Più si sale in Galilea più si tocca con mano la necessità di sicurezza d’Israele. Persino la grande riserva d’acqua Eskhol, che porta il nome di un primo ministro israeliano, è un tesoro super protetto da una barriera elettrificata, telecamere e guardie armate. Nel timore che i terroristi provino ad avvelenare le falde. A Kiryat Shmona, “la città degli otto”, costruita in memoria dei primissimi pionieri socialisti che vennero quassù a fondare i kibbutz, ci si arriva da una strada di campagna che passa fra coltivazioni di frutta e verdura. Ogni tanto si incrocia qualche ciclista. E’ terra bruciata dalle bombe e dagli incendi. Strisce nere e bollenti solcano il terreno, punteggiate da mozziconi che furono aceri e cedri. Sono morti molti eucalipti importati dall’Australia. C’è silenzio sul confine israeliano col Libano, sopra Kiriat Shmona e sotto Metulla, dove nei giorni della guerra il concerto dei katiuscia la faceva da padrone. Un silenzio che gli israeliani del posto chiamano “cosiddetto”, perché è più il vibrare di una guerra che verrà e che avrà gli occhi di Ahmadinejad. E’ la quiete prima della tempesta.
Le ceneri delle ginestre accolgono il visitatore. Più a nord la strada s’incunea tra le colline irte di antenne e posti di osservazione: sulla destra il Golan e le creste una volta innevate del monte Hermon; a sinistra, le villette-bunker dell’insediamento di Metulla; in faccia, a tiro di kalashnikov, i minareti del villaggio arabo di Kfar Kila. Siamo nell’“unghia d’Israele”. Come al sud, a Sderot, la città bombardata ogni giorno da Hamas, ogni casa a Kiryat Shmona sta per essere munita di rifugio. La fila di case è interrotta da una nuova costruzione, una per piano, in cui le famiglie possono rifugiarsi in vista del prossimo conflitto scatenato dall’Iran. Il terrore più grande di questi ventimila abitanti è che l’allarme possa capitare quando i loro bambini sono soli per strada.
Qui Hezbollah, nell’estate del 2006, ha lanciato un migliaio di missili su tetti e strade. Gran parte dei duecento rifugi pubblici di Kiryat Shmona è stata restaurata, pronta all’uso, nuovamente. Perché il ciclo di violenza e di tregua quassù va avanti dal 1967. Sempre da qui Ariel Sharon e Menachem Begin lanciarono la tragica invasione del Libano del 1982. A Kiryat Shmona, orlata di alte montagne che echeggiano di tanto in tanto dello scoppio dei missili, ci sono una quarantina di asili nido e locali per bambini definiti “sicuri”. Israele ha ricostruito i rifugi per adibirli anche a uso civile, utili in tempo di pace. Rifugi sono oggi usati come biblioteche, club, scuole di danza e persino sinagoghe. In molti casi la città ha preferito non aspettare la lenta burocrazia del governo. E si è rivolta alla beneficenza privata. Alcuni rifugi di Kiryat Shmona, che i cittadini di qui hanno ribattezzato “Kiryat Katyusha”, sono stati possibili grazie alle donazioni della comunità ebraica nordamericana. Aharon Botzer è il fondatore di Livnot U’Lehibanot, l’organizzazione che ha raccolto il denaro necessario a rinnovare le strutture difensive della popolazione nella Galilea del nord. Livnot U’Lehibanot ha fatto il grosso del lavoro a Kiryat Shmona nel costruire e riparare i rifugi in preparazione della prossima guerra. Due milioni di dollari sono arrivati dalla diaspora statunitense.
“Il tempo è cruciale, non sappiamo quel che sta facendo Hezbollah”, dice Lisa Balkan, che si occupa delle relazioni pubbliche per l’organizzazione. “A novembre abbiamo iniziato a ricostruire i rifugi”, dice Boptzer. “Ne abbiamo rinnovato un centinaio, in gran parte erano del tutto inutilizzabili. Stiamo adesso proteggendo le scuole munendole di stanze contro i missili. Un grande aiuto ci arriva anche dai gruppi evangelici cristiani dagli Stati Uniti, molto generosi nell’aiuto alle città della Galilea del nord”. La triste expertise di Kiryat Shmona in fatto di bombe e traumi è diventata persino esportabile all’estero. Il Community Stress Prevention Center, che si trova nel vicino college di Tel Chai, ha fornito consulenza sui disastri in casi come il terremoto in Turchia, ad Haiti o l’uragano Katrina. Il cerchio fra il passato, il presente e il futuro di Israele sorge proprio su questa collina che guarda Kiryat Shmona. Tel Chai significa “la collina della vita”.
