceano espandono la meteora di Lorca.

D’improvviso, la sua barbara esecuzione da parte di militanti franchisti gettò l’aura del martirio sul fascino che già lo circondava, non solo in chi ne aveva riconosciuto subito il genio mobilissimo e la grazia suprema di grande malinconico. Si riverberava in ogni forma di mitizzazione.Nel 1955 la voce di Federico García Lorca risuonò nelle case italiane attraverso le profonde vibrazioni del Lamento per Ignacio Sanchez Mejias letto da Arnoldo Foà col commento musicale di Mario Gangi per la chitarra di Piero Gosio, che scandiva l’andamento a concerto del poema. Tutti furono conquistati da una poesia nobile e tragica, potente e suasiva, familiare per la sua classicità e insieme esotica, che esaltando la figura di Ignacio non solo torero ma simbolo della cultura spagnola, attraeva verso paesaggi di un comune fondo mediterraneo bruciato da miti oscuri e solari, da tenerezze soavi e profumi arabizzanti, da ferocie sanguinose e da un nero abbagliante. Carlo Bo, che dopo Angiolo Marcori (Poeti nuovi di Spagna, “Rassegna Nazionale”, 1930), Giuseppe Valentini e in seguito Oreste Macrì aveva tradotto Lorca verso la fine degli anni Trenta e nel 1962 ne avrebbe pubblicato tutte le poesie con Guanda, un anno dopo l’edizione di Vittorio Bodini di tutto il teatro per Einaudi, presentava il Lamento come il frutto più maturo, un vero e proprio testamento, “la parte più alta” della poesia di Lorca nel senso dell’elegia.
avvenire

Reportage Caucaso, poesia e vino Viaggio in Georgia

Ci sono popoli che devono essere raccontati. Hanno vicende importantissime. A volte salgono alla ribalta per motivi geopolitici di forte attualità, poi rientrano, per noi, nel loro buio millenario. Li conosciamo poco o niente. 
Ad esempio i Georgiani. Verrebbe da dire, per iniziare questo racconto che qualcun altro proseguirà: be’, sono come gli italiani, una grande storia alle spalle e una gran voglia di stare bene. E hanno il senso dell’amicizia. Quando Boris Pasternak fu espulso dalla unione degli scrittori sovietici nessuno lo andava piu a trovare. Si recavano da lui solo gli amici poeti e scrittori georgiani. A loro scrisse delle lettere bellissime, uscite in un libro. 

Uno di questi era Titsian Tabidze. Morì in una prigione sovietica nel ’37. Il suo viso di ragazzo serio e lucente mi ha accompagnato nel breve viaggio che ho compiuto per un festival di poesia in una tenuta a due ore da Tbilisi. E nel parco museo di Tsinandali, con il padrone di casa Georg e il suo socio, con le foto della stirpe dei Chavchavadze, stirpe di generali, principesse e letterati, con il bravo poeta georgiano Dato Meghnaze e sua moglie, la elegante Lali, circondati da parenti, amici e invitati, ecco, ho avuto la riprova: somigliano agli italiani questi pazzi georgiani. Lo si capisce da come amano il vino, ad esempio, o da come cantano. E dall’orgoglio con cui fanno risalire un sacco di cose alla loro terra. 

Qui era l’antica Colchide, gli argonauti vennero a cercare il vello d’oro, la maga Circe era di queste parti. Poi si allargano un po’: dicono che gli etruschi erano protogeorgiani, che son state trovate qui le prime ossa di uomo europeo, che c’è oro a bizzeffe. Difficile credere a tutto, mentre non la finiscono di fare brindisi e viene il sospetto che li facciano giusto per versarsene un altro po’. Ci somigliano, però ci sono apparizioni straordinarie che ti fanno pensare: «Ma dove sono finito?». E non mi riferisco alla bizzarra Rolls Royce rosa che spunta su una piazza a Tblisi. Ci sono apparizioni e storie che si imprimono per la loro verità. Ad esempio, i gioielli d’oro antichi tolgono il fiato, e le spade e i pugnali. È un paese terra di re, principesse e nobiltà. Il re Davide IV l’edificatore, strappò queste terre all’islam dopo che già nel IV secolo si erano convertite al cristianesimo. Ancora è onorato. Così come re Eracle II, nella regione di Kakheti, il cui centro Telavi è un paesone di dolce collina in faccia ai monti del Caucaso. Sì, qui si sentono di sangue regale. È un Paese ponte, a questo deve la sua fortuna e la sua sofferenza. Sempre preso di forza, dai mongoli ai comunisti. Ora ci sono altri modi di dominare. 

Ma la Georgia può essere protagonista del proprio destino. Ha condizioni geopolitiche (tra cui il privilegio di un trattato di libero scambio europeo) e caratteristiche di distribuzione della proprietà che offrono buone prospettive in campo agricolo e turistico. Perciò l’amicizia con gli italiani può far fiorire varie cose. Lo pensano in tanti qui, tra questi anche l’ambasciatore italiano, Antonio Bartoli, da sette mesi mandato quaggiù dopo importanti esperienze negli Usa. Somigliano e non somigliano agli italiani, dunque. 