C’è un silenzio irreale fra le tombe del gruppo Hashomer Hatzair, i primi pionieri del movimento socialista che qui, negli anni Venti, vennero a fondare i kibbutz. Il leone si erge alto e solitario nella collina memoriale.
Di tanto in tanto qualcuno viene a rendere omaggio alle tombe, coraggiosi amanti del trekking e ministri della destra nazionalista. Il premier Netanyahu ci viene spesso. Ma in generale, questa collina è un luogo sempre più lontano dal cuore d’Israele, dalla modernità benestante di Tel Aviv e Herzliya.
Le tombe parlano. “Guardiano di Israele”, si legge su quella di Alexander Zeid. Nato in Siberia ed esiliato dalla polizia zarista, dopo i pogrom Alexander decise di fondare una milizia per proteggere gli ebrei. In Israele il suo gruppo prese il nome di Bar Giora, un eroe della rivolta contro i Romani. Il loro motto era: “Nel sangue la Giudea è caduta, nel sangue sorgerà di nuovo”. La scritta, immensa, campeggia di fronte alle tombe prive di sfarzo e pomposità. Chaim Shturman era nato in un villaggio ucraino, fu una leggenda del movimento laburista che coniugava lavoro e autodifesa. La sua pistola passò al figlio, che morirà nella guerra del 1948. Suo nipote cadrà in quella del 1967. Nel kibbutz sorge anche la tomba di Joseph Trumpeldor. Cercò di difendere il kibbutz di Tel Chai dall’aggressione araba, e prima di morire disse al poprio medico: “E’ un bene morire per il proprio paese”.
Un po’ troppo elegiaca per i tempi attuali. Eppure a Kfar Giladi altre storie parlano di eroismo. Sono quelle dei dodici soldati uccisi nel 2006. Erano paracadutisti, ma nella vita erano anche impiegati, avvocati, medici, professori universitari. Quando Israele li richiamò nella riserva, durante la guerra contro Hezbollah, gettarono nella borsa un po’ di biancheria e il sacco a pelo. Alla morte, a quella non pensavano. Andavano a rischiare la vita. I loro nomi sono incisi in un memoriale improvvisato vicino alle tombe degli anni Venti. A sua madre il soldato Bhaia Rein aveva detto: “Mi avete insegnato che bisogna dare tutto. Ma devi sapere che tutto alle volte significa proprio tutto”. Kfar Giladi in quei giorni era diventato il centro d’assembramento dei riservisti, arrivavano in bus, in moto, in autostop o con le auto con ancora i seggiolini dei loro bambini. “La sirena ha suonato, ha suonato per un minuto e loro niente, loro fermi lì, a parlare, a chiacchierare come se niente fosse”, dicono i responsabili del kibbutz. Sono stati uccisi il capitano Eliyahu Elkariaf e Yosef Karkash, morto insieme al cugino così che “la famiglia non sa chi consolare prima”. Shmuel Chalfon aveva quarantadue anni e non doveva essere nell’esercito, ma aveva insistito per partecipare alla guerra. Quando il razzo colpì il kibbutz, la madre di Shmuel vide in tv le sue scarpe a terra, inconfondibili.
A pochi chilometri da qui sorge Metulla, la città israeliana abbracciata al confine libanese dove negli anni Settanta i sicari di Arafat entravano per ammazzare studenti e turisti ebrei. E’ da qui che fin dal 2000 l’allora premier Ehud Barak si è ritirato entro i confini misurati dall’Onu. A Metulla fioriscono alberghi e attrazioni turistiche. Siamo a un tiro dai razzi di Hezbollah, eppure pare di essere in un sobborgo di San Diego. La città è troppo vicina alle rampe di lancio dei missili perché venga colpita, ma da qui Israele osserva i movimenti del nemico. Durante la guerra del 2006 a Metulla un terzo della popolazione fuggì via. Si temevano assalti ai civili. Oggi c’è una calma irreale. “Di là dal confine Hezbollah si sta riarmando fino ai denti”, dicono in paese.
Kiryat Shmona è come una fortezza silenziosa. Di shabbath nessuna macchina in giro, qualche passante con la kippah corre in sinagoga a pregare. Israele è fatto così, più si è ai suoi confini, più si è sotto attacco, più la gente si scopre religiosa. Durante l’ultima guerra i bambini in città disegnavano cupole bellissime in grado di proteggere la città dal cielo. Quella fantasia è quasi realtà. Alan Schneider, direttore del Bnai Brith World Center a Gerusalemme, spiega cosa sta facendo la sua organizzazione per aiutare la città: “Abbiamo finanziato un sistema antimissile creato dalla famosa Elbit Systems, è un sistema di telecamere e segnali sensibili in grado di fornirci informazioni su quel che accade a Kiryat Shmona e in altre città in caso di attacco. E’ un sistema sofisticato civile basato su una creazione militare. Abbiamo trovato i fondi necessari per l’implementazione delle unità mobili per il sistema di difesa. Il sistema è stato appena inaugurato. Siamo in grado di fornire una risposta rapidissima in caso di conflitto con Hezbollah”. Il capo di Bnai Brith si aspetta un nuovo round contro il Partito di Dio: “Di fronte al fallimento dell’Unifil e al passaggio di armi dalla Siria a Hezbollah, si teme il peggio. Oggi i terroristi libanesi hanno più armi di quante ne avevano prima della seconda guerra del 2006. A Kiryat Shmona forse oggi sono più in grado di rispondere alla guerra”.
Fa impressione constatare che i monti, che erano diventati neri per le bombe, ora sono verdi, che il traffico è di nuovo intenso. Non c’è traccia di effetti delle esplosioni a Kiryat Shmona. Si ricostruisce sempre subito. Eppure gli alberi più antichi d’Israele, le sue vecchie querce, carrubi e pini cresciuti uno a uno come bambini, non ci sono più. Ed è una grande tristezza per la gente perché le foreste della Galilea, simbolo di pace e di tranquillità, erano state la prima impresa di David Ben Gurion, il fondatore d’Israele. A differenza di prima e durante la guerra, ci si può affacciare su una terrazza che guarda i villaggi di Ataybeh, Markabe, Telkabe, teatri di sanguinose battaglie, si vede Hule in lontananza, la base Olesh dell’Onu. Nei villaggi di fronte si nascondevano uomini e missili di Hezbollah. Oggi pastori incaricati di osservare si danno il cambio prendendo nota di movimenti israeliani. Dietro a questo proscenio verde c’è un gran lavorio di riarmo e di ricostruzione, anche se mancano le bandiere gialle di Hezbollah e i cartelloni in cui mostravano la testa mozzata di israeliani. “Da quelle case lassù non vediamo mai una famiglia, un bambino, niente”, spiegano. Quelle case sono chiamate gli “occhi di Hezbollah”.
Non ci si mette tanto per arrivare sul Golan, le alture che Israele ha preso alla Siria nel 1967 e che sono oggi abitate da kibbutz e basi militari. L’allora capo di stato maggiore Yizchak Rabin diceva che questa è la terrazza usata dai siriani come rampa contro la Galilea. Sono appena due minuti di volo da un aeroporto siriano. Moshe Dayan, allora ministro della Difesa, sarebbe potuto giungere fino a Damasco, che dista appena settanta chilometri. La città di Quneitra sorge bassa e vicinissima sotto un’altura. Siamo ai confini più silenziosi d’Israele. Si ha fisicamente la sensazione di una fragilità strategica. Se Gerusalemme cedesse indietro a Damasco queste alture, sarebbero i siriani a guardare dentro a Israele. E cosa accadrebbe se al posto del regime di Assad prendesse il potere un governo islamista con mire genocide nei confronti del vicino ebraico?
Sul Golan non ci sono palestinesi, solo ebrei e drusi che hanno convissuto in armonia. Anche i “coloni” del Golan sono diversi da quelli della Cisgiordania. Sono nazionalisti di sinistra, dediti alla pace e alla difesa d’Israele. Si può arrivare in auto fino ai bordi di Quneitra, passeggiando dentro a una vecchia base militare siriana abbandonata. Un cartello militare impone l’alt. Oltre è Siria.