Il principe Andronikos conversa e canta con la malinconia nobile e invincibile che conosciamo bene. Ma con una dolcezza lievemente orientale che da noi è rara. Le donne sono eleganti e sanno essere pazze. Alcune conservano dolori dentro come un diadema, uno sparo. Altre, come Nunu Geladze, splendida traduttrice, cantano tirando fuori una voce che viene dai grandi boschi e dalle distese del Caucaso. Qui molti hanno visto amici sparire, intere famiglie. 
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L'antico monastero di St. Ninos a Samtavro

E nel Museo dell’occupazione sovietica, all’entrata immerso in una luce rosso sangue sta il vagone maledetto traforato dai colpi della mitragliatrice su cui erano molti intellettuali. Sembra un oggetto di mille anni fa, ma sono solo ottanta. Con il grande cugino russo che pulsa subito di là dal confine la partita è ancora aperta. I media di tutto il mondo hanno documentato la durezza di certe repressioni, prima che si arrivasse alla indipendenza, nel ’92 e poi – con la rivoluzione delle rose nel 2003 – all’attuale struttura politica. 

Il passaggio dall’abbraccio con l’ingombrante vicino alla libertà non è stato indolore. In una foto del museo si vede una bella ragazza che da un auto sventola una bandiera, piena di determinazione e di speranza nei giorni della indipendenza. Ora quella donna, mi dicono, fa la badante o qualcosa del genere in Italia. Tblisi è una città bizzarra, una storia di continue sovrapposizioni. È nata in modo bizzarro, del resto. La sua storia, infatti, inizia da un fagiano caduto nel fiume. Il suo cacciatore, l’antico re Vakhtang Gorgassali, scoprì così le proprietà delle acque calde di qui, sulfuree e curative. La Georgia è situata in un punto strategico, un ponte, un corridoio un tempo per la seta oggi per il gas. È senza popolazione numerosa, con una industria poco sviluppata. Ci sono più georgiani in Turchia che in Georgia, dicono i numeri. 

E ovunque ne trovi, anche a Palermo, dove c’è una giovane scrittrice che vi arrivò profuga, Ruska Jorjoliani, o a Bari, Milano. Ma forse non somigliano a nessuno i georgiani. A settembre viene il Papa. Viene apposta per loro. Perché sono unici, come l’alfabeto incomprensibile che usano. Ce l’hanno solo loro al mondo, qualcosa vuole dire...
Avvenire

Poesia per il Salone del Camper 2012

Camper per natura
Natura
matura
mete cercate
terre sognate
cammini
come mulini
dal vento guidati
in alto issati
cercano altre uscite
lontano, mai capite.
Percorro stellate discese
con le speranze tese
verso lidi raggianti
posti mai raggiunti
e volo con il pensiero
verso un mondo più vero...

(testo di Giuseppe Serrone composto alle Fiere di Parma - Salone del Camper 2012 - 7 Settembre 2012)

Turismo culturale: l'Antica Cava di Ornavasso tra musiche e poesia.

Sono stato a visitare l'Antica Cava di Ornavasso all'inizio dell'estate 2010, accompagnato dal Sindaco di Ornavasso Dottor Antonio Longo Dorni. Tutte le informazioni sulla cava sono visibili online www.anticacava.it (v.anche www.ornavasso.it)

Ad Ornavasso si trova l'insediamento più a bassa quota degli antichi Alemanni (www.waiser.it)

Tra le stradine che portavano all'Antica Cava intravedevo e immaginavo un percorso tra miti e leggende, eredità di un lontano passato: camminavo, osservavo cullato nella natura e avevo davanti un posto tutto da scoprire la montagna dei laghi (www.distrettolaghi.it)

Un itinerario di spiritualità vissuta con senso dell'arte e amore per la natura.

Per soggiornare vi segnaliamo un bellissimo "Bed'n Breakfast" di recente ristrutturazione che ci ha offerto un piacevole soggiorno.

Una delle camere della struttura, quella matrimoniale, ha un suggestivo letto a baldacchino. La camera si chiama "Romantica" e ci ha offerto l'occasione per scrivere una poesia dedicata alle gestrici della struttura Mara e Rossana e alla cittadina di Ornavasso, dal titolo "Romantica"

Romantica
antica,
amica, una stanza
risonanza
nel cuore
l'amore
le ore passate
risate
nei luoghi
i roghi
di brutti ricordi
primordi
di fasci di luce
produce
creo lampi
campi 
di rosa
riposa
la mente
senza niente
arrivo
giulivo
riparto
dal porto
della vita
in salita
di luce ripieno
come l'arcobaleno...

(scritto da Giuseppe Serrone per Turismo Culturale - il 24 Ottobre 2010)


Per soggiornare:
 "Ca' dei Twergi"
Via G. Marconi n.30
Tel: 338.6516946 (Rossana) - 348.2537925 (Maura) - Fax: 0323.836181
EMail: caditwergi@gmail.com - web: www.caditwergi.it