Quneitra è una specie di monumento alla guerra, che i siriani hanno conservato a ricordo del colpo inflitto da Israele nel 1967. Assad padre fece erigere una nuova Quneitra due chilometri a est della vecchia città. Quarantacinque mila cittadini siriani furono costretti alla fuga. Il villaggio, dopo la decisione di restituirlo a Damasco, non fu bombardato, ma le sue case furono fatte saltare in aria prima del ritiro. Si salvò soltanto una chiesa greco-ortodossa. Dalla cima della collinetta, dopo l’ultima bandiera siriana, c’è mezzo chilometro di terra di nessuno, occupato da una garitta dai caschi blu dell’Onu. Sopra c’è una postazione israeliana, groviglio di antenne e radar.
I drusi dei villaggi circostanti, come Masaade, soffrono per la divisione patita dai loro parenti rimasti di là dal confine: tante volte da una parte all’altra le famiglie si parlano con megafoni chiedendosi notizie dei loro cari. Attraversando il villaggio, con le sue pompe di benzina e case mai finite, a Masaade non si vede una sola bandiera israeliana. Anche gli israeliani hanno lasciato intatti i segni del lutto. Vicino a un bar, su una altura dove Israele porta in visita scolaresche e nuovi immigrati, c’è un chiosco che si chiama “Coffee Annan”, facendo il verso all’ex segretario delle Nazioni Unite. Nel sentiero un artista locale ha fatto sculture con pezzi di missili e tank. Più in là c’è la bocca spalancata di una casa sventrata dalle bombe. Oltre una lapide elementare che piange un figlio di vent’anni.
Il Golan è un gigantesco memoriale. Presso il moshav di Neveh Ativ sorge il cippo alla brigata Egoz, che pattugliava il confine israeliano con Giordania, Siria e Libano. Non lontano c’è la tomba dello sceicco druso El Hazuri. Poi trentuno placche di bronzo con inciso il nome dei caduti. Verso il monte Hermon c’è un boschetto detto Oz77, in ebraico vuol dire “forza”.
Ex basi siriane sono ovunque nel Golan, a uso degli israeliani. Centinaia di giovani carristi si muovono in esercitazione. Campi di mele, aride steppe di rocce vulcaniche, kibbutz sperduti più volte evacuati durante le guerre. E poi Gamla, che domina una serie di crateri e di valli di basalto, in fondo al burrone ci sono i resti di un villaggio ebraico espugnato dall’imperatore Adriano dopo una tragica battaglia.
Che non sia nell’aria un accordo con la Siria per il ritiro dal Golan ce lo dice la città di Katzrin. E’ una perla di modernità, efficienza e futurismo nel cuore del Golan. Chi vive sperduto quaggù, costretto all’autosufficienza, lo fa in nome di un’opera che ritiene ancora in corso: Israele. Le case dai tetti rossi sono in continua costruzione e le palme rigogliose che dividono la strada centrale di Katzrin non lasciano pensare ad alcuna evacuazione. A differenza che nella West Bank, dove la vita dei coloni è “congelata”, qui si costruisce a pieno ritmo. Le villette costano poco: il loro futuro è sempre incerto. Camion pieni di bottiglie del famoso vino del Golan, boicottato da mezzo mondo, escono di continuo. Si piantano nuovi vitigni.
Prima della guerra del 1967, prima che Israele controllasse il Golan e i bordi del lago di Galilea, lo stato ebraico aveva piantato una fila di alberi ai bordi delle strade, a protezione dei passanti uccisi dai cecchini siriani. Quegli alberi sono ancora lì, muti testimoni di una tregua sempre in discussione. Scendendo dal Golan si arriva al lago di Galilea. E di nuovo tutto s’intreccia. L’origine del pionierismo d’Israele, il kibbutz Kinneret, sorge a pochi metri dalla fine del fiume Giordano che scorre su un fondo sabbioso e granuloso strappato al deserto, dove gruppi di protestanti vengono a farsi battezzare nel nome di Gesù. Nel parco dove Yitzhak Rabin e il re giordano Hussein firmarono la pace dell’acqua, di fronte al centro culturale Gavriel, il lago di Galilea si sta ritirando. Triste epitaffio alla pace che fu.
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di Giulio Meotti